Umberto Curi
"Guerra"
e "politica" nel pensiero antico
14/3/1988
1 È
convinzione diffusa che tra guerra e politica vi sia
un’opposizione totale, nel senso che la guerra
rappresenterebbe la negazione della politica, il
fallimento della politica. Professor Curi, condivide
questa opinione?
Si tratta certamente di una convinzione molto diffusa,
fondata su un’intuizione del senso comune, secondo
cui guerra e politica sarebbero strumenti di risoluzione
dei conflitti nettamente diversi l’uno
dall’altro. La guerra si presenterebbe come uno
strumento violento di risoluzione della conflittualità,
non sottoposto ad alcuna regola e sostanzialmente
irrazionale; la politica, per definizione, si
presenterebbe invece come una forma di soluzione dei
conflitti pacifica, razionale, sottoposta a regole. Pur
avendo tuttavia un evidente fondamento nel senso comune,
tale opposizione così netta, tale antagonismo radicale,
si attenua fortemente, forse addirittura svanisce, sulla
base di un’analisi storica del ruolo che le guerre
hanno esercitato nella storia e mediante una
ricostruzione di carattere filosofico capace di mettere
in evidenza come tra guerra e politica non si sia mai
presentata un’opposizione radicale, ma piuttosto un
rapporto che è stato sovente di traducibilità della
guerra in politica, e qualche volta, di vera e propria
continuità fra questi due concetti.
Certamente però la politica sembra avere caratteri
irriducibilmente contraddittori rispetto alla guerra, se
essa viene, come detto, considerata come lo spazio
regolato, disciplinato, razionale, in cui le controversie
e gli antagonismi, che pure esistono fra gli uomini,
vengono risolti mediante metodi pacifici. Potrebbe essere
interessante sottolineare un aspetto che invece per lo
più viene trascurato. Platone, in un dialogo
particolarmente significativo per l’analisi del
rapporto tra guerra e politica, e cioè il Protagora,
ricorda che esiste una radice anche etimologica comune
fra tre concetti che abitualmente invece, proprio perché
in italiano sono espressi in termini diversi, tendiamo a
distinguere: il concetto di 'città', di 'politica' e
quello di 'guerra'. Come Platone osserva, città è
polis, politica è politiké techne e guerra è polemos.
Tutti e tre questi concetti hanno la medesima radice che
è 'pol', derivante dall’indoeuropeo 'ptol', che
troviamo alla base tanto della guerra, polemos, quanto
della politica, politiké techne. Da questo punto di
vista, particolarmente interessante, è utile addentrarsi
nella lettura del Protagora,
e soprattutto di quella parte di esso in cui il rapporto
tra politica e guerra è affrontato più esplicitamente.
2 La
conclusione estremistica, ad esempio della posizione di
Schmitt, è che la guerra sarebbe il fondamento della
politica, ma anche di tutti i rapporti tra gli uomini;
qual è l’origine di questa idea?
Questa conclusione ci consente di risalire alle origini
della filosofia, e addirittura alle primissime parole a
noi pervenute del pensiero occidentale. Si è osservato
infatti che nel celebre 'frammento b 1' di Anassimandro
la descrizione della vicenda cosmica, cioè della
generazione e della dissoluzione degli enti, avviene
attraverso un reciproco «rendersi ingiustizia», che
presuppone il conflitto, la conflittualità tra questi
enti, come motore ed elemento produttivo del divenire
storico. In certa misura quindi, sia pure con un
riferimento non specifico alla guerra, bensì alla
conflittualità che regnerebbe ovunque nel cosmo, anche
Anassimandro riconosce che la guerra è un fattore di
determinazione positivo della molteplicità.
Dopo Anassimandro, per restare nel pensiero presocratico,
si impongono almeno due riferimenti. Il primo, e forse
anche il più noto, è quello di Empedocle, che indicava,
come origine di tutto, due principi fondamentali: la
philia, l’amicizia, e neikos, la contesa. È
importante sottolineare che, secondo Empedocle, nei
periodi in cui predomina la philia, l’amicizia, la
sfera compatta del cosmo impedisce la realizzazione della
molteplicità, il divenire e quindi l’esistenza
stessa del mondo e degli enti finiti, mentre è proprio
neikos, la contesa, che consente invece lo svilupparsi
della vita, del divenire, della molteplicità degli enti.
