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LA DEVASTAZIONE DELLA SEDE DEL P.C.I. DI CAMPALTO

AVVENUTA IL 9.10.1968

L’azione contro la sede del P.C.I. di Campalto, nei pressi di Mestre, più legata ad una pratica di violenza politica che ad un programma terroristico, ma comunque indicativa della determinazione del gruppo di Delfo ZORZI, è stata così rievocata da Martino SICILIANO:

"""....L'azione contro la sezione del P.C.I. di Campalto, di cui ho già fatto cenno a pag.4 del mio memoriale, fu commessa nell'autunno del 1968 da ZORZI, MARIGA, me stesso, e da una quarta persona che potrebbe essere Piercarlo MONTAGNER, anche se non ne ho l'assoluta certezza.

Fu un'azione estemporanea legata allo scontro politico dell'epoca.

Eravamo con l'autovettura GIULIA di MARIGA e attendemmo nei pressi della sezione sino alla chiusura di un bar vicino perchè in tal modo potevamo agire indisturbati.

Erano quindi le prime ore del mattino, sfondammo la porta, danneggiammo i mobili e il materiale propagandistico, svuotammo gli schedari e incendiammo tale materiale e i mobili con della benzina che avevamo portato con noi.

Asportammo la bandiera del Partito Comunista e ci allontanammo.

Avevamo il volto coperto con calze da donna di nylon.

Sono convinto che la bandiera del Partito Comunista avvolgesse parte delle armi ritrovate poco tempo dopo a MARIGA al casello di Mestre sulla sua stessa GIULIA. Fu lo stesso MARIGA, pochi giorni dopo la sua scarcerazione, a riferirmi tale circostanza, anche se è possibile che gli operanti non si fossero accorti che nella vettura si trovasse la bandiera in parte rovinata."""

(SICILIANO, int.6.10.1995, ff-2-3)

In un successivo interrogatorio, Martino SICILIANO ha precisato che l’obiettivo era stato individuato da Giampietro MARIGA, che conosceva molto bene la zona, e che la Sezione era stata messa a soqquadro anche per sottrarre l’elenco degli iscritti poichè alcuni militanti stavano svolgendo opera di "controinformazione" sulle attività di Ordine Nuovo (int. 9.8.1997, f.3).

La descrizione dell’episodio offerta da Martino SICILIANO corrisponde perfettamente al contenuto degli atti redatti all’epoca dalla Polizia (cfr. nota della Digos di Venezia in data 3.5.1995 e atti allegati, vol.8, fasc.3).

L’azione, come si desume dagli articoli di stampa acquisiti dalla Digos di Venezia, aveva suscitato notevoli reazioni a livello locale sia per l’entità dei danni subìti dalla Sezione (per circa 800.000 lire, all’epoca) sia per lo sfregio rappresentato dall’asportazione della bandiera del Partito.

Anche in relazione a tale episodio le ammissioni di Martino SICILIANO non sono rimaste un dato isolato e privo di riscontro.

In primo luogo Giancarlo VIANELLO ha ricordato di avere ricevuto da Martino SICILIANO, già nell’immediatezza del fatto, la confidenza della sua partecipazione, insieme a Delfo ZORZI, ad un’azione di danneggiamento contro una sede del P.C.I. nei pressi di Mestre (int. 11.7.1995, f.2).

Anche Roberto MAGGIORI, uno dei componenti minori del gruppo di Mestre presto allontanatosi dalla politica attiva, ha riferito di avere subito appreso nell’ambiente che l’azione era stata compiuta da Delfo ZORZI e dalle persone a lui vicine (dep. 22.4.1995, f.5; 6.5.1995, f.4).

Inoltre Giuliano CAMPANER, che ha ammesso di avere partecipato con ZORZI e ANDREATTA, il 25.4.1967, ad un’analoga anche se meno grave irruzione contro la sede del P.C.I. in località Tessera, ha fornito così un indiretto elemento di riscontro (dep. al G.I., 27.4.1995, f.3; al P.M., 9.6.1995, f.1) che merita di essere ricordato quasi a titolo di curiosità solo perchè l’azione contro la sede di Tessera e, nell’occasione, la distruzione di un ritratto di Togliatti sembra essere stata la sola azione di violenza ammessa da Delfo ZORZI in occasione delle sue spontanee dichiarazioni a Parigi nel dicembre 1995.

Si ricordi peraltro che pochi giorni dopo l’azione contro la sede di Campalto, il 16.11.1968, Delfo ZORZI e Giampietro MARIGA erano stati arrestati per la detenzione illegale di alcune armi e di una piccola quantità di esplosivo (cfr. rapporto del Commissariato di P.S. di Mestre in data 17.11.1968, vol19, fasc.2).

Interrogato nella notte da personale della Polizia, Delfo ZORZI aveva avuto un momento di evidente confusione e cedimento, non solo accennando ad un deposito di armi esistente nella provincia di Treviso (certamente il casolare di Paese), ma anche accusando MARIGA di avere partecipato, mascherato con una calza di nylon da donna, all’incendio alla Sezione di Campalto e fornendo altresì a chi lo interrogava altre notizie compromettenti riguardanti il camerata di Mantova Roberto BESUTTI.

Giampietro MARIGA era stato quindi incriminato per l’azione del 9.10.1968 contro la sede di Campalto ed era stato poi prosciolto solo a seguito della ritrattazione di Delfo ZORZI in sede processuale.

Alla luce di tali circostanze e della situazione di pressione psicologica in cui si trovava ZORZI, non sembra un’affermazione azzardata quella di Vincenzo VINCIGUERRA secondo cui proprio l’arresto del novembre 1968 sarebbe stato l’inizio dell’avvicinamento di ZORZI da parte di funzionari dell’Ufficio Affari Riservati che gli avrebbero proposto, ricevendo una risposta positiva, di non continuare ad agire in proprio, rischiando arresti e denunce, ma di unirsi invece ad un apparato istituzionale nella comune lotta contro il pericolo comunista (int. VINCIGUERRA, 3.3.1993, f.2).

Concludendo comunque sul punto, i reati di danneggiamento e incendio connessi all’episodio di Campalto e contestati anche a Piercarlo MONTAGNER, che pure ha negato ogni responsabilità, devono essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione.

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L’ATTENTATO IN DANNO DELLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE

E

L’ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE ITALO-JUGOSLAVO

IN LOCALITA' MONTESANTO DI GORIZIA

L'attentato alla Scuola Slovena di Trieste era già stato oggetto di interesse nel corso dell'istruttoria contro FREDA, VENTURA e gli altri componenti della cellula padovana condotte dal G.I. dr. D'Ambrosio in quanto gli inquirenti avevano già sospettato un collegamento fra tale grave episodio e gli attentati del 12.12.1969 ed in quanto uno dei possibili testimoni, l'avv. Gabriele FORZIATI di Trieste, entrato in rotta di collisione con i suoi ex-camerati di Ordine Nuovo e quindi soggetto passibile di un cedimento dinanzi all'A.G., era stato per lungo tempo fatto sparire sottraendolo alle convocazioni dei giudici.

Si era quindi avuta la netta sensazione (l'avv. FORZIATI era stato, fra l'altro, vittima di un tentativo di estorsione da parte di Franco FREDA) che l'episodio di Trieste fosse maturato nello stesso ambiente in cui erano stati ideati e organizzati gli altri attentati della campagna terroristica della primavera-inverno 1969.

