La Macedonia e il razzismo
dell'Occidente
di MILCHO
MANCEVSKI* Negli articoli sulla Macedonia si
pone per lo più l' accento sul "delicato equilibrio
etnico" del paese, di cui si paventerebbe lo
sconvolgimento in seguito all' arrivo dal Kosovo di
almeno 250.000 profughi. Un giudizio che non coglie nel
segno. Non si tratta di un problema di equilibrio etnico
ma di qualcosa di molto più semplice: la Macedonia è un
paese povero che si sente tradito. Nel marzo scorso,
prima che iniziasse l' esodo di massa, si riteneva che
non sarebbe stato necessario accogliere in Macedonia più
di ventimila profughi. IL Partito Democratico degli
Albanesi, una delle tre formazioni politiche che
compongono il governo macedone, aveva convinto gli altri
partiti della coalizione a riconoscere ai profughi lo
status di "ospiti". Così hanno potuto entrare
come turisti, con formalità di ingresso semplificate e
senza controlli sanitari, e sono stati alloggiati presso
famiglie che si erano offerte volontariamente di
accoglierli. Un trattamento che era sembrato più umano.
Mi ero recato al valico di confine di Blace con il mio
produttore, Domenico Procacci, il 28 marzo, quando
secondo le valutazioni l' aumento dei profughi era di
20:1 circa. Quando vi ritornai sei giorni dopo, si era
ormai ammassata nella zona a cavallo del confine una
folla di 30.000-50.000 profughi, alcuni ancora in Kosovo,
altri nella terra di nessuno e altri in salvo in
Macedonia. I trattori erano rimasti impantanati nel fango
e gli addetti locali venuti ad assistere i kosovari
distribuivano pane e acqua. I malati venivano portati via
su barelle improvvisate con coperte piegate in due.
Circolava la voce che la notte precedente una dozzina di
persone fossero morte nel campo. I poliziotti erano
confusi e insolitamente benevoli, forse perché colti
alla sprovvista di fronte a quella grande tragedia umana.
Mentre il numero totale dei rifugiati in Macedonia si
avviava rapidamente a superare i 200.000 - il decuplo del
previsto - appariva chiaro che il governo non aveva la
minima idea di come far fronte a una crisi di questa
portata. Il concetto di "ospiti" era ormai
ridicolo, ma poiché era questa l' idea prevalente prima
che la calamità esplodesse, i campi profughi non erano
stati approntati. Anche nei periodi migliori, la
Macedonia non brilla per capacità organizzativa; e oggi
stiamo vivendo un periodo tutt' altro che ideale. Non
importa che i profughi siano albanesi, serbi, macedoni,
francesi o americani. La popolazione di questo paese già
impoverito, che era di due milioni di abitanti, in sole
due settimane è aumentata del 10% a causa di quest'
immensa immigrazione forzata. E quella che era la fragile
economia macedone sembra appartenere ormai a un lontano
passato. Le bombe della Nato hanno fatto saltare le
strade verso il resto dell' Europa, e le società
jugoslave che commerciavano con la Macedonia non sono
più in grado di lavorare. Secondo i calcoli del governo,
le perdite dirette avranno superato alla fine dell' anno
un miliardo e mezzo di dollari, pari a più del 40% del
Pil dell' intera nazione. Dato che molte società
macedoni stanno licenziando personale, il tasso di
disoccupazione, già superiore al 30%, è in ulteriore
aumento. In Macedonia il Pil pro capite è pari a 1.900
dollari l' anno, una cifra inferiore di un terzo a quello
della Giamaica, tanto per fare un raffronto con un paese
occidentale. L' economia di questo paese non è in grado
di sostenere un numero così ingente di profughi, come
non lo è la sua struttura sociale. I macedoni si
chiedono se sia questo il premio per aver costituito l'
unico, luminoso esempio di tolleranza e cooperazione
etnica della regione. La Macedonia non conosceva la
violenza etnica. I partiti albanese e macedone si
dividono il potere, e vi sono ministri e ambasciatori di
entrambi i gruppi etnici. Dopo le elezioni, un nuovo
partito di etnia albanese ha sostituito quello che faceva
parte del precedente governo. Le minoranze sono tutelate
dalla costituzione, hanno le loro scuole, i loro teatri,
i loro giornali, i loro programmi televisivi.
L' unico parlamentare tzigano del mondo è alla sua
seconda legislatura nel parlamento macedone. La Macedonia
ha rifiutato di farsi coinvolgere nel conflitto del
Kosovo, ed è riuscita a tener lontana la violenza. I
macedoni percepiscono la guerra del Kosovo come qualcosa
di estraneo; tuttavia hanno accettato di ospitare truppe
(rozzamente definite di estrazione Nato) chiedendo però
che il loro spazio aereo non venisse attraversato per
attaccare i paesi vicini, con i quali la Macedonia dovrà
pur convivere nei secoli a venire. Una richiesta che è
stata prontamente ignorata. Spesso le bombe Nato
sbagliano addirittura paese, e quasi ogni giorno ci
infliggono uno scossone; una è esplosa ad appena due
chilometri da una fabbrica di munizioni nei pressi di
Samokov; un' altra a 200 metri da un' importante diga
della Macedonia dell' Est. Infine, molti qui si sentono
traditi quando l' Occidente, anziché condividere l'
onere dell' assistenza ai rifugiati, rimprovera la
Macedonia di non fare di più e meglio, e ci impartisce
isteriche lezioni sui diritti umani al posto di aiuti
concreti. Quando il governo macedone, sopraffatto dall'
emergenza, ha deciso di chiudere le frontiere, l'
americano Strobe Talbot si è precipitato a Skopje per
forzargli la mano. Ovviamente, al bastone si accompagnava
la carota, sotto forma della promessa Usa di alloggiare
20.000 profughi a Guantanamo Bay (Cuba). A questa
posizione si sono associati gli altri paesi della Nato.
