interviste

40 anni di cinema, 188 film e tanti progetti "da farvi impallidire"
Intervista con Alberto Sordi
Un italiano allo specchio
Ancora un premio, il suo compleanno, e tutto l'affetto del pubblico italiano

(GRTV) Sempre più amato. Sempre più premiato. Sempre più festeggiato. In occasione dei suoi 76 anni, una festa a sorpresa gli è stata regalata dai suoi fan romani riuniti nel club "I vitelloni", stesso nome di un suo celebre film diretto da Federico Fellini. Alberto Sordi, da qualche anno, è diventato tra gli attori più premiati del cinema italiano, ulteriori riconoscimenti a lui che ha saputo incarnare e spesso anticipare personaggi emblema della nostra società. Riconoscimenti venuti anche dall'estero, ricordiamo la Legion d'onore ricevuta a Cannes nel 1993.
Noi lo abbiamo incontrato ad Assisi, in occasione della quattordicesima rassegna del cinema italiano "Primo piano sull'autore" dedicata proprio ad Alberto Sordi nella veste di autore. Si è voluto rendere omaggio all'Alberto Sordi regista che dal 1966, anno in cui ha realizzato "Fumo di Londra", fino ad oggi con "Nestore, l'ultima corsa" ha sempre saputo cogliere con ironia lo spirito dell'italiano nelle più svariate situazioni. Alla nostra richiesta di intervista ha subito dato la sua disponibilità, nonostante gli impegni e gli incontri organizzati per l'occasione, e quando ha saputo che era diretta agli italiani all'estero, con maggiore entusiasmo ci ha regalato un po' del suo tempo.

Io continuo a chiamarla "maestro" come hanno fatto in questi giorni i miei colleghi. La sua è una carriera ricca di premi, di riconoscimenti e di tributi sia da parte della critica che del pubblico. Finora però le hanno sempre assegnato dei premi come interprete, questo di Assisi invece, vuole essere un omaggio alla sua attività di autore. Per lei ha un significato particolare?

In realtà sono nato come autore, perché agli inizi della mia carriera ero io stesso a fare delle proposte. Non per essere modesto, ma io conoscevo e conosco i limiti delle mie possibilità, perciò non nasco come attore, non ho fatto accademia o scuola di recitazione; ho intrapreso la carriera facendo musical, varietà, rivista, forme di spettacolo che non richiedevano particolari virtuosismi, una voce perfetta, un parlare da attore ecc. Potevo somigliare alla gente, difatti il mio virtuosismo è proprio quello di parlare come la gente comune, e quando il cinema si è accorto di me, quando con i due film di Federico Fellini "Lo sceicco bianco" e "I vitelloni" è iniziata questa mia carriera, intendevo realizzare un programma ben preciso. E questo è stato possibile visto che nel corso di 40 anni di attività e 188 film, sono riuscito a proporre al pubblico un costume italiano che si evolveva rapidamente con film che rispecchiavano la realtà del momento. Sono andato al passo con l'evoluzione del costume, ma anche con la mia età: ho fatto il giovane, ho fatto i figli, poi i fidanzati, i mariti, i padri e adesso, dopo 40 anni, se San Francesco mi aiuta posso ancora continuare. Sono ad Assisi per questa rassegna di film che mi hanno dedicato e ringrazio coloro che mi hanno offerto la possibilità di essere presente ricevendo sia dal pubblico, sia dagli addetti ai lavori, uomini di cultura, critici, scrittori, manifestazioni di simpatia, di approvazione e di affetto. Sono gratificato, commosso e lusingato perché per un artista il consenso è il miglior premio che si possa avere.

Lei diceva che ha saputo interpretare il costume italiano, dopo l'ultimo film "Nestore", in cui ha evidenziato l'indifferenza della società nei confronti delle persone della terza età nonostante siano la realtà del futuro, cosa pensa di rappresentare più avanti?

Ai signori che mi hanno insignito del Leone d'Oro a Venezia per la carriera, ho detto che chiudevo questa carriera, ma ne aprivo un'altra, una nuova, perché ho una serie di vecchi da rappresentare da farvi impallidire tutti. Perciò "Nestore l'ultima corsa" è il primo, diciamo così, di questi vecchi con cui ho affrontato un problema molto importante e grave. In Italia purtroppo il vecchio è considerato un peso morto, un uomo che non produce più, che non segue il ritmo della vita consumistica di oggi, per cui si invita il vecchio ad andare all'ospizio. Io da qualche anno frequento questi ospizi e sento il rammarico degli anziani rinchiusi lì mentre hanno tutta la voglia, le energie ed il bisogno di stare a casa loro insieme ai figli e ai nipotini. Per questo ho rappresentato il vecchio di umili condizioni, cioè un vetturino delle carrozzelle romane, che portando a spasso i turisti per la città, per tutta la vita ha dato il suo contributo alla società e poi, purtroppo, a 80 anni deve ritirarsi per andare in una casa di riposo. Per il suo cavallo, questo fedele, devoto amico, non c'è la casa di riposo, ma il mattatoio. Il film racconta la storia di questo vecchio che per salvare la vita al suo cavallo intraprende una serie di peripezie in questa bellissima ma caotica città dove non c'è certo posto per il cavallo. Sono riuscito, con mia grande soddisfazione, a sensibilizzare l'opinione pubblica e soprattutto i giovani a questo grave problema; quindi consiglio loro di tenersi i nonni a casa e di contribuire (questo l'ha fatto anche il sindaco di Roma Rutelli, e spero anche gli altri) trovando un appezzamento di terra per quei cavalli che devotamente hanno servito l'uomo, per finire i loro giorni non in un mattatoio, ma in questo spazio a loro riservato per chiudere in bellezza, lieti e felici di avere la gratitudine degli uomini che hanno servito.
Dopo questo film, sto preparando un altro soggetto che vede protagonista ancora un vecchio, ma un vecchio mandrillo che la sa lunga.