Sintetizzando quanto emerge dai rapporti giudiziari e dalle perizie tecniche relative ai due attentati, è sufficente in questa sede ricordare che la mattina del 4.10.1969 (un lunedì) il custode della scuola elementare di lingua slovena, sita in Via Caravaggio 4 a Trieste, scoprì sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato.

Quando i Carabinieri intervenuti sollevarono il coperchio, la cassetta risultò contenere sei candelotti di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo Carabinieri di Trieste in data 2.2.1970).

Ai piedi dell'edificio venivano inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in stampatello di carattere antislavo quali "NO AL VIAGGIO DI SARAGAT IN JUGOSLAVIA", "NO ALLE FOIBE" e così via, firmati FRONTE ANTI SLAVO.

La perizia disposta dall'A.G. di Trieste evidenziò che la cassetta conteneva complessivamente kg. 5,700 di gelignite e che l'ordigno non aveva funzionato per un difetto tecnico connesso o al basso voltaggio della pila elettrica o a un cattivo contatto fra i fili conduttori o fra la lancetta dell'orologio e la vite inserita nel quadrante.

L'ordigno inesploso deposto vicino al cippo di confine italo-jugoslavo a Gorizia veniva invece rinvenuto casualmente solo in data 6.11.1969, in occasione di lavori di potatura di alcuni alberi eseguiti da operai italiani.

La cassetta rinvenuta presentava le medesime caratteristiche di quella deposta dinanzi alla scuola di Trieste e risultava contenere un ordigno anch'esso del tutto identico aquello di Trieste, composto da innesco a orologeria e candelotti di gelignite per il peso complessivo di kg. 1,500 (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo Carabinieri di Gorizia in data 5.3.1970).

Anche in tale occasione venivano rinvenute nelle vicinanze della cassetta cinque foglietti con slogans antislavi.

L'ordigno rinvenuto sulla linea di confine veniva quasi immediatamente fatto brillare per ragioni di sicurezza dagli artificeri intervenuti sul posto e l'esplosione risultava di tale potenza da far saltare i vetri di numerosi edifici nel raggio di un centinaio di metri sia in territorio italiano sia in territorio jugoslavo e da danneggiare comunque gravemente il muro di sostegno della rete di confine.

Del resto, per comprendere la potenzialità offensiva dei due ordigni deposti a Trieste e a Gorizia, basti pensare che essi complessivamente contenevano una quantità di esplosivo pari a oltre quattro volte quello contenuto nella cassetta metallica lasciata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.

L'iter processuale delle istruttorie, che all'epoca avevano interessato il solo episodio di Trieste toccando comunque, anche se con pochi elementi di prova, l'ambiente politico/eversivo che alla luce delle nuove risultanze risulta effettivamente coinvolto nei fatti, era stato alquanto accidentato.

In un primo momento, sulla base di pur vaghe dichiarazioni accusatorie di tale SEVERI Antonio, appartenente all'area di estrema destra di Trieste, erano stati indiziati gli ordinovisti triestini NEAMI, BRESSAN e FERRARO (i cui nomi ricorrono nelle attuali dichiarazioni di SICILIANO e VIANELLO come effettivi basisti dell'attentato) i quali si erano dati a precipitosa fuga rifugiandosi presso un ordinovista di Torino.

I tre, in seguito, erano stati tuttavia prosciolti stante la labilità degli elementi a loro carico.

In seguito, dopo il rientro dell'avv. FORZIATI dal suo "soggiorno" in Spagna, questi, sentito dall'A.G. di Trieste e di Milano, aveva dichiarato di avere appreso da un altro componente del gruppo triestino, Manlio PORTOLAN, che autori dell'attentato erano stati due ordinovisti di Mestre e cioè Delfo ZORZI e Martino SICILIANO.

Anche tale seconda istruttoria si era tuttavia conclusa con un proscioglimento poichè le indagini a Mestre erano state assai superficiali e non era stato possibile acquisire elementi più consistenti. Anche alla luce delle successive dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA, che aveva indicato quale profilo non sufficientemente esplorato dalle indagini l'unità di azione, a partire dalla fine degli anni '60, del gruppo mestrino e del gruppo triestino, era comunque sempre rimasto il fondato sospetto che le indagini iniziali avessero imboccato, anche se non coltivato fino in fondo, la pista giusta.

L'attentato di Trieste e quello contemporaneo di Gorizia sono stati i primi episodi di cui Martino SICILIANO ha parlato al momento della sua scelta di collaborazione sia per l'intrinseca gravità dei fatti sia per la netta percezione che egli aveva immediatamente avuto che essi fossero collegati agli attentati del 12.12.1969.

Vi era infatti la presenza dei candelotti di gelignite, vi era l'utilizzo di cassette metalliche (seppur portamunizioni e non portavalori e quindi diverse da quelle usate per il fatti del 12.12.1969) che avrebbero dovuto aumentare la potenza della deflagrazione; vi era la netta sensazione che la spedizione a Trieste e Gorizia costituisse una prova di affidabilità e una sperimentazione degli uomini e dei mezzi in vista di azioni ancora più gravi.

Non a caso Martino SICILIANO, forse giudicato non sufficientemente determinato o forse troppo facilmente individuabile in caso di indagini abbastanza approfondite (interr. SICILIANO, 12.9.1996, f.5), era stato escluso dopo gli attentati di ottobre dal nucleo operativo.

Ecco il racconto in merito ai due attentati reso immediatamente da SICILIANO sin dai primi interrogatori:

"""

ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE - OTTOBRE 1969

Il 2 ottobre 1969 ZORZI mi parlò della necessità di effettuare un atto dimostrativo al confine orientale in funzione di contestazione alla preannunciata visita di Saragat a Tito.

La visita poi non si verificò comunque, ma per motivi che non attenevano al nostro fallito attentato

Fui incaricato da lui di realizzare col pantografo dei volantini manoscritti anti-Tito da lasciare in loco.

Ne parlò solo a, me ma ci mettemmo d'accordo per partire il giorno dopo, insieme a Giancarlo VIANELLO, con la macchina di MAGGI.

L'appuntamento era a Piazzale Roma, dove io, Zorzi e Vianello arrivammo in autobus e presso il garage San Marco c'era la macchina di Maggi.

Nel baule della stessa vi erano due contenitori metallici del tipo per nastri da mitragliatrice, di colore grigio/verde, riempiti di bastoni di gelignite con un timer già approntato al quale mancava solamente di essere attaccata la batteria.

Chiesi a Zorzi perchè vi erano due ordigni al posto di uno e mi risponde che uno dovevamo deporlo a Trieste e l'altro a Gorizia.

Preciso che i soldi per la benzina, l'autostrada e il mangiare furono forniti da Maggi.

Zorzi, poichè glielo chiesi, mi disse che gli ordigni erano stati preparati dallo ZIO OTTO che ribadisco essere DIGILIO.... Poichè avevo paura di poter saltare in aria innescando l'ordigno, espressi le mie preoccupazioni a ZORZI il quale mi tranquillizzo dicendomi che tutto era stato preparato dalla solita persona.... Io non sapevo come effettuare il collegamento dei timers agli ordigni, ma lo ZORZI mi spiegò come i due poli dovessero essere collegati alle batterie.

Non sono in grado di spiegare perchè fossi stato prescelto.

Saliti in macchina andiamo a TRIESTE ove abbiamo appuntamento con dei locali e cioè NEAMI e PORTOLAN, quest'ultimo ci portò a casa della nonna o della zia, deceduta da poco per cui la casa era libera e dove fu effettuato il collegamento del primo ordigno.