Ma non appena la Macedonia ha riaperto le frontiere, gli
Usa hanno ritirato l' offerta, subito imitati dalla
maggior parte delle nazioni europee. La Finlandia aveva
acconsentito a ospitare un totale di 50 (cinquanta)
profughi, l' Estonia 15 (quindici), l' Olanda 200. Ma
queste promesse, pure così modeste, non sono state
mantenute, e i profughi che lasciano il paese sono
soltanto un rivolo, mentre ne sono affluiti circa 11.000
ogni 24 ore. In un' occasione, la Francia ha acconsentito
a concedere visti soltanto ai cattolici, rafforzando
così le divisioni religiose che hanno contribuito in
larga misura all' attuale tragedia. A Skopje il
comportamento delle autorità francesi ha dato luogo a
scene strazianti. Spesso la consegna dei visti veniva
accolta con pianti angosciati, perché il visto era stato
negato a uno dei membri della famiglia, presumibilmente
per garantire il futuro rimpatrio degli altri. Gli Usa
stanno ora accettando i profughi che hanno parenti
residenti in America. Gli Stati Uniti, la Francia, la
Gran Bretagna e altri hanno inviato alla Macedonia, in
buona sostanza, il seguente messaggio: tenetevi i vostri
profughi bisognosi di doccia. Noi vi forniremo alimenti
in scatola e coperte, ma non accetteremo rifugiati in
nome dell' impegno umanitario. I primi ministri della
Gran Bretagna e della Francia, Tony Blair e Lionel
Jospin, hanno visitato la Macedonia e ventilato sussidi
finanziari, ma hanno eluso ogni richiesta di assistenza
diretta ai profughi che hanno un disperato bisogno d'
aiuto. Quanto poi alle somme promesse, la Grecia è stato
l' unico paese della Nato a inviare effettivamente 2,7
milioni di dollari. Tutti gli altri spendono i loro soldi
in bombe. Nel frattempo la situazione sta peggiorando. Si
avvicina l' estate con le sue temperature di 40 gradi. Il
quotidiano indipendente "Dnevnik" riferisce che
tra i profughi stanno per esplodere disordini. Si sono
già verificati alcuni casi di irruzioni e atti
criminosi. Sono in molti qui a provare amarezza di fronte
al comportamento degli Stati che avrebbero i mezzi per
assistere i profughi. Questi paesi, che condividono con
Milosevic la responsabilità dell' esplosione di questa
tragedia umana, cercano di dissimulare il loro razzismo
dietro dichiarazioni basate su informazione errate, come
quella di Sadako Ogata (dell' Acnur), secondo cui i
profughi desiderano rimanere vicini alle loro case.
L' elenco dei profughi che lottano per trovar posto nei
voli per i paesi dell' Europa occidentale è lungo. La
maggioranza dei kosovari rifiuta di emigrare in Albania o
in Turchia. E in quest' elenco hanno cercato di inserirsi
anche macedoni di etnia albanese che non sono affatto
profughi. La Macedonia è a due ore di volo dalla maggior
parte delle capitali europee. Ma quasi tutti i paesi
della Nato si interessano ai voli adibiti al trasporto
delle bombe, piuttosto che a quello dei profughi.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
* Milcho Manchevski è uno scrittore e regista macedone.
Il suo film "Prima della pioggia" è stato
nella rosa delle opere candidate all' Academy Award nel
1995; ha vinto il Leone d' oro al Festival di Venezia nel
1994.
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La forza delle parole
di LUCE IRIGARAY*
Chiedere di esprimersi
sulla guerra a persone il cui mestiere è pensare, non è
già cominciare ad aprire una terza via tra i
belligeranti, in grado forse di portare luce all' una e
all' altra parte? Spesso nel corso della Storia, i
filosofi e gli artisti hanno consigliato o ispirato i
politici. Sarebbe bene che le loro riflessioni aprissero
oggi nuove prospettive diplomatiche, più ampie, più
disinteressate, più attente alle diversità
politico-culturali esistenti tra i vari paesi, tra le
varie regioni. PROSPETTIVE che possano porre fine non
soltanto a questa guerra, ma a tutte le guerre, facendo
apparire come caduco, poco degno dell' umano, un tale
modo di risolvere i problemi. La parola sospesa. La
guerra, in effetti, è prima di tutto la rottura del
dialogo, l' assenza di parola, la perdita dell' umano in
quanto tale. Il passaggio dal discorso alla violenza muta
si verifica chiaramente tra i belligeranti, ma anche tra
tutti quanti gli altri: i cittadini stessi non si parlano
più. Non sanno quello che pensa l' altro, a quale clan
appartiene, e temono di suscitare un conflitto alla
minima parola pronunciata. Questa diffidenza tra
cittadini è peraltro mantenuta dai politici e dai media
i quali dettano quello che bisogna pensare e accusano
coloro che la pensano diversamente di "disubbidienza
civile", di "appartenenza a partiti"
condannabili in quanto "estremisti" di destra o
di sinistra, oppure di "anti-americanismo
primitivo", ecc. Ognuno è invitato ad aggregarsi al
coro dei sostenitori che applaudono a ogni colpo inferto.
E la vendetta inflitta sul nemico totalitario - che non
si sente mai parlare, cosa che aiuterebbe i cittadini a
formarsi una propria opinione - cala sui cittadini
effetti totalitari meno percepiti: il primo dei quali è
la costrizione a pensare come coloro che hanno deciso di
fare la guerra. E qualora uno si arrischi a disturbare il
punto di vista generale, i sondaggi prendono la parola in
sua vece, facendo tacere le sue proteste con l'
argomento, cosiddetto democratico, dei numeri. Come sono
calcolati i sondaggi, lo ignoro, ma mentre da essi
risulta che la maggioranza dei francesi interpellati
sarebbe "per la guerra", io non ho ancora
trovato una sola persona che lo sia veramente tra coloro
che ho interrogato: i miei vicini, i commercianti del mio
quartiere, gli stranieri incontrati in queste ultime
settimane, per non parlare dei miei amici. Ho invece
osservato che la gente è triste, che non ha capito un
granchè, che è preoccupata per le possibili
rappresaglie, che ha sempre più l' impressione di
ricevere delle informazioni insufficienti e di essere
intossicata da discorsi che l' obbligano a giudicare la
situazione in un certo modo e non in libertà. Nero o
bianco.
La guerra è anche il ritorno alla logica del tutto
bianco o tutto nero, culla dei regimi autoritari. è l'
abdicazione generale del giudicare, della coscienza,
della determinazione individuale. Ciò che è cattivo,
che è nero, è lui, l' altro, e io, che sono colpevole o
complice della distruzione di un paese povero, dell'
equilibrio dei paesi vicini messi appena un po' meno male
e della morte di cittadini innocenti, io dovrei sentirmi
buono/a, tutto/a bianco/a. Meglio ancora: fiero/a di far
regnare nel mondo l' ordine giusto, orgoglioso/a di stare
con i buoni. E la guerra non ha neppure più l' alibi
della legittima difesa, essa è il mezzo utilizzato
affinché il giusto distrugga l' ingiusto, il bianco il
nero, in assenza di "stati d' animo" che
significherebbero probabilmente un ritorno egoista al
proprio sé, a una compiacenza sensibile e troppo umana.
E se la nostra attenzione viene attirata senza sosta sui
rifugiati, sui profughi, è ancora per rendere più nero
il nero, senza che venga mai posta la domanda sulla
responsabilità di chi o di ciò che ha accelerato il
disastro, l' esodo. Il bianco dev' essere incessantemente
giustificato e ri-giustificato, deve restare senza
macchia. Una guerra pulita. D' altronde, una tecnologia
ultrasofisticata aiuterà i più ricchi - i bianchi - a
non sporcarsi le mani col sangue, a non vederlo neppure.