Per completare, sia pure per accenni, tali riferimenti
alla filosofia presocratica, non c’è dubbio che il
pensatore di gran lunga più interessante per quanto
riguarda la concezione della guerra sia Eraclito. Si
tratta di un pensatore che alla guerra dedica molti
frammenti, o, almeno, molti frammenti che ci sono
pervenuti della sua opera si richiamano alla nozione di
'guerra'; ve ne sono in particolare due che vanno
richiamati. Il primo è il 'frammento 80', nel quale
Eraclito afferma che si deve sapere che la guerra è
comune, che la giustizia è contesa e che tutto avviene
secondo contesa e necessità. Come si vede, la guerra è
proprio un principio ordinatore del cosmo, una sorta di
legge che domina l’organizzazione complessiva
dell’universo. Il secondo è il celebre 'frammento
53' di Eraclito, dove egli afferma che la guerra è
«padre e re di tutte le cose», che gli uni rivela come
dei, gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri
liberi.
È un frammento importantissimo, che è stato analizzato
da moltissimi studiosi, e nel quale va sottolineato in
particolare un aspetto: polemos, la guerra è «padre e
re di tutte le cose», e padre e re sono le due
designazioni che secondo la mitologia greca si
attribuivano a Zeus, la somma fra le divinità. Eraclito
dunque attribuisce intenzionalmente alla guerra non solo
le stesse designazioni di Zeus, ma anche la stessa
funzione che secondo la mitologia classica era attribuita
a Zeus, cioè quella di distinguere gli schiavi dai
liberi, gli dei dagli uomini. Un riconoscimento più
esplicito, e se vogliamo anche più suggestivo di questa
funzione non disgregatrice, non negativa, non meramente
irrazionale della guerra, è difficile da trovare: siamo
proprio all’alba del pensiero occidentale.
3 -
Quando si parla di politica, spesso si usano le categorie
della morale, si parla infatti di uomini politici
«corrotti», di uomini politici che hanno qualità
morali particolari, del rapporto tra politica ed
economia. Esiste un’autonomia della sfera della
politica, oppure questa è legata intrinsecamente alle
altre sfere dell’agire umano?
Indubbiamente una connessione c’è, deve essere
riconosciuta ed è stata riconosciuta ripetutamente nel
corso del pensiero occidentale. Tale connessione non può
tuttavia indurre a trascurare l’identità specifica
di questi ambiti, della morale e della politica, e tanto
meno deve indurre a confondere categorie e termini
specifici che valgono all’interno di un ambito ma
non possono per ciò stesso essere applicati, estesi
meccanicamente all’altro. Da questo punto di vista
proprio il riconoscimento della sostanziale indipendenza,
o comunque della distinzione di principio, tra politica e
morale, ci fa anche comprendere che, se è vero, come
afferma Platone nel Protagora,
che 'polemos', la guerra, è parte della politica, non si
deve però giudicare la guerra secondo categorie morali.
Essa appartiene cioè ad un ambito, quello della
politica, in cui vigono alcune regole, e va quindi
giudicata in base a tali regole. Giudizi di carattere
morale sulla guerra sono certamente possibili, sono anche
validi, ma probabilmente non colgono ciò che della
guerra rappresenta l’essenza. In questo caso forse
si può riprendere ciò che affermava Carl Schmitt quando
ricordava che l’essenza della politica è spesso la
guerra, cioè un conflitto che, almeno di principio, può
essere spinto ai limiti dell’«inimicizia
assoluta».
4 - Professor
Curi, come si presenta in Platone l’origine e la
natura stessa dell’arte della politica nel suo
rapporto con la guerra ?
È nota la definizione di Platone della politica come
'basiliké' techne, cioè come «arte regia».