Dagli stessi siamo stati chiamati a questa scuola di lingue slovena ove l'ordigno è stato collocato se non erro su una finestra. Non ricordò chi lo collocò, io ho lasciato nelle adiacenze i volantini.

Prendo visione delle fotografie contenute nel fascicolo originale dei rilievi tecnici del procedimento relativo all'attentato alla scuola slovena.

Riconosco i fogliettini con scritte che furono redatti da me con scritte antislave ed abbandonati sul posto.

Io avevo iniziato a scrivere i foglietti con un pantografo, ma dopo poco mi stufai e continuai a scriverli a mano a stampatello.... Riconosco altresì la cassetta portamunizioni, i candelotti e il congegno di accensione, quest'ultimo che ebbi occasione do osservare da vicino prima di effettuare personalmente il collegamento dei fili.

L'orologio era stato munito di un perno per costituire il contatto.

Eravamo convinti, andando via, di sentire un boato che avrebbe dovuto verificarsi quando noi uscendo da Trieste saremmo stati ormai sulla strada per Gorizia.

Il tempo programmato non era molto, meno di un'ora, forse 40 o 45 minuti, ma comunque non sentimmo nulla.

Prendo atto che il congegno non esplose in quanto la batteria era quasi del tutto scarica e che ciò è stato accertato dalla perizia.

In merito non so cosa dire; io ero convinto che il congegno esplodesse tanto è vero che ho avuto paura di saltare in aria innescandolo, ma evidentemente qualcuno aveva programmato l'azione in modo diverso perchè mi sembra difficile che possa avvenire un errore del genere.

Come è noto, io e Delfo Zorzi, sulla base delle dichiarazioni di Gabriele FORZIATI, fummo indiziati in istruttoria di tale attentato doversi anni dopo lo stesso.

Fummo prosciolti, ma Forziati in realtà aveva detto il vero.

Egli non aveva avuto alcun ruolo nella vicenda, ma evidentemente nell'ambiente di Trieste, che era piccolo, aveva avuto delle confidenze esatte.

Subì anche una bastonatura per ritorsione che proveniva ovviamente dall'ambiente di Ordine Nuovo di Trieste.

Preciso che sui quotidiani locali apparve la notizia che la bomba avrebbe dovuto esplodere intorno a mezzogiorno causando vittime fra i bambini che frequentavano la scuola.

Ciò non è assolutamente esatto perchè l'ora prevista di scoppio non era certo mezzogiorno, ma intorno a mezzanotte e cioè poco dopo che l'ordigno era stato deposto e innescato.

D'altronde la posizione del perno non consente un periodo di attesa superiore ad un'ora in quanto veniva usato un comune orologio da polso.

ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE CON LA JUGOSLAVIA A GORIZIA

Da Trieste Neami e Portolan ci accompagnarono alla strada per Gorizia ove arrivammo con la luce e quindi ci intrattenemmo in un bar onde aspettare il buio e innescare l'ordigno in macchina. Non avemmo appoggi locali.

Fu scelto il cippo situato di fronte alla vecchia stazione ferroviaria. Il luogo era adatto anche perchè la strada era poco illuminata.

Nei pressi del cippo c'era la rete metallica che segnava il confine.

Non sono in grado di ricordare chi depose la cassetta, forse fui io stesso. Fui invece certamente io a lasciare lì vicino dei volantini del tutto analoghi a quelli lasciati a Trieste, anche questi da me manoscritti.

Il congegno deposto a Gorizia, per quanto ricordo, era del tutto identico a quello deposto a Trieste.

Sapemmo che anche questo ordigno non esplose in quanto non apparve alcuna notizia sui giornali e Neami e Portolan ci confermarono poi la notizia e a distanza di qualche settimana comparve sui giornali la notizia del ritrovamento dell'ordigno inesploso.

Io e Zorzi commentammo il fallimento dei due attentati attribuendolo ad un errore nostro e cioè di manipolazione dell'ordigno al momento dell'innesco. Non pensammo ad un difetto originario dell'ordigno...."""

(SICILIANO, 18.10.1994, ff.3-5).

Il dr. Carlo Maria MAGGI era perfettamente consapevole delle finalità della spedizione e dei motivi per cui la sua autovettura veniva utilizzata:

"""....posso precisare che il dr. Maggi, prestandoci la vettura per andare a Trieste e a Gorizia, era perfettamente a conoscenza degli attentati che dovevano essere compiuti e dei loro obiettivi.

Preciso che quando arrivammo al Garage Sam Marco, Maggi non c'era e la macchina era parcheggiata nel garage con le chiavi nel quadro in quanto era obbligatorio lasciarvele...."""

(SICILIANO, 19.10.1994, f.8).

In data 20.10.1994, Martino SICILIANO ha fornito ulteriori precisazioni in particolare quelle importantissime relative al color rosso della carta che avvolgeva la gelignite:

"""....In merito agli attentati alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine a Gorizia, faccio presente che Zorzi mi disse, nel corso del viaggio a Trieste, che nel caso in cui l'effetto sperato sull'opinione pubblica non fosse stato sufficiente, era già stato approntato un terzo ordigno per il sacrario di Redipuglia, ove sono sepolti i caduti della prima guerra mondiale, attentato che ovviamente avrebbe dovuto essere attribuito ai gruppi sloveni di sinistra.

Sempre in merito agli attentati di Trieste e Gorizia, posso precisare che le due cassette metalliche contenenti l'esplosivo erano una un po' più grande dell'altra, ma comunque molto simili e di colore e di chiusura uguali.

I candelotti di gelignite erano avvolti in carta color rosso di sfumatura intorno al mattone/bordeaux.

Posso inoltre precisare che i detonatori erano del tipo elettrico al fulminato di mercurio.

Voglio aggiungere che, in occasione dell'incriminazione per i fatti di Trieste e Gorizia, io fornii al giudice istruttore un alibi falso affermando che quella sera mi trovavo a Trieste con una entreneuse originaria di Bolzano e che a Trieste aveva un bar-latteria. Io conoscevo effettivamente quella ragazza, che si chiamava Ivana Deck, nota come Ivonne, ma ovviamente quella sera non ero con lei...."""

(SICILIANO, 20.10.1994).

Durante e dopo la spedizione a Trieste e Gorizia, Delfo ZORZI aveva fatto a Martino SICILIANO discorsi ancora più inquietanti: vi erano ancora molti candelotti di gelignite e molte cassette metalliche utilizzabili per altre operazioni e ZIO OTTO (cioè Carlo DIGILIO) aveva migliorato e reso più sicuro il sistema di timeraggio cosicchè le nuove azioni in progettazione sarebbero state portate a termine in condizioni di assoluta affidabilità (interr. SICILIANO, 20.10.1994, f.3).

Anche Giancarlo VIANELLO ha parlato sin dal primo interrogatorio degli attentati di Trieste e Gorizia, i fatti più gravi in cui durante la sua militanza era stato coinvolto sotto la spinta e la determinazione carismatica di Delfo ZORZI:

"""....I due episodi di Trieste e di Gorizia nacquero in concomitanza con una visita del Presidente Saragat in Jugoslavia.

Secondo Zorzi il senso di questi attentati non era tanto antislavo, quanto di creare tensione all'interno del nostro Paese con un ripetersi di episodi, magari non gravi ma diffusi, che colpissero l'opinione pubblica e provocassero disagio ed una richiesta comunque di maggior autorità e ordine.... L'organizzazione degli episodi era dovuto anche nei suoi particolari a Delfo Zorzi, ma pur senza alcuna reticenza non riesco a ricordare se io ne avessi avuta qualche notizia in anticipo o al momento stesso della partenza.