Uccidono senza essere costretti a guardare il crimine
commesso, assassinano a distanza, ciecamente. è il radar
che decide, che sbaglia o che non sbaglia. L' unica
responsabilità dei bianchi è quella di manovrare bene
la macchina, scordando che sono umani. Una guerra pulita
dimentica l' esistenza dell' altro, il corpo e l' anima
del nemico d' abbattere, se non anche i propri. Gli
stessi ritmi elementari della vita non sono più
rispettati: non più notte o giorno. Non più sangue, né
necessità vitali: l' astrazione tecnica prevale. L'
andamento della Borsa, qui e altrove, è oramai
interpretato in rapporto alla guerra. E allo stesso modo
si parla anche dei danni economici causati da essa, più
che delle vittime umane. Quei luoghi saranno rimessi in
sesto, si promette, senza dire quando. E non si riconosce
nemmeno che anche vestigia culturali saranno così state
annientate per dar luogo a un' architettura standard. Non
si tratterà qua di annientare la cultura stessa?
Cominciare a bombardare alla vigilia di un' importante
festa ortodossa, il 24 marzo - come, altrove, alla
vigilia del Ramadan -, non è forse un modo di affermare
il disprezzo per una cultura e la volontà di
distruggerla? Ma quale cultura si pretende d' imporre in
suo luogo? Abolire le differenze e le storie rispettive,
non è, anche lì, promuovere dei valori a rischio
totalitario? Legge del taglione. Nelle culture europee,
la pena di morte - suprema legge del taglione - è stata
abolita. Arrogarsi il diritto di uccidere per vendicare
il crimine commesso non fa più parte dei nostri codici.
Ordunque la giustificazione della guerra alla quale
assistiamo invoca questo taglione: io distruggerò chi ha
distrutto. E dopo? Ammettiamo pure che il giustiziere, o
i giustizieri, abbia oramai la coscienza pura e in pace,
quali germi di violenza saranno stati seminati? Tra il
nemico, tra coloro che dalla guerra sono danneggiati, nel
corpo o nei beni, tra coloro che assistono impotenti al
massacro. Non c' è qualcosa d' ironico nel sentire i
politici predicare ai ragazzi la dolcezza e la tolleranza
quando essi stessi propongono l' esempio di violenze
spietate: nei gesti e nelle parole. Cittadini ostaggi
dello Stato?.
Può essere considerato un progresso il far portare a un
popolo il peso delle azioni del suo capo? Prima, il
taglione veniva esercitato sullo stesso colpevole, ora un
popolo intero viene punito. E ancora, si può qualificare
come progresso democratico il fatto di poter uccidere
senza sapere che si uccide né chi si uccide?
Possibilità certo riservata ai ricchi - non ai poveri
né ai ragazzi - così come è loro riservato il
privilegio di inquinare l' insieme dei cittadini e d'
imporre loro altri flagelli che distruggono gli esseri
viventi e il loro habitat. è legittimo domandarsi
inoltre se rendere asettica la guerra o rendere asettica
la vita umana all' interno di progetti universali non
rispettosi delle differenze: di sensibilità, di corpi,
di culture - se non astrattamente, sulla carta o in
discorsi incantatori -, non corrisponda a preparare un
olocausto generalizzato dell' umanità. Chi o che cosa è
in questo caso più temibile? Come sventare il pericolo?
Certamente non esorcizzando gli errori e gli orrori del
passato proiettandoli in modo cieco e poco coerente sul
presente e sul futuro. Non è che invece, preoccupandosi
in maniera civile dei diritti di ogni cittadino e dei
rapporti tra tutti i cittadini tenendo conto delle loro
differenze, un ordine mondiale potrebbe essere costruito?
Questo non può essere né militare né finanziario. Sono
gli uomini e le donne che lo possono assicurare in un
mutuo rispetto garantito da diritti: non quelli degli
Stati soltanto, ma i loro diritti.
Gli uomini e le donne che vivono in questo mondo non
smettono di pagare - fisicamente, moralmente,
economicamente - certe follie e cecità di coloro che
pretendono di governarli, contribuendo anche spesso a
corrompere l' opinione pubblica in modo che il potere e
il denaro restino loro. è arrivato il momento di
affidare ai cittadini una maggiore responsabilità nei
confronti di essi stessi, nei confronti della società,
nei confronti della Storia. Più l' orizzonte diventa
vasto, più è importante garantire l' esistenza, la
sicurezza, il futuro degli uomini e delle donne che vi
vivono oggi, che vi vivranno domani.
(traduzione di Guiomar Parada)
*Luce Irigaray è scrittrice e Direttrice di Ricerca in
Filosofia presso il Centro Nazionale della Ricerca
Scientifica francese
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Mondo moderno
e mali antichi
di EDUARD
SHEVARDNADZE
Voglio credere che la
tragedia dei Balcani sia l' ultima guerra del ventesimo
secolo. Credere che altre situazioni di conflitto, non
esclusa quella del Caucaso, del paese di cui sono
presidente, la Georgia, possano essere risolte in modo
pacifico. Spero molto e confido che nel prossimo secolo
la comunità mondiale, traendo insegnamento dalla lezione
di quello trascorso, uno dei più sanguinosi nella storia
dell' umanità, saprà elaborare meccanismi di sicurezza
che non siano causa di sofferenze per milioni di persone,
ma consentano di superare politicamente e in modo
pacifico le insorgenti contraddizioni e di instaurare un
ordine più giusto ovunque e laddove persistano o
compaiano pericolosi focolai capaci di alimentare nuovi
conflitti. RISULTATO ideale per la comunità mondiale,
per le organizzazioni internazionali come l' Onu e le
altre, per le alleanze politico-militari, Nato in primo
luogo, sarebbe quello di conferire loro capacità
effettive di estinguere i conflitti in embrione, di poter
costringere le parti avversarie a sedere immediatamente
al tavolo delle trattative. Su tutte queste politiche c'
è ancora da lavorare, però oggi non vedo obiettivo più
meritevole e importante per coloro che dedicano i propri
sforzi alla creazione di un mondo sicuro ed alla
liberazione dell' uomo dalla sindrome del terrore. Si
tratta, d' altra parte, di un compito abbastanza
difficile, un compito del futuro che, voglio pensare, sia
ormai prossimo. Per il momento, l' unico effettivo
meccanismo tra quelli esistenti, qualora pressanti azioni
diplomatiche non risultino sufficienti come misure di
persuasione, è il ricorso a misure di coercizione. E' in
questo senso che vanno viste le azioni Nato contro il
regime jugoslavo. Quelli con cui abbiamo a che fare oggi
non sono conflitti puri e semplici, ma fenomeni che in
molti casi tendono ad espandersi minacciosamente
superando i confini di un paese o di un continente. E'
sotto i nostri occhi la piega presa dagli avvenimenti in
Jugoslavia nel corso di alcuni anni e durante le ultime
settimane. Come uomo, e l' ho dichiarato in più di un'
occasione, sono contrario all' impiego della forza. Al
tempo in cui ricoprivo la carica di ministro degli Esteri
dell' Urss fu deciso, in linea con la nuova strategia di
pensiero proclamata dall' Unione Sovietica negli anni
della perestrojka, di ritirare le nostre truppe dall'
Afghanistan; purtroppo portare fuori sani e salvi da quel
paese tutti quelli che alla guerra avevano preso parte
non sarebbe stato possibile a nessuno. Questo io non
riesco ancora a dimenticarlo. Né mai dimenticherò
quanto è accaduto sei anni orsono in Abkhazia, il
quotidiano tributo di vite di georgiani e abkhazi. Allora
il regime separatista dei governanti abkhazi, forte dell'
appoggio politico e militare di forze reazionarie e di
conquista, commise una terribile rappresaglia sulla
popolazione innocente e pacifica di questa regione
soltanto perché si trattava di georgiani. Non ci fu in
Abkhazia una sola città o provincia in cui non si
verificarono azioni di vero e proprio genocidio. E'
evidente che simili azioni non possono rimanere impunite.