Altrettanto nota è però anche la convinzione di Platone
secondo cui, poiché la società ha origine
dall’emergere di alcuni bisogni che non sono quelli
originari dell’individuo, anche la politica presenta
un carattere in qualche modo artificiale, di costruzione,
che non corrisponde direttamente alla configurazione
naturale originaria dell’individuo. Si trova, sempre
nel Protagora,
una tesi che qualcuno potrebbe considerare molto moderna,
molto vicina a noi: la guerra è «parte della
politica». È significativo il contesto generale, la
rilettura platonica di uno dei miti più celebri di tutta
l’antichità greca, il mito di Prometeo, in cui
questo ragionamento più specifico viene affrontato;
secondo Wilamowitz, il grande studioso
dell’antichità greca, il mito di Prometeo potrebbe
addirittura essere considerato il simbolo di tutta la
cultura e la civiltà greca.
Platone rilegge questo mito in termini particolarmente
originali e suggestivi, presentando sostanzialmente
questa situazione: all’origine della storia
dell’umanità Zeus ha incaricato i due fratelli,
«semidei», Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte
le specie viventi le «qualità» che consentano loro di
sopravvivere. Alla distribuzione di queste qualità
necessarie per la sopravvivenza provvede, fra i due,
proprio Epimeteo che, come si ricava
dall’etimologia, è «colui che vede dopo», è
quindi l’insensato, lo sciocco. Effettivamente
Epimeteo, tenendo fede al suo nome, distribuisce le
diverse qualità, la velocità, la forza, le unghie, gli
artigli, alle varie specie viventi dimenticando gli
uomini. A quel punto, esaurita la scorta delle qualità
disponibili, sopravviene Prometeo, che è invece «colui
che vede prima», ed è quindi il saggio. Prometeo non sa
più come evitare l’estinzione dell’umanità,
che sarebbe stata abbandonata senza alcuna qualità
necessaria alla sopravvivenza, e allora compie il furto
sacrilego, sottrae ad Efesto e ad Atena quella che si
chiama euteknos sophia,
cioè il «sapere tecnico», ed il fuoco. Prometeo dona
insomma agli uomini il fuoco e la tecnica, che dovrebbero
servire loro per sopravvivere e scongiurare gli attacchi
delle fiere. Poiché tuttavia - e questo è il passaggio
che più da vicino ci interessa - gli uomini vivevano
dispersi, non abitavano città, essi erano costretti a
subire gli attacchi delle fiere e quindi morivano. Questo
accadeva perché, continua Platone, essi non possedevano
ancora l’arte politica, politiké techne, di cui è
parte polemos, la guerra.
Il ragionamento di Platone, in sintesi, può essere
presentato in questi termini: all’origine gli uomini
non erano in grado di costituire città, e perciò non
avevano sviluppato l’arte politica né il polemos,
la guerra, mediante il quale essi avrebbero potuto
difendersi dagli attacchi delle fiere. Occorre a questo
punto - così conclude il mito - un intervento
straordinario di Zeus, che doni agli uomini pudore e
giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare
città, dalle quali scaturisce l’esercizio
dell’arte politica e dunque la guerra. Secondo la
ricostruzione suggerita da Platone, la guerra è allora
uno strumento fondamentale per la sopravvivenza del
genere umano ed è elemento interno della politica. Si
tratta di un riconoscimento molto realistico, che gode
anche del fascino e della suggestione del mito in cui è
inscritto. Pensando ai doni straordinari elargiti da Zeus
agli uomini affinché essi possano costituire città,
sviluppare la politica e quindi la guerra, e pensando che
questi doni sono appunto aidòs e dike, «pudore» e
«giustizia», dobbiamo riconoscere che viene sviluppata
originariamente una connessione tra dike, che interviene
nell’ambito appunto dell’etica, e polemos,
politiké techne, che riguardano invece l’ambito
della politica.
5 - Platone,
nella Repubblica, parla diffusamente del concetto di
Stato e descrive i principi costituzionali dello Stato
ideale, ovvero della massima espressione della politica.
Può descriverci questi principi costituzionali e quale
è la funzione della guerra per lo Stato?