Comunque, il senso del mio coinvolgimento, e probabilmente di quello della ragazza che era con noi, era comunque pormi in una situazione tale da non potere più poi fare marcia indietro rispetto alla nostra militanza, essendo compartecipe di fatti di una certa gravità

Martino Siciliano, invece, all'epoca non aveva mostrato segni di distacco dai progetti e dalle proposte di Zorzi.

Ricordo comunque che partimmo in macchina da Venezia con una Fiat 1100 di colore chiaro, credo beige, del dr. Maggi, vettura che già conoscevo essendo stata usata in occasione di propaganda politica e attacchinaggi.

Martino Siciliano, unico di noi ad avere la patente, guidava e oltre a lui c'eravamo Delfo, io e una ragazza della Campania in qualche modo collegata a Delfo e che non ebbi più occasione di vedere in seguito.... Io vidi per la prima volta le due cassette metalliche quando ci fermammo a Trieste per l'approntamento definitivo degli ordigni.

Raggiungemmo infatti Trieste nel pomeriggio e ci aspettavano due triestini che conoscevo e che erano noti attivisti di Ordine Nuovo di quella città.

Uno era sicuramente Francesco NEAMI e il secondo era un altro militante che conoscevo, ma non riesco assolutamente a ricordare se si trattasse di BRESSAN o di PORTOLAN.

In sostanza c'erano due dei militanti triestini più conosciuti.

Ricordo che ci incontrammo in un certo punto e li seguimmo in macchina fino ad una abitazione che per quanto ricordo era la casa vuota di una nonna o di una parente di uno dei due e quindi poteva essere utilizzata per approntare i congegni con tranquillità. Era una casa in città a Trieste.

In questa casa Delfo Zorzi fece un primo collegamento dei congegni probabilmente non completo perchè ancora un certo tratto di strada ci divideva da Gorizia. Gli ordigni, per quanto ricordo, erano costituiti appunto da cassette metalliche con all'interno dei candelotti e un congegno di innesco formato da batteria e filo elettrico, detonatore e orologio o sveglia che fungeva da timer.

Ricordo, per affermazione di Zorzi, che i candelotti erano di gelignite, ma non saprei descriverli in particolare perchè lividi al più per pochi attimi in quanto Zorzi si era appartato in un'altra stanza per armeggiare con essi.

Ripartimmo da questo appartamento, che ricordo modesto, alla volta di Gorizia dove arrivammo solo noi quattro intorno all'ora di cena.

C'era ancora movimento e ci recammo quindi a cena in una trattoria e poi al cinema all'ultimo spettacolo, cioè quello che inizia intorno alle 22.00/22.30, solo per tirare la mezzanotte e poterci muovere con più libertà.... Ricordo ancora molto bene quale fosse il film che vedemmo quella sera.

Il cinema era a Gorizia-città e si trattava di un film e brevi episodi di carattere realistico, ma con toni surreali, a colori, credo americano, nel corso del quale c'era ad esempio un episodio di questo genere: due innamorati, che si erano lasciati, si erano dato un appuntamento per molto tempo dopo e in un'altra città, e per la fretta di raggiungersi al momento convenuto si erano scontrati con le rispettive vetture rimanendo uccisi.

Era un film con attori poco noti o che io non conoscevo.

Terminato lo spettacolo ci portammo in una zona fuori città e isolata e al buio, all'interno della macchina e con la luce interna, Zorzi collegò l'ultimo contatto.

Prendemmo poi una strada sterrata ove, ricordo, ebbi molta paura in quanto la macchina sobbalzava e con l'ordigno già innescato c'era il serio rischio di saltare per aria.

Raggiungemmo il punto di confine con la Jugoslavia nei presso di una stazione ferroviaria.

Zorzi scese e collocò personalmente, mostrando una notevole freddezza, l'ordigno nei pressi del cippo di confine jugoslavo, superando quindi da solo il cippo italiano e la cosiddetta zona di nessuno.... Ripartimmo rapidamente per Trieste, che raggiungemmo quindi intorno all'una di notte.

Preciso che a Trieste, prima di raggiungere la casa della parente di uno dei due triestini, costoro ci avevano mostrato dove era la Scuola Slovena e quindi, dopo Gorizia, raggiungemmo il secondo obiettivo senza particolare difficoltà.

Credo, anche se non ho un ricordo preciso, che come per l'episodio precedente, sia stato effettuato qualche minuto prima l'ultimo collegamento e poi Delfo depose l'ordigno in qualche punto presso la struttura della scuola.

In questo caso ricordo che lasciammo un certo numero di bigliettini con scritte antislave nei pressi della scuola. Io li vidi per la prima volta poco prima dell'azione e ricordo che mi inquietai in quanto le iniziali del "Fronte Anti Slavo" citato negli stessi, erano le stesse della sigla "F.A.S - Fronte di Azione Studentesca" che avevamo usato per diffondere volantini di destra nelle scuole di Mestre e Venezia e ciò avrebbe potuto condurre le indagini fino a noi.... Ricordo un altro particolare e cioè che insieme all'ordigno fu deposto un contenitore con benzina che avrebbe dovuto, se fosse avvenuta l'esplosione, creare un incendio.

Ripartimmo a rotta di collo per Venezia.... Posso ancora aggiungere che ebbi la sensazione che l'utilizzo di questa sigla "F.A.S." che almeno in un certo contesto era ben leggibile e l'utilizzo di una notevole quantità di esplosivo fossero un messaggio a referenti di Zorzi per rafforzare il senso della sua capacità operativa.

Ritengo peraltro che gli ordigni non siano esplosi per un casuale malfunzionamento, ma che non dovevano esplodere per costituire proprio il messaggio di cui ho appena parlato, oltre naturalmente a rafforzare il coinvolgimento degli altri compartecipi...."""

(VIANELLO, 19.11.1994).

Anche Giancarlo VIANELLO ha dichiarato di avere appreso da ZORZI che il congegno di innesco era dovuto all'aiuto fornito da "OTTO" e che la gelignite era custodita in un deposito segreto di Delfo ZORZI.

Giancarlo VIANELLO è stato in grado di ricordare sia come si presentava la gelignite sia un altro importante particolare di riscontro e cioè la trama del film che il gruppo aveva visto quella sera a Gorizia in attesa di passare all'azione:

"""....Mi sono ricordato, dopo il precedente interrogatorio, che i candelotti di gelignite erano avvolti con carta oleata di colore rosso scuro tendente al mattone o al bordeaux.

E' questo un ricordo visivo netto, anche se non sono in grado di dire a quale momento della vicenda risalga e cioè a quale momento degli episodi, di cui ho parlato, dell'ottobre 1969.

Comunque non avevo mai visto tali candelotti prima del viaggio a Trieste e Gorizia.

Per quanto concerne la sosta a Gorizia in attesa del momento più opportuno per agire, posso confermare che assistemmo in città ad una proiezione cinematografica in un comune cinematografo che certamente non era una cineteca o simili.

Ribadisco che il film era di produzione statunitense e che era un film ad episodi di carattere fantastico che rappresentava vicende grottesche o surreali.

Mi sono ricordato di qualche frammento di un altro episodio che raccontava la vicenda di un automobilista decapitato in autostrada da lamiere trasportate da un camion. L'automobilista aveva proseguito la sua corsa senza testa provocando incidenti dovuti alla sorpresa degli altri automobilisti...."""

(VIANELLO, 6.12.1994).