Nel corso degli ultimi sei anni il Consiglio di sicurezza
dell' Onu ha approvato quindici risoluzioni che non hanno
dato alcun risultato. Le valutazioni politiche e le
azioni pratiche dell' Onu si sono dimostrate fiacche,
prive di convinzione e inefficaci. Mi resta ancora
difficile comprendere dove risiedano le cause di questa
irresolutezza, di questa strana apatia politica. All' Onu
ha fatto difetto la determinazione a chiamare le cose con
il loro nome ed a condannare in modo adeguato una
evidente pulizia etnica. E questo a fronte del fatto che
l' Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa aveva ritenuto necessario riconoscere
ufficialmente che in Abkhazia erano effettivamente in
atto azioni di pulizia etnica. Sono sempre stato convinto
che, se le azioni criminose perpetrate dal regime
separatista e dai suoi protettori fossero state oggetto
di un' adeguata valutazione politica ed i principali
organizzatori del genocidio dei georgiani condannati e
puniti dalla comunità internazionale, i sanguinosi
avvenimenti in Cecenia avrebbero potuto essere evitati e
difficilmente l' Europa avrebbe assistito all' acuirsi
della crisi in Jugoslavia in seguito ai problemi del
Kosovo. Tanto più che già durante la prima fase del
conflitto abkhazo la Georgia aveva proposto che venissero
applicati quei criteri di composizione dei quali ho
parlato, riferendomi alla crisi jugoslava, durante la mia
recente visita di lavoro negli Usa, alla seduta del
Consiglio dell' alleanza atlantica a Washington e a
Strasburgo alla cerimonia di ingresso della Georgia nel
Consiglio d' Europa. E' interessante notare che qui i
punti di vista di Georgia e comunità internazionale
coincidono perfettamente. Purtroppo applicare i suddetti
criteri in Georgia alcuni anni fa risultò impossibile.
Gli avvenimenti di oggi confermano quanto sia errato
quell' atteggiamento passivo che rende in gran parte
possibile la nascita di nuovi focolai e in un certo senso
la loro propagazione a catena. Vale la pena di ricordare
che tutti questi elementi si ritrovano anche nelle
proposte che in questi giorni sono state avanzate dagli
otto paesi più sviluppati per risolvere i problemi del
Kosovo. Di conseguenza, nel dare come uomo politico un
giudizio sulle azioni della Nato in Jugoslavia, ed
essendo, ripeto, un oppositore obiettivo dell' uso della
forza, vedo chiaramente che questa via, questo metodo di
coercizione alla pace, rappresenta fra quelli possibili
l' unico in grado di influenzare efficacemente i processi
in corso. E non solo in Jugoslavia. Non mi pare vi sia
oggi altro modo di preservare l' Europa dalla diffusione
di certe metastasi politiche. Non credo di sbagliare: le
azioni criminose di alcuni regimi possono provocare gravi
conseguenze e la loro propagazione alle regioni
circostanti. Da questo punto di vista le misure
intraprese dalla Nato assumono un carattere di
inevitabilità, assolutamente privo di alternative e
giustificato da come si sono andati sviluppando gli
avvenimenti in precedenza. Ancora una volta e con
particolare drammaticità i fatti del Kosovo hanno
confermato quanto da tempo testimoniano altri conflitti
irrisolti o, come è uso chiamarli,
"congelati". E allora occorre applicarsi con
serietà e determinazione al perfezionamento dei
meccanismi di sicurezza oggi esistenti. Sebbene ancora a
disposizione delle organizzazioni internazionali, e dell'
Onu in particolare, essi non sono di alcuna reale
utilità. Si tratta di meccanismi nati in epoche e per
scopi completamente diversi.
E' forse possibile conformare un mondo profondamente
cambiato ai singoli statuti, alle singole concezioni e
tradizioni e non vedere e tenere in considerazione la
specificità e il nuovo delle odierne realtà, adattarsi
ad esse e sviluppare capacità di azione in grado di
fronteggiare i nuovi pericoli? Tutto questo è oggi
inammissibile. Ogni giorno trascorso conferma che senza
solide garanzie di sicurezza e, voglio sottolinearlo
perché molto importante, senza il consolidamento della
forza della diplomazia, senza la reale attivazione di un
principio di coercizione alla pace non potremo liberarci
dall' epidemia dei conflitti. Alla largamente diffusa
sindrome da impunibilità per delitti commessi contro l'
umanità dovranno essere contrapposti nuovi e coraggiosi
approcci. E perché non ricordare che l' umanità ha da
lungo tempo e decisamente condannato con buon diritto sia
il fascismo, sia il genocidio degli ebrei, sia il
bolscevismo con le sue azioni criminose come la
deportazione di intere popolazioni in una sola notte.