Si può fare riferimento al secondo libro della
Repubblica - il dialogo sullo Stato - in cui Socrate,
sollecitato dai suoi interlocutori, cerca di ricostruire
l’origine dello Stato. Come noto, si tratta di una
ricostruzione genetica che indica anche i termini
concettuali che sono alla base della definizione dello
Stato. Troviamo qui un passaggio che, per quanto riguarda
il tema di cui stiamo discutendo, sembra particolarmente
significativo. Platone ha innanzitutto descritto lo Stato
originario come «Stato dei porci», in cui ciascun
individuo soddisfa cioè solo le sue esigenze primarie,
quelle della sopravvivenza, che consistono in un vitto
estremamente sobrio e modesto e in un abbigliamento
ridotto all’essenziale. Sollecitato dal suo
interlocutore lo stesso Socrate afferma che è
inevitabile che si passi da questa condizione primitiva,
rudimentale, dello «Stato dei porci», ad una condizione
diversa. Affinché però sia possibile che lo Stato
diventi qualcosa di molto più simile a quello che noi
conosciamo, diventi cioè uno Stato dove si sviluppano il
commercio, le attività produttive, e dove vi è una
crescita anche della ricchezza, Platone sostiene che è
indispensabile fare ricorso alla guerra.
La guerra è lo strumento di accrescimento dello Stato,
è il mezzo attraverso il quale si passa dallo «Stato
dei porci» a quello che lo stesso Platone definisce lo
«Stato gonfio di lusso». Se si riflette sul significato
che in questo modo Platone attribuisce alla guerra, è
facile vedere quali ne sono le implicazioni. Anzitutto,
in questo modo la guerra funziona come strumento di
incivilimento, come fattore di progresso o, per essere
più precisi, come strumento attraverso il quale inizia
una parabola di successivo ampliamento dello Stato e
quindi anche di un suo perfezionamento. In secondo luogo,
poiché Platone ritiene che ciascun individuo possa
svolgere adeguatamente solo un lavoro, possa attendere
cioè ad un'unica occupazione, essendo necessaria la
guerra come strumento di crescita dello Stato, si deve
pensare ad una classe di guerrieri che lo custodiscano e
difendano. La guerra è quindi ciò che definisce
l’articolazione in classi della società: così come
vi sarà una classe di guerrieri vi sarà infatti una
classe di filosofi, o governanti, ed una classe di
produttori, di coloro cioè che dovranno produrre.
In Platone c’è il realistico riconoscimento della
funzione «produttiva» della guerra, del fatto cioè che
essa «produce Stato», è strumento e mezzo di
«progressivo incivilimento». Se riflettiamo sul
significato filosofico di questa trattazione mitica di
Platone, nella Repubblica, possiamo definire due aspetti
particolarmente significativi: il primo è che secondo
Platone la guerra è strumento di incivilimento, fattore
di produzione di Stato, proprio perché è attraverso di
essa che si passa da quella condizione primitiva e
rudimentale dello Stato allo Stato ricco ed evoluto; il
secondo elemento significativo è che, dal momento che
l’articolazione in classi della società presuppone
l’esistenza di una classe di guerrieri, il cui
compito è appunto quello di attendere alla guerra,
questa è anche uno strumento attraverso il quale si
fissa ulteriormente la definizione e l’articolazione
stessa delle classi sociali. Si può dire insomma che
Platone sia lontanissimo dal condividere una visione
puramente emotiva della guerra, o dal considerarla
soltanto un malinteso, un incidente di percorso o
l’espressione di fattori puramente irrazionali. Vi
è invece la lucida consapevolezza, talora anche
realistica e particolarmente cupa e pessimistica, del
ruolo che la guerra ha avuto proprio nella storia
dell’evoluzione del genere umano.
6 - La
Repubblica è un’opera che sta
a fondamento di tutta la riflessione politica della
civiltà occidentale successiva a Platone, fino ai giorni
nostri. Un filosofo di ispirazione liberale come Popper
l’ha considerata un testo che in qualche modo
anticipa tutte le forme di dispotismo politico; altri,
come Gadamer, pensano che La
Repubblica sia invece soprattutto un
libro ironico; Marx invece lo considerava un testo
«conservatore», proprio a causa della teoria della
rigida divisione tra le classi. Cosa si deve dire allora
del valore di quest’opera di Platone?