In sostanza i due racconti di SICILIANO e VIANELLO, resi separatamente da parte di persone che avevano perso i contatti da oltre vent'anni, sono quasi integralmente sovrapponibili e danno quindi garanzia di piena affidabilità.

L'unico lapsus di memoria, più che divergenza, consiste nel fatto che Martino SICILIANO, nella concitazione del primo interrogatorio in cui egli ha dovuto mettere a fuoco in poche ore i ricordi relativi a molti episodi lontanissimi nel tempo, ha collocato l'episodio di Gorizia come successivo, pur nell'ambito della stessa serata, a quello di Trieste.

Sentito peraltro sul punto in data 25.1.1995, Martino SICILIANO ha ricordato che l'esatta scansione temporale dei fatti era quella descritta da Giancarlo VIANELLO.

I particolari forniti dai due ex-militanti di Ordine Nuovo in merito alle caratteristiche dei due episodi coincidono inoltre perfettamente con quanto emerge dai rapporti giudiziari redatti nell'immediatezza dei fatti.

Perdipiù sia SICILIANO sia VIANELLO hanno riferito di avere assistito in un cinema di Gorizia, attendendo la notte e quindi il momento di passare all'azione, ad un film a carattere surreale e grottesco diviso in singoli episodi (interr. SICILIANO, 25.1.1995, f.2, e 8.11.1996, f.2; VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e 10.12.1996, f.2).

Tale film è certamente "La realtà romanzesca", un film ad episodi che era appunto in programmazione in quei giorni presso il Cinema Verdi di Gorizia, come si desume dai quotidiani locali dell'epoca, acquisiti da questo Ufficio tramite la Digos di Venezia.

Tale riscontro conferma in modo assolutamente indiscutibile la presenza del gruppo, quella sera, a Gorizia.

Carlo DIGILIO, completando il già ricco quadro probatorio relativo ai due attentati "preparatori", ha confermato che in quel periodo, in occasione di diversi incontri avvenuti a Mestre, svolgeva attività di "consulenza" in favore di Delfo ZORZI in merito alle tecniche più adeguate per l'innesco di ordigni esplosivi e che Delfo ZORZI gli aveva confidato di avere organizzato e personalmente partecipato all'attentato alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine di Gorizia (interr. DIGILIO 12.11.1994 e memoriale allegato; 21.2.1997 f.3).

Tali azioni, sempre secondo ZORZI, anche se gli attentati materialmente erano falliti, avevano avuto un effetto positivo per l'ambiente di destra del Veneto in termini di prstigio e di operatività e soprattutto avevano contribuito a meglio selezionare e coagulare il gruppo di militanti che ruotava intorno allo stesso ZORZI (interr. DIGILIO 13.1.1996 f.2).

In relazione all'attentato do Gorizia, Delfo ZORZI si era vantato con DIGILIO di essersi portato personalmente sulla linea di confine e di avere deposto l'ordigno sfidando il pericolo di essere sorpreso da qualche pattuglia di "graniciari" (le guardie di confine jugoslave) che pattugliavano la zona (interr. DIGILIO 21.2.1997 f.2).

Tali particolari corrispondono alle effettive modalità dell'attentato, oltre che alla assoluta determinazione di Delfo ZORZI quale emerge dagli atti, e corrispondono altresì alla descrizione della materiale esecuzione dell'attentato fornita da Giancarlo VIANELLO, il quale ha rievocato la "freddezza" dimostrata da ZORZI nell'avvicinarsi da solo alla linea di confine (interr. VIANELLO 19.11.1994 f.7)

Infine, sul piano dei riscontri documentali, sono state acquisite al presente procedimento alcune copie di lettere inviate via telefax da Stefano TRINGALI a Delfo ZORZI, presso la sua residenza in Giappone, che erano state rinvenute casualmente e sequestrate dal Nucleo Regionale polizia tributaria della Guardia di Finanza di Firenze nell'abitazione di Roberto LAGNA (componente del gruppo di Delfo ZORZI, deceduto nel 1993) durante un'operazione in materia di evasione fiscale e di utilizzo di marchi falsi.

Il contenuto di tali lettere, che attestano la costante opera di informazione svolta da TRINGALI in favore di ZORZI in merito a quasi tutte le indagini in materia di eversione di destra in corso in Italia e in cui si fa cenno a molte cose "scottanti" affidate in passato da ZORZI a TRINGALI, sono state contestate a quest'ultimo, che si è avvalso della facoltà di non rispondere, nel corso degli interrogatori svolti in data 2.8.1996 e 16.10.1996 ai sensi dell'art.348 bis c.p.p. del 1930.

In una di queste lettere, risalente all'estate del 1986, si fa chiaro riferimento al fatto che le indagini allora in corso potessero toccare gli elementi più "deboli" e cioè Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO in quanto "si tratta di roba molto vecchia" e gli inquirenti "cercano sempre un tuo (nota Ufficio: di Delfo ZORZI) parere nella faccenda (GO)".

E' evidente la preoccupazione di TRINGALI che, a seguito di un possibile cedimento di SICILIANO e VIANELLO potesse emergere la responsabilità (il "parere") di ZORZI in relazione all'attentato di Gorizia.

Inoltre nella stessa lettera si fa chiaro riferimento alla soddisfazione legata al successo per l'assoluzione di FREDA e VENTURA ai processi di Catanzaro e Bari, ma nel contempo alla preoccupazione per la possibilità che gli inquirenti, indagando sul gruppo mestrino, possano trovare "l'anello di congiunzione" tra "l'amico FRITZ" (quasi certamente Franco FREDA) e il dr. Carlo Maria MAGGI e cioè provare il collegamento che era mancato nelle prime istruttorie sugli attentati del 12.12.1969.

Sono quindi espressi a chiare lettere da TRINGALI, sin dal 1988, i timori la cui fondatezza sarà confermata, quasi 10 anni dopo, dalla collaborazione di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO ed in questo senso il messaggio sequestrato costituisce un pieno riscontro anticipato e documentale a quelle che saranno le acquisizioni della presente istruttoria.

In conclusione, a carico del dr. MAGGI, così come a carico di Delfo ZORZI (cui la contestazione è già stata effettuata con notifica al domicilio eletto presso il difensore), sussistono gravi indizi della sua corresponsabilità sul piano decisionale ed operativo nei due attentati dell'ottobre 1969.

Tale circostanza non è di poco conto in quanto, pur non apparendo corretto contestare in relazione a tali episodi, come era avvenuto nelle prime istruttorie, il reato di tentata strage (in quanto l'ordigno doveva esplodere quando la scuola era chiusa), sono assai significativi gli indizi di continuità strategica e di progressione operativa fra tali due attentati e quelli del 12.12.1969.

Ci riferiamo alle circostanze riferite da Martino SICILIANO ed esposte all'inizio di questo paragrafo e in particolare alla presenza a Trieste e Gorizia di candelotti di gelignite, contenenti binitrotoluene, esplosivo fortemente compatibile, in base alle perizie effettuate all'epoca, con quello utilizzato per la strage di Piazza Fontana e i 4 attentati ad essa contemporanei.

Ci riferiamo altresì ad altri particolari che Martino SICILIANO non poteva conoscere.

I frammenti degli ordigni esplosivi collocati il pomeriggio del 12.12.1969 a Roma dinanzi all'Altare della Patria, sottoposti a perizia, hanno evidenziato infatti che i candelotti utilizzati in tale occasione erano avvolti da carta rossa paraffinata, e cioè dello stesso colore di quella che avvolgeva i candelotti venduti da Roberto ROTELLI a Delfo ZORZI, visti e maneggiati da SICILIANO, da VIANELLO e, successivamente, per l'attentato al COIN di Mestre, da Piero ANDREATTA.