Perché mai dovremmo utilizzare un diverso metro di
valutazione per le pulizie etniche commesse dai regimi
dittatoriali del nostro tempo? Non può esserci in questo
alcuna selettività. Ad una analoga e adeguata
valutazione devono corrispondere azioni analoghe e
adeguate. Naturalmente, sarebbe stato preferibile che la
Nato non si fosse trovata nella necessità di intervenire
con la forza, o che l' Onu avesse sancito il ricorso a
misure di coercizione in Jugoslavia. Il fatto è che
questa risoluzione e le operazioni della Nato non
sarebbero state necessarie se la stessa Onu si fosse
rivelata all' altezza del suo compito mostrando fermezza,
decisione e efficacia. Ma se si troverà una forza capace
di contrapporsi alle azioni di coloro che attuano pulizie
etniche e di non lasciare simili delitti impuniti, allora
io dico ben venga questa forza. Se c' è ancora qualcuno
che nutre dubbi circa l' opportunità di un' azione di
forza, io vorrei chiedergli: perché non rammentare tutto
quello che ha preceduto la decisione della Nato e perché
non riflettere su quello che sarebbe accaduto dopo e
quale carattere di irreversibilità avrebbero assunto gli
eventi se la Nato avesse chiuso gli occhi su quanto stava
accadendo?
Il periodo di transizione ad una situazione di sicurezza
generale che segue la fine della "guerra
fredda" è caratterizzato da delicatezza e
fragilità. Esso potrà durare ben più di un decennio.
In questo lasso di tempo l' umanità dovrà fare i conti
in particolare con l' esigenza di una pace stabile.
Ahimè, non sempre i leader politici di questo o quel
paese dimostrano di essere pronti al confronto con questa
comune volontà, ma, cercando di realizzare le proprie
ingiustificate e insane ambizioni, agiscono contro gli
interessi dei processi democratici, della trasformazione
del mondo, del passaggio da contrapposizioni ideologiche
e politico-militari a un nuovo modo di vivere,
qualitativamente diverso, libero da invidiose rivalità e
da politiche avventuristiche e criminose. Questa
transizione, in atto in vaste aree geografiche e
geopolitiche, interessa anche la Georgia e la regione del
Caucaso. Proprio in Georgia, dove la composizione dei
conflitti è ancora in corso (con successo, come in
Ossezia e, in minor misura, in Abkhazia), nello scorso
mese di aprile, quando è scoppiata la guerra in
Jugoslavia, è stato inaugurato un oleodotto attraverso
il quale il petrolio del Mar Caspio raggiunge i terminali
dislocati sulle sponde del Mar Nero e da qui viene
trasportato in Europa e in altri paesi. La Georgia
diviene la principale arteria della Grande Via della Seta
nel Caucaso. Eppure appena cinque o sei anni orsono per
le strade della Georgia risuonavano gli spari e uscire di
casa era pericoloso anche di giorno. Il tempo è stato
utilizzato a dovere e, non ci fossero stati quei
conflitti, il popolo vivrebbe già adesso in condizioni
molto migliori. Ma non è andata così. Come si è visto,
il conflitto abkhazo fu accompagnato dal genocidio della
gente georgiana e da una pulizia etnica delle più
brutali. La creazione di un sistema che renda inevitabile
la punizione per delitti di carattere politico non può
essere ulteriormente procrastinata, ma deve divenire
oggetto di specifica discussione. E' mia opinione che sia
opportuno utilizzare in maniera più efficace il
tribunale internazionale per i leader politici ed i
governanti di quei regimi che, alle soglie del XXI
secolo, adottano misure repressive nei confronti di
persone di un' altra nazionalità. Se non si fermerà il
male che si esprime con le pulizie etniche, se
continueranno le atrocità, se non verranno bloccati i
nazionalismi e i separatismi aggressivi, allora il mondo
si troverà di fronte a problemi di difficile soluzione.
Senza esagerare, si può già adesso esprimere il timore
che il mondo possa trovarsi all' improvviso sull' orlo di
una nuova guerra mondiale. Ed è importante rivolgere l'
attenzione anche a questo.
Nel corso degli ultimi avvenimenti, in Iraq e in
particolare in Jugoslavia, è emerso chiaramente che
sull' arena internazionale l' opposizione alle principali
ed essenziali norme di convivenza pacifica e sicura ha
assunto un carattere più nascosto, oserei dire
mimetizzato. Naturalmente tale opposizione non può
essere messa a confronto con gli aperti contrasti dei
tempi della "guerra fredda", ma non è meno
inquietante. In questi ultimi tempi il mio pensiero corre
sempre più spesso agli anni ' 80, quando i governanti di
Urss e Usa lavoravano alla costruzione di un nuovo ordine
mondiale per garantire una pace sicura. Che quello di
oggi sia un mondo nuovo non può essere messo in dubbio
da alcuno. Ma in che misura questo mondo può essere
considerato equilibrato? Qui sta il problema. E cosa
devono fare in queste condizioni i nuovi giovani stati
che si trovano ad affrontare una grande mole di lavoro
sulla via dello sviluppo sociale? Gli interessi della
stessa Georgia, per esempio, sono direttamente legati al
futuro di Europa e Asia, ma purtroppo, malgrado la
"guerra fredda" sia ormai superata, questo
futuro è ben lontano dall' essere privo di nubi. E'
triste, ma all' origine di tutto questo ci sono ancora
opposte concezioni rispetto ad una serie di
importantissimi problemi del mondo moderno. Durante la
guerra nel Golfo Persico i fatti si incaricarono di
dimostrare che la "guerra fredda" era ormai
riposta negli archivi della storia. Ma adesso, come nel
1990, vedo la minaccia della rivincita.
La rivincita comunista, intendo. Vedo questo perché a
molti, troppi, piacerebbe farla finita con i risultati
della politica estera della perestrojka, di quel graduale
processo di creazione di una concezione del mondo comune.
L' esperienza di questo secolo che volge al termine,
spero, non consentirà agli avvenimenti di svilupparsi in
quella direzione. L' umanità non può vivere in un mondo
diviso e in conflitto. E' contro ogni buonsenso. Credo,
infine, che vinceranno la ragione e la naturale
aspirazione a vivere e costruire. E su questo io conto
molto.
(Traduzione a cura del gruppo Logos)
* L'autore è stato ministro degli Esteri dell' Urss; è
presidente della Georgia
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Sarajevo, il passato
che ritorna
di ADRIANO SOFRI
Mi sono ricordato di un
giorno della mia vita. Il 5 febbraio del 1994. Ero a
Sarajevo, e ci fu la strage del mercato. Ma non è
questo: non solo questo. Devo cominciare dalla sera
prima. Non avevo ancora preso casa, ero all' Holiday Inn,
come i giornalisti. Avevo una telecamera amatoriale, mi
ero fatto prendere la mano, e avevo finito la scorta di
cassette. L' indomani mattina sarebbe partito un
convoglio di profughi dalla sinagoga, mi premeva
riprenderlo. C' era un operatore che lavorava per la Rai,
Miran Hrovatin. Era triestino come me, ma lui davvero, e
aveva una bella faccia cordiale. All' ora dell' ultimo
telegiornale andò al palazzo delle televisioni. CI
METTEMMO d' accordo: se non avesse fatto troppo tardi ci
saremmo rivisti, per una partita a scopa. Fece tardi, ma
aspettai. Si stava al buio, ad ascoltare gli scoppi, e
calcolare la distanza. Quando Miran tornò era ora di
andare a dormire - a provarci. Arrivò con due cassette
per la mia telecamera, se le era fatte regalare da un
collega americano. Miran sarebbe stato ucciso un mese
dopo a Mogadiscio insieme a Ilaria Alpi: aveva scelto di
tornare in Somalia per mettere una pausa fra sé e tutto
quel sangue jugoslavo. Il cielo della mattina del 5 era
tetro. C' era il rumore di fondo degli spari, e il rombo
degli aerei - sorvoli alti, facevano sentire la
lontananza, più che una presenza. La gente cominciò ad
arrivare molto presto. Sarajevo è tutta di saliscendi e
scalinate. Le persone si affacciavano alla salita, nella
nebbia, tenendo in due i manici di borsoni sgangherati.