Tra i suoi numerosissimi film, lei ha interpretato spesso anche personaggi di italiani all'estero nelle varie sfaccettature. Se dovesse oggi interpretare un italiano all'estero, con quali tratti lo dipingerebbe?

Di film sull'italiano all'estero ne ho fatti diversi, come "Un italiano in America" con De Sica, che racconta la storia di un emigrante che crede di incontrare il padre dopo 30 anni. L'incontro avviene, ma scopre una realtà non molto lieta. Poi c'è stato "Bello, onesto, emigrato in Australia", con la Cardinale, e "Fumo di Londra", la storia di uno snob, piccolo antiquario di Perugia che va a Londra alla conquista di questo grande Paese. Ho sempre messo in queste interpretazioni un calore particolare, forse perché entrando nella parte ho potuto vivere, e questo è certo uno degli aspetti più interessanti del mestiere di attore, le loro emozioni, la nostalgia, l'amore per il nostro Paese.
Oggi sarebbe inopportuno interpretare la realtà dell'italiano all'estero: chi lascia più questo bellissimo Paese che è l'Italia, soprattutto alla mia età? Forse dovrei pensare ad un vecchio italiano ormai diventato un uomo di un certo prestigio che lavora all'estero.

Negli ultimi due anni, in particolare, non c'è occasione legata al cinema in cui non viene assegnato un premio al grande Alberto Sordi. Cosa dire per ringraziare di questo affetto che Assisi, Venezia, Roma e tutta l'Italia Le sta dimostrando?

Innanzitutto un interminabile grazie a coloro che mi hanno manifestato stima, simpatia, gratitudine. Io mi prendo questo premio e dò l'appuntamento tra una quarantina di anni, con un altro film e un altro premio... Sempre con l'aiuto e la grazia di San Francesco.

Giovanna Chiarilli/GRTV

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ALBERTO SORDI E CINECITTA’

Quando ero un ragazzino, come tutta Roma affamata, venivo a Cinecittà a fare la comparsa. Ci facevano entrare dall’ingresso secondario degli stabilimenti. Il capo comparse ci divideva per ruoli: "Gallo…romano…gallo…romano…gallo…romano ". Ai tempi di Tre ragazze cercano marito, mentre si girava, il suono della sirena d’allarme paralizzava Cinecittà: dovevamo scappare tutti ai rifugi per salvarci dai bombardamenti. Spesso qualcuno del partito fascista s’infiltrava a Cinecittà per cercare di mettere le mani su quelli che si arrangiavano facendo la borsa nera. Quando si girava Scipione l’Africano, e io facevo la comparsa, gli edifici di Cinecittà erano incompleti: di alcuni c’erano solo le fondamenta. Ricordo le visite di Mussolini.

All’epoca del presidente Marconi si facevano molte feste, e quello fu un periodo molto divertente. Cinecittà era la mèta. Dopo la guerra Cinecittà era tutta da ricostruire e il neorealismo nacque per necessità: c’era la misera, non c’era più niente. Ai cineasti non restava altro che fare il cinema per la strada…In quei tempi tutto si faceva sul piano artigianale e le tecniche erano ancora quelle dei pionieri. Negli anni Cinquanta, con l’arrivo degli americani ci fu la trasformazione, un cambiamento necessario per poter fronteggiare le nuove esigenze di spettacolo.

Era cambiata Cinecittà, ma era cambiato soprattutto il cinema. Parlo della maniera di farlo e non soltanto dei contenuti. Cinecittà, grazie anche alla bravura dei nostri tecnici, che sono sempre stati i migliori del mondo, era l’unico centro di produzione in Europa che offrisse un ciclo di lavoro completo. Il regista entrava negli studi con tante idee in testa ed usciva con le pizze di celluloide sotto il braccio, con il film pronto per la proiezione. Gli americani ci avevano insegnato tante cose, ma i nostri registi e tecnici, quanto ad inventiva, sono stati in grado di insegnare moltissimo ai colleghi di oltreoceano. Non c’era un buco vuoto a Cinecittà, e quasi sempre il regista, prima di andarsene, prenotava lo studio per il suo prossimo film.

Intervista a cura di Demetrio Soare

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