Non è facile, specie di fronte alla citazione di
autorità così significative, esprimere
un’opinione; potrebbe sembrare troppo comodo
sostenere semplicemente che ciascuno degli autori che
sono stati citati coglie aspetti effettivi di questo
importantissimo dialogo platonico. È evidente peraltro
che tanto in Popper quanto in Marx e nello stesso
Gadamer, La Repubblica,
invece di essere analizzata nel suo significato per la
filosofia di Platone e per l’epoca in cui Platone è
vissuto, diventa invece un punto di applicazione, se non
addirittura un pretesto, per mettere in luce una propria
prospettiva filosofica. Quello che certamente si può
sottolineare, per quanto concerne in particolare il tema
di cui stiamo discutendo, è che proprio
l’avversione dichiarata, che Popper manifesta nei
confronti di questo testo platonico, sta a dimostrare la
grande rilevanza che esso ha proprio per il superamento
di una visione puramente riduttivo-negativa della guerra,
e dunque anche come avvio di una nozione di
‘pace’ che non sia soltanto di tipo
«esigenziale».
Proprio lo sviluppo successivo della riflessione
platonica, culminata con Le Leggi
- che probabilmente è l’ultima opera di Platone -
sta a dimostrare che egli è irriducibile
all’immagine che Popper ne fornisce, cioè del
filosofo della società chiusa, autoritario, fautore
della guerra. In Platone è vivissima l’esigenza di
una fondazione razionale, in chiave filosofica, del
concetto di ‘pace’, cui egli tuttavia perviene
non prima di avere analizzato, con tutto il rigore
necessario, il rapporto tra guerra e politica ed aver
stabilito l’importanza che la guerra ha avuto nella
storia dell’umanità.
7 - Sempre in
riferimento a Platone, è opportuno quindi analizzare il
concetto della 'pace': secondo Platone 'pace' è soltanto
un nome, cui non corrisponde alcuna realtà. In questa
prospettiva non c’è più alcuno spiraglio per un
discorso ottimistico riguardo la politica?
Il riferimento implicito, riguardo al tema della pace, è
al dialogo conclusivo della produzione platonica, Le
Leggi. Si tratta di un dialogo di
straordinaria importanza per il rapporto tra guerra e
pace, tra guerra e politica; in generale si può dire
senza alcun dubbio che Le Leggi sono
un’opera fondamentale in tutta la produzione
platonica. È giusto anzitutto sottolineare quali sono i
protagonisti di questo dialogo; a differenza di ciò che
accade in altri dialoghi, dove vi è un protagonista
incontrastato - spesso Socrate, accanto al quale
compaiono altre figure comprimarie - in quest’opera
i tre protagonisti sono rappresentativi dei tre più
importanti modelli costituzionali della Grecia antica:
questi sono l’ospite ateniese, anonimo, Clinia di
Creta e Megillo di Sparta. Il dialogo che conducono tra
loro riguarda il problema relativo a quale debba essere
il migliore ordinamento legislativo dello Stato. A questo
proposito l’esordio del dialogo può essere definito
di realismo particolarmente crudo: è infatti nelle
parole che vengono pronunciate dal cretese Clinia emerge
una visione della pace che potremmo definire perfino
disperata. Clinia afferma che ciò che la maggior parte
degli uomini chiamano «pace» non è altro che un nome,
mentre nella realtà delle cose, per forza di natura,
c’è sempre una guerra, seppur non dichiarata, di
tutti gli Stati contro gli altri Stati. Quasi a rendere
ancora più drammatico questo discorso, successivamente
stimolato dall’ateniese, lo stesso Clinia sostiene
non solo che la condizione di guerra è quella che
troviamo nella realtà, nella storia dell’umanità,
mentre la pace è solo un nome, l’espressione di un
desiderio, ma anche che c’è guerra in ciascuno di
noi contro se stesso. La guerra assume così una
dimensione «universale», non solo di regolazione del
rapporto fra gli Stati, ma anche di rappresentazione
della realtà conflittuale che è all’interno di
ciascun uomo.