Era un film in bianco e nero. Era un film girato a
Varsavia nel 1944, ed ero io a girarlo. L' esodo era
stato preparato dagli ebrei della Benevolencija, e
contrattato pazientemente con gli assedianti: tanti
ebrei, tanti serbi, tanti bosniaci musulmani. Vecchi e
malati per lo più, e qualche donna coi bambini.
Arrivavano davanti alla sinagoga, e le famiglie già si
separavano. Gli esuli entravano a sbrigare i documenti, i
parenti restavano fuori, tenuti dal lato opposto della
strada da una milizia cortese ma rigida. Per un paio d'
ore stettero così, a parlarsi da un marciapiede all'
altro, persone che non sapevano se si sarebbero mai più
viste, o anche solo a guardarsi in silenzio. Solo i cani
attraversavano inosservati, cani di Sarajevo, che si
erano abituati a perdere gli umani, e a esserne perduti.
Arrivarono le corriere, tre, malconce, e cominciò l'
appello dei partenti. Allora la folla composta si ruppe,
si alzarono grida, qualcuno spingeva per rubare un ultimo
abbraccio, e veniva ricacciato indietro. C' era una
ragazza alta, magra, molto giovane ma coi capelli di un
grigio ferro, in un vecchio cappotto grigio col bavero
alzato: fissava immobile, seria, la faccia di un uomo
dietro il vetro appannato della corriera. Me ne
innamorai. A Sarajevo mi sono innamorato di tutte le
donne che ho visto. Facevo andare la telecamera. Tenere
l' occhio dentro una telecamera è un espediente
prezioso, quando non bisogna piangere. Finì. Le corriere
scomparvero, la folla si sciolse, in un silenzio gonfio
di angoscia e quasi, chissà perché, di vergogna. O
forse era solo nostra, degli spettatori. Un peso
oscuramente simile a quello del visitatore di Auschwitz:
così mi parve. Fino a poco tempo fa, non avrei creduto
che al mio tempo potesse appartenere una mattina così.
Ma era ancora presto. C' era la prima di un film, alle
undici, in un teatro del centro. Il film di un giovane
regista, forte, pieno di rimandi letterari: l' incendio
di una biblioteca moresca di Sarajevo commentato con
citazioni di Dante e di Shakespeare. La sala era
strapiena, come sempre sotto le bombe. Uscii a guardare
la strada, il crocevia dei cecchini lì accanto, le corse
dei passanti. C' erano esplosioni di granate, vicine,
fragorose. Era normale. D' improvviso si sentirono i
clackson di tante auto, e un' agitazione inspiegata: un
contagio di facce spaventate e di corse affannose.
Saltammo su un' auto e corremmo verso il punto da cui
veniva lo spavento. Era vicino, ma bisognava fare un giro
di sensi unici e di cecchini. Alla curva del Ponte
Latino, sull' angolo delle rivoltellate di Gavrilo
Princip, qualcuno ci gridò: a Markale, il mercato della
città vecchia. Arrivammo in mezzo alla strage,
cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C'
era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami
concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano
via. C' era una gamba artificiale, staccata e diritta sul
suolo. C' erano scarpe, è incredibile come le scarpe si
spandano nelle carneficine. C' erano uomini grandi e
grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni
Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare
niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda
di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato.
Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e
le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone
del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a
mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a
malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e
distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo
compratore di fiori della città. Anche quando mancavano
il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia
di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla
quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i
feriti nessuno li ha contati.
La città si svuotò. Era un ordine delle autorità: ai
cetnici piace duplicare le stragi. Ma non c' era bisogno
di ordini. C' era troppo dolore, troppa disperazione.
Tornammo in albergo. I giornalisti erano frenetici:
notizie da trasmettere, articoli da scrivere. Io non
avevo niente da fare, se non essere disperato. I miei
ragazzini sarebbero rimasti chiusi in casa. Ma se
qualcuno fosse andato lo stesso all' appuntamento? Così
uscii e tornai, a piedi, al mercato. Sapevo correre nei
punti esposti: ma la città era così deserta che anche i
cecchini, sazi, dovevano essersi messi a dormicchiare. Il
cielo si era fatto ancora più plumbeo. Dal mercato
veniva un rumore di motore sussultante, monotono. La
strada era ingombra di blindati bianchi dell' Onu. Nella
piazzetta del mercato c' erano solo caschi blu dell' Onu,
francesi: una ventina di soldati e qualche graduato. C'
era un paio di autocisterne d' acqua, il rumore era
quello delle pompe. I soldati della Comunità
internazionale spazzavano il suolo con gli idranti, e poi
raccoglievano con le pale i detriti spinti contro il
marciapiede. L' acqua era rossa. Le pale raccoglievano
nel rigagnolo avanzi di povere mercanzie e di corpi
umani. L' Onu faceva piazza pulita, anche lei in un
silenzio interrotto da ordini brevi in francese - che
bella lingua è il francese - e da quella lugubre
percussione di motore. Durò a lungo il risciacquo. Potei
guardare il punto in cui era caduta la granata: la solita
buchetta con la rosa di scalfitture attorno, mutata già
in pozzanghera. Qualcuno aveva tirato su una scarpa
sfiancata da una donna, e l' aveva posata sul rottame di
un banco. Non c' era nessuno, solo le Nazioni Unite e io.
E un viavai di corvi neri contro il cielo nero. Li
ripresi scrupolosamente.