Inoltre anche i candelotti fatti rinvenire da Franco COMACCHIO dopo il rinvenimento delle armi a Castelfranco Veneto nel novembre 1971, e a lui consegnati da Giovanni VENTURA, erano in parte candelotti di gelignite avvolti in carta rossa.

Perdipiù Ruggero PAN, commesso della libreria di Giovanni VENTURA, nel corso della prima istruttoria ha riferito che questi, nell'agosto del 1969, dopo gli attentati ai treni, aveva espresso il proposito di utilizzare, per l'avvenire, delle cassette di ferro al fine di provocare danni maggiori, incaricando l'elettricista Tullio FABRIS (che ha confermato la circostanza) di reperirle.

Poche settimane dopo, a Trieste e a Gorizia, sono comparse per la prima volta le cassette metalliche, fortunatamente non esplose.

Gli elementi di collegamento sono quindi più di quanti lo stesso Martino SICILIANO potesse immaginare.

16

LA FUGA DELL'AVV. GABRIELE FORZIATI DA TRIESTE

E IL SUO "SOGGIORNO"

NELL'APPARTAMENTO DI MARCELLO SOFFIATI IN VIA STELLA A VERONA

Quale diretta conseguenza dell'attentato alla Scuola Slovena di Trieste, si innesta la vicenda della fuga da tale città, all'inizio del 1972, dell'avvocato Gabriele FORZIATI, già reggente della cellula triestina di Ordine Nuovo e comunque contrario e personalmente estraneo ad azioni criminose.

Come già si è accennato all'inizio di questo paragrafo, l'avvocato FORZIATI, depositario dell'incauta rivelazione fatta da PORTOLAN in merito alla responsabilità di ZORZI e SICILIANO per l'attentato, era stato fatto allontanare con l'inganno dalla sua città da altri militanti, in particolare Francesco NEAMI e Claudio BRESSAN i quali avevano agitato dinanzi a lui la notizia, falsa, di un suo imminente arresto da parte dei Giudici di Treviso per il reato di ricostituzione del disciolto partito fascista.

In tal modo si intendeva comunque sottrarre l'avvocato FORZIATI a probabili convocazioni da parte dell'Autorità Giudiziaria dinanzi alla quale egli, in ragione dei contrasti politici e personali che lo stavano in parte contrapponendo agli altri ordinovisti triestini, avrebbe probabilmente riferito quanto confidatogli da PORTOLAN.

Mentre già erano note le fasi iniziali e conclusive della sua fuga, terminata nel gennaio 1973 e a cui fece seguito la testimonianza dinanzi al G.I. dr. D'Ambrosio esattamente nei termini che i camerati avevano paventato, era rimasta alquanto nebulosa la fase intermedia dei suoi spostamenti.

Infatti, come testimoniato dallo stesso Gabriele FORZIATI e come sostanzialmente ammesso da Claudio BRESSAN anche nella presente istruttoria (dep. BRESSAN a personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione, 15.2.1996), l'avvocato triestino era stato avviato prima a Venezia, dove era rimasto qualche giorno, sistemato poi per circa due settimane, prima nell'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI a Colognola ai Colli e poi nell'appartamento di questi a Verona, e infine accompagnato dallo stesso Marcello SOFFIATI in Spagna.

Se il soggiorno a Venezia era già chiaro nei suoi contorni sin dalle prime indagini (FORZIATI, tramite l'immancabile MAGGI, era stato ospitato da un altro militante, Giangastone ROMANI, che gestiva un albergo al Lido), non erano state invece messe a fuoco le modalità e il significato della permanenza a Verona: cioè chi lo avesse inviato in tale città, che ruolo nella struttura di Ordine Nuovo avesse l'appartamento di SOFFIATI in Via Stella, chi in tale appartamento avesse "custodito" con modi più o meno bruschi lo spaventato triestino.

A tali domande hanno dato una risposta, nel corso di questa istruttoria, quasi contemporaneamente e pressochè negli stessi termini, Carlo DIGILIO e lo stesso avvocato FORZIATI e gli elementi che si rilevano da tali racconti sono di importanza tutt'altro che trascurabile al fine di ricollegare ruoli e avvenimenti nella storia complessiva della struttura occulta e di coloro che lo "sorvegliavano".

E' infatti emerso che l'avvocato FORZIATI era stato accompagnato a Colognola ai Colli, presso l'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI, personalmente dal dr. MAGGI e che, dopo una breve permanenza a Colognola, era stato custodito nell'appartamento di Via Stella a Verona non solo da SOFFIATI, ma anche da DIGILIO e da alcuni triestini sotto il controllo ancora del dr. MAGGI e la "supervisione" di Sergio MINETTO.

Con riferimento alla presenza di quest'ultimo, infatti, Carlo DIGILIO ha raccontato che l'appartamento di Via Stella non era un punto d'appoggio qualunque, ma al suo interno o nelle sue immediate vicinanze Sergio MINETTO si incontrava con SOFFIATI e lo stesso DIGILIO per riunioni riservate durante le quali i due subordinati gli riferivano le informazioni che egli doveva poi passare ai suoi superiori statunitensi (interr. DIGILIO 12.11.1994 f.4, 19.4.1996 f.3).

La presenza di MINETTO in Via Stella durante la permanenza dell'avvocato FORZIATI era quindi collegata all'acquisizione di notizie e al controllo da parte della struttura informativa anche di tale spezzone della vicenda iniziata con gli attentati dell'estate e dell'ottobre 1969.

Ecco, sul "prelevamento" di FORZIATI, il racconto di Carlo DIGILIO, che nello stesso appartamento sarebbe stato ospitato anche all'inizio della sua latitanza nell'estate del 1982:

"""....FORZIATI era una persona di Trieste, laureato in giurisprudenza, un po' curvo, mingherlino e malfermo in salute che fu oggetto del seguente episodio.

Vi era il timore che egli riferisse all'Autorità Giudiziaria quello che egli sapeva sulla struttura in quanto era di Ordine Nuovo e, su ordine di MAGGI, fu quindi prelevato a Trieste e portato a Colognola ai Colli a casa di Bruno SOFFIATI per circa un mese e in seguito per un altro mese nell'appartamento di Marcello SOFFIATI a Verona, in Via Stella.

FORZIATI era trattato molto bene, quasi come un ospite, ma comunque il fine era di controllarlo e convincerlo a non parlare.

In Via Stella lo controllavano lo stesso Marcello SOFFIATI, Francesco NEAMI, quello di Trieste con i capelli rossicci, ed un altro triestino di cui non so il nome e che venne per qualche giorno.

Sergio MINETTO seppe di quello che stava accadendo da Marcello SOFFIATI e mi incaricò di andare a controllare la situazione facendo in modo comunque che a FORZIATI non succedesse nulla di male.

Io mi recai varie volte in Via Stella e tranquillizzai il FORZIATI che era una persona mite, colta e di carattere gentile.

In Via Stella venne qualche volta anche il dr. MAGGI, ma io non sentii i discorsi che faceva con FORZIATI.

Alla fine FORZIATI fu autorizzato a tornare a Trieste.

Mi sono anche ricordato che quando io stesso fui ospite in Via Stella durante la mia latitanza, Marcello SOFFIATI, prima di sistemarmi lì, aveva chiesto consiglio a SPIAZZI che aveva risposto: Possiamo metterlo dove avevamo tenuto il "barone", riferendosi certamente a FORZIATI che vantava, appunto, titoli nobiliari. Quindi capii che il colonnello SPIAZZI era al corrente di quanto era avvenuto a FORZIATI.