In base alla discussione sviluppata all’inizio delle
Leggi, la guerra appartiene alla storia del genere umano,
e da essa non è possibile liberarsi. Per questa ragione
il cretese Clinia, può sostenere che l’ordinamento
di uno Stato, le sue leggi, debbano trovare la loro
ispirazione ed il loro fondamento nelle esigenze della
guerra. Il ragionamento che Platone ha iniziato con il Protagora
- parlando del rapporto 'guerra-politica' come di un
rapporto in cui la guerra è «parte della politica», e
che ha ripreso con la Repubblica, affermando che la
guerra produce Stato ed è alla base
dell’articolazione in classi della società - lo si
ritrova ora nelle Leggi, in cui questo discorso ha il suo
esito più rigoroso: la guerra è parte insopprimibile
non solo delle relazioni tra gli Stati, ma della stessa
vita dell’uomo. A questo punto sembra non esservi
alcuna prospettiva di emancipazione dalla guerra, anche
se lo sviluppo del discorso, condotto da Platone nelle
Leggi, mostra la possibilità di una fondazione
razionale, rigorosamente filosofica della stessa nozione
di ‘pace’.
8 - In
questo viaggio a ritroso per cercare di cogliere le
origini, nella nostra civiltà, del concetto di
‘guerra’, ci si è soffermati soprattutto
sull’antica Grecia; per quanto riguarda il mondo
cristiano, e quindi la religione e la filosofia ispirate
al Cristianesimo, si potrebbe pensare, ad esempio alle
parole di San Paolo, quando egli esorta ad amare i propri
nemici. Invece di usare il termine hoste', che in latino
appunto indica il nemico politico, egli usa però il
termine inimicos, che indica i nemici in senso personale.
Professor Curi, in che senso questa distinzione può
essere risultato della fondamentale concezione platonica?
Effettivamente questa distinzione terminologica è molto
interessante, anche proprio perché riprende, con
mutamenti che non ne invalidano tuttavia la sostanza,
proprio la distinzione condotta da Platone nelle Leggi,
quando l’ateniese, interloquendo con Clinia che ha
appena sostenuto che la guerra è una condizione
insuperabile della vita dell’uomo, distingue tra
'polemos' e 'stasis'. È una distinzione di fondamentale
importanza: polemos è la guerra esterna, la guerra che
si conduce con coloro che sono esterni ad una unità, ad
una organizzazione statuale definita. Stasis è invece la
discordia, la guerra civile, quella che interviene
all’interno di un organismo statale. L’ateniese
sottolinea allora che è necessario riconoscere
l’ineluttabilità del polemos, della guerra esterna,
che abbiamo già visto essere uno strumento di difesa e
qualche volta anche di accrescimento di uno Stato, mentre
la stasis, la guerra civile, la guerra che si combatte
tra fratelli, è del tutto deprecabile. È necessario
insistere in particolare su questo termine: la stasis è
la discordia che interviene tra adelphoi, tra fratelli.
Platone, anticipando la riflessione della filosofia
patristica e scolastica, pone insomma le premesse per un
discorso razionale sulla pace che è di straordinario
interesse e di grande attualità. Platone riconosce, in
altri termini, se non la legittimità, almeno
l’insuperabilità della guerra come polemos, anche
se d’altro canto indica con particolare rigore quali
possano essere gli eccessi, le devastazioni cui conduce
la guerra civile, la guerra interna, quella che
interviene «tra fratelli». Se è questo lo schema del
ragionamento platonico, è evidente che il concetto di
gran lunga più importante è allora quello di
'fratellanza', sul cui significato è opportuno fare
alcune precisazioni. È noto che adelphos, dal punto di
vista etimologico, deriva da delphys, cioè «utero»; i
fratelli sarebbero dunque coloro che vengono dallo stesso
utero. Questo concetto di ‘fratellanza’ non va
inteso però, anche secondo Platone, in senso
strettamente genetico-biologico, ma più in generale in
senso culturale, cercando di comprendere come la guerra,
che interviene tra coloro che sono o si considerano
fratelli, sia sempre stasis, cioè guerra civile - come
tale è sempre condannabile - e mai polemos, guerra
esterna. È bene tenere sempre presente questo punto
della riflessione platonica, questa distinzione tra
guerra «interna» ed «esterna». Per tornare invece
alla citazione di San Paolo, essa ci mostra come la
riflessione della filosofia cristiana, della patristica e
poi della scolastica, si sviluppi proprio a partire, più
o meno esplicitamente e più o meno direttamente, da
questi luoghi del pensiero platonico.
