Alain
Touraine: La via della guerra all’Iraq dopo il
crollo di Wall Street Tratto da "la
Repubblica", 2 agosto 2002
Si è potuto credere, a un dato
momento, che le disonestà commesse dalla Enron e coperte
dall’importante studio Arthur Andersen avrebbero
rivelato i comportamenti illegali di qualcuna delle
maggiori compagnie americane. Ma gli esempi di bilanci
consapevolmente falsificati si sono andati moltiplicando.
è emerso il coinvolgimento di vasti settori industriali,
come ad esempio quello farmaceutico, in particolare
attraverso la sua terza impresa mondiale, la Merk. La
diffidenza si è estesa anche alle industrie tradizionali
e persino alla persona di J. Welch, già titolare della
General Electric, emblema del successo americano, il cui
manager era, prima di essere eletto, il vicepresidente
Cheney, poi chiamato in causa direttamente in quella
veste. è corsa voce infine che talune operazioni
condotte dallo stesso presidente fossero di natura
analoga - sia pure in formato ridotto - a quelle imputate
alla WorldCom.
Questi numerosi e gravi infortuni hanno scatenato nel
capitalismo americano una crisi di fiducia. Quando il
presidente ha duramente denunciato il malcostume di Wall
Street, ha fatto giustamente appello alla tradizione
liberale nella concezione di Locke, che vede nella
fiducia la base dell’economia di mercato. Lasciamo
da parte la rimonta dell’euro alla parità con il
dollaro, che potrebbe creare più imbarazzo
all’Europa che all’America, ove la Federal
Reserve si preoccupa di rilanciare l’economia. E
lasciamo da parte anche il caso Vivendi Universal,
rivelatore, più che di una crisi di ordine generale,
della fragilità dell’impero costruito da Jean-Marie
Messier: la sua lodevole intenzione di creare convergenze
industriali ben remunerate si è rapidamente trasformata
in un’operazione finanziaria che ha condotto a un
massiccio indebitamento, e al brusco crollo delle azioni.
Ciò che è in discussione è il funzionamento stesso
dell’economia americana.
In un passato non molto lontano, gli imprenditori
producevano, grazie ai loro investimenti e in parte anche
indebitandosi, per vendere i loro prodotti; e la Borsa
emetteva un giudizio sul loro successo o insuccesso. Da
quando il boom tecnologico degli anni '80-’90 ha
fatto divampare il settore borsistico, la cui evoluzione
è esemplificata dal Nasdaq, il sistema di gestione si è
completamente trasformato. La Borsa, anziché costituire
il traguardo finale, cerca di attirare capitali
promettendo per anticipazione elevati profitti. I consumi
del terzo più facoltoso della popolazione americana,
arricchito dai guadagni borsistici, prendono così il
volo, consentendo l’aumento della produzione.
L’economia americana avanza sempre più "di
testa", anziché camminare con i propri piedi. A
partire da questo momento, si è sempre più tentati dai
vari modi per gonfiare il valore borsistico delle imprese
e dare smalto alle anticipazioni, fornendo al pubblico
cifre che si allontanano dalla realtà. Inoltre - cosa
ancora più importante - i Consigli
d’amministrazione, euforici per i risultati in
ascesa, non dedicano sufficiente attenzione, soprattutto
in Europa, al funzionamento reale delle imprese. La crisi
americana è diversa da quella giapponese, ma in entrambi
i casi l’economia è fagocitata dalla finanza.
Quanto ai paesi europei, sono trascinati nel forte calo
delle Borse, che colpisce persino settori produttivi meno
direttamente coinvolti nella perdita di fiducia. Ciò che
ora è in gioco è dunque molto più della sorte di
alcune grandi imprese. è la messa in discussione di
tutto il sistema di finanziamento a provocare questa
crisi di fiducia, sopravvenuta nel momento in cui
l’economia americana era arrivata a un’egemonia
incontestata sul resto del mondo. Sembra ancora di
sentire le espressioni di soddisfazione pronunciate in
occasione del Forum di Davos, che l’anno scorso è
stato spostato a New York, e di fatto si è riunito sotto
la sfolgorante stella del Forum di Porto Alegre. Ma a
questo punto, come non spingersi più in là? è stato
proprio durante la riunione del Forum di New York che
Colin Powell, ritenuto un moderato, ha annunciato a nome
del presidente il cambiamento di priorità deciso dagli
Stati Uniti. Oramai - cioè all’indomani
dell’attentato dell’11 settembre - bisognava
definire un asse del male; e non limitarsi a perseguire i
responsabili degli attentati, ma attaccare direttamente
gli stati ostili agli interessi americani - e in primo
luogo l’Iraq - senza attendere quella catastrofe che
sarebbe - o sarà, in un futuro molto prossimo - il
crollo dell’Arabia Saudita. La logica delle armi
prende il sopravvento sulla logica dei prodotti.
L’adesione nazionale diventa più importante della
fiducia nelle grandi compagnie, nei loro analisti
finanziari e osservatori di vario tipo. L’indomani
dell’11 settembre, questa coesione nazionale si è
manifestata nella solidità e nella dignità, senza
xenofobia né razzismo. Ma più dell’opinione
pubblica, è stato il governo a scegliere di dare la
priorità alle armi piuttosto che alle tecniche e
all’economia. Nel momento in cui in tutto il mondo
numerosi gruppi attaccano la globalizzazione, concepita
come uno strumento dell’egemonia americana - cosa
questa che rappresenta un nuovo e importante elemento di
crisi della potenza economica Usa - i leader supremi
degli Stati Uniti, sia perché hanno risentito fortemente
l’imprevisto, impensabile attacco dell’11
settembre, sia per mancanza di fiducia nella solidità di
un paese che non si fida più dei suoi dirigenti
economici, sono passati all’offensiva. Qualcuno
potrà vedere in questo una semplice mossa a effetto. I
dirigenti iraniani non si sentono minacciati dagli
attacchi nei loro confronti, tant’è vero che hanno
aiutato gli Usa in Afganistan. Ma sembra che sia
effettivamente in preparazione una spedizione contro
l’Iraq; e più in là, la situazione in Pakistan si
sta lentamente deteriorando. Ma soprattutto, il barile di
petrolio sul quale siede l’Arabia Saudita può
scoppiare da un momento all’altro.
La carta del mondo è cambiata. L’Europa, che non ha
armi, ha assunto le dimensioni della Svizzera;
l’America latina non conta; l’Africa è un
lontano ospedale. La polarizzazione del mondo si è
accentuata, e un conflitto carico d’odio, violenza e
sacrificio scatena forze più potenti delle menzogne di
Wall Street. L’Europa merita, certo, un secondo
sguardo, che però non dà risultati opposti a quelli del
primo. La maggior parte dei paesi - come la Gran
Bretagna, l’Italia e la Spagna - sono innanzitutto
filoamericani. La Francia continua a interessarsi poco
all’Europa, e la politica tedesca dipende dalla
vittoria di Schroeder su Stoiber, che non è acquisita.
L’Europa deve affrettarsi a dire se rinuncia ad
essere una potenza mondiale, e a porsi obiettivi più
ambiziosi della parità dell’euro con il dollaro.
Oppure se, al contrario, vuole raggiungere gli Stati
Uniti nella produzione della conoscenza e
dell’innovazione, e soprattutto se vuole disporre di
armi che le permettano di elaborare e realizzare
strategie indipendenti, conformi ai suoi interessi.
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