Inoltre mi dispiacque che un nobile come SPIAZZI, che teneva in casa la bandiera sabauda, non avesse avuto rispetto di un altro nobile.

A D.R.: Certamente FORZIATI poteva dire delle cose in particolare sul gruppo triestino che era molto duro e facinoroso...."""

(DIGILIO 31.1.1996 ff.1 e 2).

Quindi non solo il dr. MAGGI e i due triestini (il secondo dei quali identificato in Claudio FERRARO: int. DIGILIO 4.10.1996 f.3), ma anche Sergio MINETTO e il col. Amos SPIAZZI, elemento di raccordo a Verona fra la struttura ordinovista e i militari, seguivano con attenzione e con comprensibile preoccupazione l'andamento della vicenda dell'avvocato FORZIATI o comunque ne erano al corrente.

Sulle motivazioni, non certo umanitarie, per le quali il dr. MAGGI seguiva così da vicino il comportamento dell'avvocato FORZIATI quando si trovava a Verona, Carlo DIGILIO è stato assai esplicito in un successivo interrogatorio:

"""....Prendo atto che Gabriele FORZIATI, nel corso di una recente testimonianza, ha dichiarato che durante la sua permanenza in Via Stella erano state adottate cautele finalizzate ad evitare che si vedesse chi c'era nell'appartamento, in particolare applicando della carta di colore blu ai vetri.

Non ricordo questo particolare, ma ricordo che effettivamente per garantire la sicurezza di chi si trovava all'interno venivano utilizzati, durante la presenza prima dell'avv. Forziati e poi di Bertoli, doppi battenti in legno, sia esterni che interni, che venivano tenuti il più possibile chiusi.

C'era anche una tenda, che ricordo blu, che copriva interamente la finestra della camera da letto che guardava sulla tromba delle scale.

In proposito ricordo anche che era quasi sempre NEAMI ad occuparsi di questi aspetti pratici, operativi e di sicurezza; era cioè lui che apriva e chiudeva le finestre, apriva la porta e così via.

Una volta, durante la permanenza di FORZIATI, vedendo il comportamento duro di NEAMI nei suoi confronti, io lo invitai a mitigarlo un po' facendo presente che l'avv. FORZIATI sembrava innocuo e proprio una brava persona.

NEAMI mi rispose che si comportava così perchè il dr. MAGGI gli aveva detto che FORZIATI era a conoscenza di cose gravi relative all'attività del gruppo e se fosse andato dai giudici a testimoniare vi era il rischio che andassimo tutti in galera.

Furono proprio queste le testuali parole di NEAMI.

Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia visto armi o materiale esplosivo in Via Stella in quel periodo, rispondo di no anche perchè tenere materiale simile durante la permanenza di persone come l'avv. Forziati o Bertoli sarebbe stato contrario ed elementari regole di sicurezza.

Ricordo tuttavia, in relazione alla dotazione di cui certamente MARCELLO disponeva, un incontro che avvenne in fondo a Via Stella nella piazzetta prima di Piazza Bra fra SOFFIATI e il colonnello SPIAZZI, direi 4 o 5 mesi prima dell'arrivo di FORZIATI a Verona.

Io ero appena uscito dall'appartamento e mi trovavo nei pressi del tabaccaio, al crocevia, quando vidi SOFFIATI e SPIAZZI che stavano finendo di parlare nella piazzetta e si stavano salutando. Si allontanarono frettolosamente.

SOFFIATI poi mi raggiunse e io gli chiesi di cosa stesse parlando con il colonnello in un modo che mi era apparso concitato e lui rispose che SPIAZZI gli aveva detto di stare molto attento a tenere armi in casa in quanto vi era il pericolo che la Questura, in caso di rinvenimento anche di una sola arma, potesse estendere le indagini e far venire alla luce la struttura della V Legione dei NUCLEI di cui SPIAZZI era responsabile.

SOFFIATI mi disse che aveva rassicurato in tal senso il colonnello e che avrebbe riportato tale segnalazione anche ad altri aderenti...."""

(DIGILIO 2.12.1996 f.2).

L'avvocato Gabriele FORZIATI, sentito nuovamente sulla vicenda che l'aveva visto più vittima che protagonista, focalizzando meglio i propri ricordi o forse sciogliendo qualche riserva e titubanza in merito ad una vicenda comunque per lui assai traumatica, ha dichiarato di aver visto nell'appartamento (ove i movimenti delle persone erano pressochè clandestini e le tapparelle venivano tenute abbassate) non solo Marcello SOFFIATI, ma anche Carlo DIGILIO e Francesco NEAMI e, nei pressi dell'appartamento, il dr. MAGGI (dep. FORZIATI 6.2.1996 e 27.11.1996 a questo Ufficio).

Non ha ricordato la figura di Sergio MINETTO, il quale peraltro ha con ogni probabilità avuto l'accortezza di non farsi notare da FORZIATI durante la permanenza di questi a Verona.

Comunque anche in questo caso l'indicazione fornita da Carlo DIGILIO non è rimasta isolata poichè ad essa si è aggiunta la testimonianza di Dario PERSIC, un frequentatore della trattoria di Colognola ai Colli, molto legato a Marcello SOFFIATI e coinvolto con un ruolo più marginale nell'attività del gruppo.

Questi ha infatti dichiarato, nell'ambito di un'articolata e sincera testimonianza che ha consentito di confermare numerosissimi particolari riferiti da Carlo DIGILIO, che Sergio MINETTO era perfettamente al corrente della permanenza dell'avvocato triestino (soprannominato "lo scheletro" per il suo aspetto fisico) prima a Colognola ai Colli e poi in Via Stella, in quanto lo stesso PERSIC aveva assistito ad un colloquio fra MINETTO e Bruno SOFFIATI, padre di Marcello, in merito alla necessità di trasferire l'avvocato, certamente anche in ragione delle sue precarie condizioni di salute, dalla rustica abitazione di Colognola all'appartamento di Via Stella (deposiz. PERSIC a personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione, 8.2.1995 f.3 e 9.2.1995 f.3).

A titolo di completamento degli avvenimenti riguardanti l'attentato di Trieste e il ruolo dell'avvocato FORZIATI, deve ricordarsi che Martino SICILIANO ha riferito di avere appreso che Delfo ZORZI e i camerati triestini avevano progettato un'azione di duro pestaggio nei confronti dell'avvocato FORZIATI per punirlo del suo "tradimento" costituito dalle dichiarazioni in danno di ZORZI e dello stesso SICILIANO rese al dr. D'Ambrosio (interr. SICILIANO 15.3.1995 f.9).

L'azione di pestaggio contro l'avvocato FORZIATI era poi effettivamente avvenuta nell'aprile 1973, materialmente ad opera, con ogni probabilità, degli stessi triestini (deposiz. FORZIATI 25.2.1992 f.2 e 20.4.1995 f.5).

Il soggiorno forzato dell'avvocato triestino a Verona ha contribuito a mettere a fuoco l'importanza ricoperta dall'appartamento di Via Stella, per molti anni, probabilmente dopo l'abbandono del casolare di Paese, vera e propria base operativa del gruppo, nelle vicende che ne hanno contrassegnato l'attività eversiva.