L' ho detto: è utile, certi giorni, mettere una
telecamera fra il proprio ciglio e il mondo. Arrivò un
sarajevese, un tipo, poi avrei fatto amicizia con lui: si
chiamava Dino, parlava un po' di italiano dalla Seconda
guerra, intagliava certe pipette di legno e le vendeva
agli stranieri. Ora aveva bevuto fino a vacillare, buttò
qualche frase addosso ai soldatini francesi, che non si
voltarono nemmeno. Poi, forse in onore della mia
telecamera, si tenne eretto, e disse solennemente:
"Sangue. Questo è il nostro sangue bosniaco per l'
Europa". Tale fu un giorno della mia vita, in un
triangolo, fra sinagoga incrocio dei cecchini e mercato,
di neanche cinquecento metri per lato. Anzi, il giorno
non era neanche finito, ma non me ne viene in mente
altro, dopo che ebbi trovato la casa di qualcuno dei miei
ragazzini, e saputo che erano vivi. Non me n' ero più
ricordato, di quel giorno, tant' è vero che adesso mi
sono stupito che fossero successe insieme, tutte quelle
cose: la delicatezza di Hrovatin e il corteo ebraico per
i fuggiaschi, la strage e la vista intima delle Nazioni
Unite all' opera, corvi bianchi e blu, spazzini postumi
nelle città assediate e tra i popoli deportati.
(16 maggio 1999)
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Ci vorrebbe un Roosevelt
di ARTHUR MILLER
Sulla guerra ho una
persuasione, alcune perplessità e molte domande. La
persuasione è che Milosevic è uno dei grandi criminali
di questo secolo. Tutta la sua attività, da Vukovar a
Sarajevo al Kosovo è l'attività di qualcuno incapace
persino di comprendere il male che ha commesso. Non credo
che alcun crimine collettivo sia più grave della pulizia
etnica, che significa strage e persecuzioni specialmente
contro donne e bambini e non credo che il mondo civile
possa fingere di non sapere, di non vedere o di
"trattare". Che cosa trattiamo: il numero dei
morti, se c'è un limite allo stupro delle donne e
all'uccisione dei bambini, tollerando un simile governo
se non esagera?
La mia perplessità è sullo strumento guerra, guerra di
bombe potenzialmente illimitata. Uno come me non può non
pensare, fin dall'inizio: pessima idea. Sappiamo come
comincia, ma non sappiamo dove finisce. Soprattutto,
dobbiamo adattarci all'idea che un certo numero di
cittadini uccisi va bene, purché non siano troppi.
Quanti sono "troppi morti" causati, come ci
dicono, a fin di bene? Che cosa pensate voi? chiedo a chi
mi sta intorno. Io, da democratico, vorrei rispondere: la
decisione spetta ai serbi. Tocca a loro decidere da chi e
come vogliono essere governati. Ma questa mia risposta
democratica mi torna indietro come un boomerang. Vuole
anche dire che se ai serbi va bene Milosevic deve andare
bene anche a me? Non può andarmi bene.
Nel 1944 avrei mai accettato di sentirmi dire dal
comandante di un campo di sterminio che quello che stava
facendo si poteva fare perché la grande maggioranza dei
tedeschi era d'accordo? Infatti non ho accettato una
simile risposta, e ho combattuto contro quel male e
quella negazione di umanità. In poche parole, non mi va
bene la guerra. Ma non mi va bene la pace di Milosevic,
perché è pace solo per noi, che ci liberiamo
dall'incubo delle azioni di guerra. Per le donne, i
bambini, gli uomini del Kosovo, quella pace si chiama
libertà di strage. È un pensiero con il quale non so
convivere.
Nel tentativo di uscire dai due incubi, la guerra che
rischia di diventare sempre più distruttiva, la pace che
sarebbe una maschera che copre la morte, non ho che una
serie di domande. Perché non abbiamo coinvolto la Russia
fin dal primo momento? Perché sappiamo così poco, così
male di quello che sta accadendo? Non ho mai visto dare
notizie di guerra nel modo contraddittorio e confuso dei
portavoce della Nato. Non c'è vero giornalismo dal
fronte. O perché è impedito da una censura rigida della
Serbia che vuole solo propaganda. O perché i reporter
coraggiosi sono dispersi in aree troppo piccole, in
situazioni troppo locali per darci un' idea di quello che
accade.
C'è uno strappo fra notizie e realtà? Primo, non so
quale dovrebbe essere il risultato di quello che stiamo
facendo 50 giorni dopo l'inizio. Secondo, noto che,
comunque, un risultato per ora non c'è. E allora non
posso fare a meno di dirmi: ah, se ci fosse un leader!
Voglio dire, uno che ha una visione, conosce i pro e i
contro di quello che sta facendo, ha calcolato gli
imprevisti, sa che cosa rispondere, a parte gli slogan,
quando l'opinione pubblica chiede: volete dirci a che
punto siamo? Va meglio o peggio di quello che avevamo
previsto?
Voglio essere sincero. Io penso a Roosevelt. Lo
rimpiango. Tony Blair e Clinton mi sembrano lievi, al
confronto, danno l' impressione di regolarsi alla
giornata. Aggiustano, di volta in volta, più le
dichiarazioni che la strategia. Qui la morsa mi afferra
di nuovo: non voglio la guerra. Ma non posso convivere
con la strage. E so che Milosevic, di sua iniziativa, non
si ferma e non tratta. Lui ha una visione, lui è un vero
leader. Ma il suo mondo è un mondo di orrore.
Questo stato d'angoscia aumenta, sapendo che adesso la
Russia si trova in una condizione terribile: un primo
ministro che viene dai servizi segreti, un Parlamento che
sta per processare il presidente. Eppure io dico che
dobbiamo continuare a sperare nei russi.
Chiedo di sapere di più, ecco la mia conclusione. E mi
dico: per fortuna in questa vicenda noi americani non
siamo soli. Da soli abbiamo avuto il Vietnam. Non
possiamo averne un altro. Ci sono con noi i paesi europei
che sanno cos'è la guerra nella propria casa, che cos'è
il razzismo, che cos'è la razzia di gente innocente. Mi
dico: ne usciremo insieme, senza avere violato almeno i
criteri minimi di civiltà. E restituendo diritti e
libertà ai perseguitati. È un'illusione?
Arthur Miller, 84 anni, è uno dei più famosi
commediografi al mondo. È autore, tra l'altro, di
Morte di un commesso viaggiatore, Dopo la caduta, Uno
sguardo dal ponte.
(14 maggio 1999)
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L'amaro prezzo
della vittoria
di PETER SCHNEIDER*
Più si prolunga la guerra
nel Kosovo, e più le voci di accompagnamento degli
intellettuali suonano stridule e confuse. Sembra che le
accuse stiano rapidamente cambiando bersaglio. Più degli
assassinii, incendi e deportazioni a opera delle milizie
di Milosevic, sono al centro dell' attenzione gli
incessanti bombardamenti della Nato, che sempre più
spesso colpiscono la popolazione civile o sbagliano
obiettivo, e fanno precipitare la Jugoslavia al grado di
sviluppo del 1945. Il panico predomina nelle analisi come
nelle conclusioni. IL riflesso del "si salvi chi
può" assale le menti, e si scatena una sorta di
corsa all' innocenza, per essere tra coloro che avevano
pronosticato in tempo sia i massacri in Kosovo che il
disastro dell' intervento Nato. In definitiva, un modo
per non aiutare nessuno ma per aver avuto comunque
ragione. A tutto questo vorrei rispondere con due tesi.