Ma bisogna riconoscere che un'analisi del concetto di
‘guerra’ nella filosofia cristiana non è stato
condotta in maniera approfondita, e non si può essere
neppure in grado di fornire indicazioni esaurienti. Va
comunque subito sottolineato un aspetto di grande
importanza: la filosofia dei Padri della Chiesa, nei
primi secoli dell’era cristiana, si trova subito di
fronte un problema di compatibilità tra le due fonti
testamentarie. Infatti, come noto, nell’Antico
Testamento la figura di Dio è presentata come «Signore
Dio degli eserciti»; la stessa profezia
dell’avvento del Messia, è intesa come l'imminente
avvento non tanto del redentore delle anime, quanto di
colui che riuscirà a sottrarre il popolo eletto al giogo
politico in cui egli si trova a vivere, e che quindi lo
riscatterà dal punto di vista politico e militare. Non
si deve dimenticare che nell’Antico Testamento,
oltre la visione di Dio come «condottiero degli
eserciti», è presente la «legge del taglione». Il
Nuovo Testamento rovescia questa posizione: c’è un
passaggio dei Vangeli Sinottici in cui, al posto della
«legge del taglione», viene affermata la massima
«amate il vostro nemico»; si esorta inoltre a «offrire
l’altra guancia» e a «dare anche il mantello a chi
vi vuole prendere la tunica». Le due fonti del pensiero
cristiano su questo tema sembrano quindi visibilmente in
contrasto, mentre la riflessione della filosofia
patristica tende in qualche modo a conciliare tali
contraddizioni.
Il punto più alto - anche per altre tematiche - che
troviamo nella filosofia cristiana, è sicuramente il
pensiero di San Tommaso, in particolare per quanto
riguarda la questione, assai controversa, della
giustificazione della guerra. A questo punto è bene
ricordare l’influenza che, sulla riflessione
scolastica e sul rapporto 'guerra-politica', hanno
esercitato gli avvenimenti storici. San Tommaso, come
altri esponenti della Scolastica, si trova di fronte il
fenomeno storico delle Crociate, di guerre cioè che
occorreva giustificare proprio perché erano presentate
come «guerre giuste», come «guerre sante». A questo
proposito si può ricordare un breve, ma assai
significativo brano di un canonico, Ramon d’Agille,
che descrive ciò che accadde durante la presa di
Gerusalemme. È un brano particolarmente famoso, che può
certamente suscitare impressione per l’enfasi,
l’entusiasmo, con cui questo canonico descrive il
bagno di sangue cui egli ha assistito. Egli afferma che
si vedevano cose «meravigliose», si vedevano nelle
strade e nelle piazze della città cumuli di teste, di
mani, di piedi; fanti e cavalieri marciavano
attraversando ovunque mucchi di cadaveri; nel tempio e
nel portico si avanzava a cavallo, e il sangue arrivava
fino ai ginocchi del cavaliere, fino alle briglia del
cavallo. Giusto e mirabile giudizio di Dio, che volle che
proprio quel luogo fosse lavato dal sangue di quelli le
cui bestemmie lo avevano per così lungo tempo
imbrattato! Spettacolo celestiale!
Certo si può restare sconcertati dall’entusiasmo
con il quale il canonico Ramon d’Agille descrive la
presa di Gerusalemme; bisogna tuttavia ricordare come le
Crociate siano state vissute e presentate come guerre
giuste proprio a partire da quel concetto che si è
cercato di chiarire in riferimento a Platone. Le Crociate
sono polemos e non stasis, sono guerre contro gli
infedeli, contro coloro che non hanno la fides; sono
quindi in qualche modo guerre che hanno una loro
legittimità; non sono guerre condotte contro gli
adelphoi, contro i fratelli, ma intervengono contro tutti
coloro che si pongono all’esterno della comunità
dei credenti. Per questo San Tommaso può indicare le
condizioni che consentono di parlare di guerra
«giusta», e cioè l’autorità del Principe, una
retta intenzione e un principio correttamente inteso. È
insomma possibile, secondo San Tommaso, distinguere le
guerre ingiuste, quelle in cui manca l’autorità del
Principe, dalle guerre giuste: le Crociate rientrano
appunto fra queste guerre legittime.
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