1. Un intervento militare era legittimo, anzi
inevitabile. 2. Finora, l' intervento della Nato si è
dimostrato un insuccesso quasi totale, e porterà
probabilmente a una pace tarata, senza consentire il
ritorno degli albanesi del Kosovo alle proprie case.
Primo punto: nessuno è riuscito a produrre un argomento
credibile a sostegno dell' affermazione che la Nato
mirasse, con il suo intervento, a posizioni strategiche,
ricchezze naturali, espansione territoriale ecc. Chi fa
affermazioni del genere (come Bertinotti) si espone al
sospetto di essere molto più interessato alla conferma
della sua immagine del mondo (e della sua clientela
elettorale) che alla sorte dei kosovari oppressi. Con
questa guerra si è affermato un principio: la sovranità
degli Stati e il concetto di affari interni non
comportano il diritto di angariare sistematicamente i
propri cittadini, di cacciarli dalle loro case o di
trucidarli. Il rimprovero di chi ricorda, per criticare
l' intervento nel Kosovo, che nessuno si è mosso in
Ruanda o altrove, è in parte giustificato; ma sarebbe
assurdo desumerne il divieto a entrare in azione nel
Kosovo. Secondo punto: già da varie settimane è chiaro
che i lanci incessanti di bombe sulla Jugoslavia hanno
mancato il principale obiettivo della guerra. Lungi dal
porre fine alle deportazioni e ai massacri in Kosovo, i
bombardamenti li hanno anzi accelerati.
Non è giustificabile, a lungo andare, che si aggravi
ulteriormente una tragedia umana nell' intento di
arginarla. Ed è insopportabile che praticamente non si
sia distrutto neppure un carro armato dell' esercito
jugoslavo, mentre sono stati colpiti quasi tutti i ponti
sul Danubio, le vie di comunicazione, gli impianti
industriali, le centrali elettriche ecc. Non si può
punire un intero popolo per il fatto di essere ostaggio
di un tiranno, e per non essere stato in grado di
rovesciarlo.
La Nato avrà almeno tentato di spiegare alla popolazione
della Jugoslavia perché diciannove democrazie siano
entrate in guerra contro questo paese? E inoltre ci
troviamo di fronte a un fatto incontestabile: i
bombardamenti hanno ridotto a zero gli spazi degli
oppositori del regime. A tutt' oggi, il bilancio del pur
giustificato intervento in Kosovo è disastroso. Anche la
guerra ha ovviamente una sua morale. Un intervento che
non raggiunga i suoi obiettivi, e si dimostri
controproducente, non tarda a diventare discutibile sul
piano etico. Resta da chiedersi perché la potenza
bellica più moderna e agguerrita del mondo non riesca a
pacificare un territorio non più grande della metà del
Lazio. Temo che la risposta sia piuttosto semplice.
L' Occidente ha cercato pervicacemente di ignorare la
tremenda scommessa di un massacratore e giocatore di
poker come Milosevic: "Noi mettiamo in gioco la
nostra vita, siamo pronti a morire. Mentre voi volete
fare la guerra senza farla. Stiamo a vedere chi ha il
fiato più lungo". Fin dalla guerra di Bosnia si è
visto che un giocatore deciso a tutto può praticamente
neutralizzare la più potente macchina militare, se ha
motivo di credere che la disponibilità dei suoi
detentori a utilizzarla sia legata alla condizione che l'
intervento non richieda il sacrificio di vite umane. E'
proprio questa la debolezza che la Nato ha rivelato a
Milosevic, quando ha escluso il dispiegamento di truppe
di terra: un annuncio che non obbediva alle regole dell'
arte bellica, bensì a quelle della ricerca del consenso
in una democrazia occidentale. Viviamo in un mondo che ha
sempre più emarginato dall' orizzonte del pensiero e
dell' azione, se non addirittura dimenticato la
possibilità di un ribaltamento, di un crollo subitaneo,
il pericolo di ripiombare improvvisamente nella barbarie.
Tanto che se qualcuno chiedesse a me, o a chiunque altro:
"Sei disposto a rischiare la pelle per gli albanesi
del Kosovo?" la domanda verrebbe percepita come
retorica; così come appare scontata la conclusione che
non si possa aspettarsi dagli altri la disponibilità ad
accettare un rischio, quando noi stessi non siamo
disposti a correrlo.
Supponiamo di trovarci in un caffè, a Francoforte o a
Roma, e di assistere all' irruzione di un' orda di uomini
armati che trascinano via tutte le persone dai capelli
rossi per caricarle su un camion. Alcuni tra noi
scatteranno forse spontaneamente per fermare gli
aggressori. Ma in maggioranza resteremmo seduti, fidando
nell' intervento armato delle forze dell' ordine al
servizio della democrazia. E non saremmo disposti a
rinunciare a quest' aspettativa neppure se qualcuno ci
rinfacciasse di non essere entrati in azione correndo gli
stessi rischi. E se la polizia non fosse stata
immediatamente raggiungibile, o non fosse intervenuta?
Avremmo partecipato a un' azione civile contro i
violenti? Di fronte a quest' ultima domanda potremmo
esitare, ma non rispondere negativamente adducendo
ragioni di principio. Può accadere che il mandato per la
difesa ricada su chi lo ha conferito, vale a dire sui
cittadini. Con quest' esempio intendo dimostrare che i
cittadini di una comunità, compresi quelli delle nostre
democrazie del benessere, danno per scontato che le
regole della convivenza civile siano tutelate, anche
quando la loro difesa comporti il rischio della vita. In
un mondo sempre più interdipendente, sarà sempre meno
possibile garantire questa tutela solo all' interno dei
confini nazionali. I capi della Nato hanno omesso di
chiedere ai cittadini dei rispettivi paesi in quale
misura fossero disposti a impegnarsi per il conseguimento
degli obiettivi proclamati di questa guerra.
Probabilmente i cittadini non avrebbero acconsentito all'
intervento, se fossero stati informati del prezzo da
pagare per il successo. Ma ciò non avrebbe eliminato il
problema. Non sarà questa l' ultima volta che i
cittadini delle democrazie saranno confrontati alla sfida
di un oppressore capace di dire: Io mi posso permettere
di camminare sopra i cadaveri. Voi no.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
*Peter Schneider è uno scrittore tedesco. Tra le sue
opere, ricordiamo Lenz e Il saltatore del muro.
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