In Via Stella infatti, o nelle immediate vicinanze, si incontrava con i suoi informatori, SOFFIATI e DIGILIO, il caporete veronese Sergio MINETTO quando, lontano da presenze indiscrete, era necessario raccogliere le notizie utili per la rete statunitense o fornire le direttive utili per lo sviluppo dell'attività informativa, volta al "controllo senza repressione" e più di una volta anche al supporto tecnico delle attività eversive di Ordine Nuovo.

Nei pressi dell'appartamento, a pochi metri dallo stesso all'interno del quale si trovava ancora DIGILIO, "ospite" fisso in via Stella, il colonello SPIAZZI aveva avvertito Marcello SOFFIATI, alla fine del 1971, del pericolo che un'operazione della Questura di Verona potesse portare al rinvenimento delle armi e le indagini potessero estendersi sino a far venire alla luce la V Legione dei Nuclei di Difesa dello Stato, di cui il colonello SPIAZZI era responsabile nella città, struttura che egli aveva costituito affiancando ai militari a lui vicini, pronti al mutamento istituzionale, molti elementi del gruppo di Ordine Nuovo di Verona (interr. DIGILIO 1°.12.1996 f.2).

Soprattutto, nell'appartamento di Via Stella, istruito e addestrato dalle medesime persone (SOFFIATI, DIGILIO e il militante triestino Francesco NEAMI), ancora sotto la direzione del dr. MAGGI e sotto la "supervisione" di Sergio MINETTO quale responsabile della struttura informativa, all'inizio del 1973 era stato a lungo istruito psicologicamente e addestrato Gianfranco BERTOLI, agganciato a Mestre dal gruppo affinchè, munito della bomba ananas lui affidata, non avesse esitazioni a recarsi a Milano e ad attentare alla vita dell'on. Mariano RUMOR dinanzi alla Questura di Milano (int. DIGILIO 12.10.1996 f.4-6 e 14.10.1996 f.1-3).

L'operazione, non facile vista l'instabilità di carattere di Gianfranco BERTOLI e la necessità che egli fosse sorretto psicologicamente ed economicamente, aveva la finalità, dopo il rifiuto opposto da Vincenzo VINCIGUERRA l'anno precedente ad accettare tale compito, di colpire il "traditore" e il "vigliacco" Mariano RUMOR che, nel dicembre 1969, quando era Presidente del Consiglio, dopo molte titubanze, aveva rifiutato di decretare lo stato di pericolo pubblico, reso impossibile la prevista presa di posizione dei militari e fatto fallire il disegno strategico/politico che stava intorno agli attentati del 12.12.1969 (interr.DIGILIO 21.2.1997 f.1-3).

Ed ancora, l'anno successivo, nel maggio 1974, aveva fatto tappa nell'appartamento di Via Stella, proveniente da Mestre, Marcello SOFFIATI, portando con sè in una valigetta l'ordigno già quasi pronto consegnatogli dai mestrini e che doveva essere affidato a Milano a coloro che avrebbero dovuto deporlo di lì a pochi giorni in Piazza della Loggia a Brescia (interr. DIGILIO 4.5.1996 ff.2-4 e 5.5.1996 f.1).

Carlo DIGILIO, che era stato opportunamente incaricato di restare in attesa nell'appartamento, aveva, mettendo ancora una volta a disposizione le sue capacità tecniche, visionato e personalmente modificato il congegno e consentito che il viaggio di Marcello SOFFIATI verso Milano proseguisse in condizioni di sicurezza.

In conclusione può dirsi che l'appartamento di Via Stella a Verona e coloro che lo utilizzavano come base o controllavano cosa vi stesse avvenendo, costituisce il punto di intersezione di quasi tutti gli episodi tragici che, a cavallo degli anni '70, hanno scritto la storia della "strategia della tensione".

17

LA POSIZIONE DI ANNAMARIA COZZO,

FIDANZATA DI DELFO ZORZI,

IN RELAZIONE AGLI ATTENTATI DI TRIESTE E DI GORIZIA

Sin dai primi interrogatori resi dinanzi a questo Ufficio, Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO avevano parlato della presenza, a bordo dell’autovettura del dr. MAGGI diretta a Trieste e Gorizia per l’esecuzione degli attentati, oltre a Delfo ZORZI, di una ragazza all’epoca legata a ZORZI da un rapporto sentimentale.

Entrambi l’avevano descritta, in modo assolutamente concordante, come una ragazza intorno ai venti anni, forse di nome ANNA MARIA, di aspetto gradevole, con i capelli neri a caschetto, di origine napoletana, gravitante nell’area di Ordine Nuovo di tale città, probabilmente compagna di studi di ZORZI presso la Facoltà di Lingue Orientali e appassionata di arti marziali (int. SICILIANO, 18.10.1994, f.7; 25.1.1995, f.2; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.6).

Tale ragazza era venuta a Mestre con Delfo ZORZI solo in occasione dell’esecuzione dei due attentati, anche se il legame che la univa a ZORZI, sia personale sia politico, appariva stabile e non occasionale.

Il tentativo di identificare la ragazza, delegato da questo Ufficio in varie riprese, a partire dall’autunno 1994, al R.O.S. Carabinieri, alla D.C.P.P. presso il Ministero dell’Interno e alla Digos di Milano, nonostante il massimo impegno e le laboriose ricerche effettuate, non dava l’esito sperato.

Infatti la difficoltà a reperire, visto il tempo trascorso, i cartellini di iscrizione all’Università di Napoli, la mancanza di tracce documentali in ordine alla presenza della coppia in alberghi o simili, il fatto che la ragazza non si fosse in seguito probabilmente evidenziata in modo particolare sul piano dell’attivismo politico, non avevano consentito una identificazione certa anche se, sommando i dati raccolti, si era formata una rosa di quattro o cinque nomi, ciascuno però caratterizzato dalla discordanza di qualche particolare con quelli forniti da SICILIANO e VIANELLO e dal fatto che non era stato acquisito alcun elemento del rapporto di conoscenza di tali donne con Delfo ZORZI (in ordine alle ricerche di ANNAMARIA cfr. le note della varie Autorità di p.g. in vol.17, fasc.3).

L’esistenza di tale misteriosa fidanzata di Delfo ZORZI risultava comunque assolutamente certa in base ai dati che venivano via via raccolti.

Guido BUSETTO, all’epoca componente della cellula di Mestre, aveva ricordato di avere conosciuto al campo di addestramento di Tre Confini, in Abruzzo, svoltosi nell’agosto del 1969 con la partecipazione di soli elementi di Ordine Nuovo, una ragazza napoletana (forse l’unica ragazza presente al campo) assolutamente coincidente con la descrizione della giovane presente pochi mesi dopo a Trieste (cfr. dep. BUSETTO, 18.2.1995, f.1, e, in merito al campo di Tre Confini, vol.8, fasc.4) ed anche un altro mestrino, Giuliano CAMPANER, ricordava di avere avuto notizia di una fidanzata napoletana di Delfo ZORZI, probabilmente studentessa universitaria e forse di nome ANNAMARIA, che tuttavia Delfo ZORZI non gli aveva mai presentato (dep. 27.4.1995, f.2).

Anche Nico AZZI aveva sentito parlare da Delfo ZORZI di tale ragazza di Napoli, inserita in Ordine Nuovo, presente anche agli scontri di piazza di Valle Giulia, nel 1968 a Roma, e che in tale occasione si era dimostrata abile nell’uso della fionda durante gli scontri (int. 6.6.1996, ff.1-2).

Il mistero in ordine all’identità della ragazza di Delfo ZORZI iniziava casualmente a dissolversi riesaminando una fotocopia di una agenda di Franco FREDA sequestrata durante le indagini dell’A.G. di Treviso ed allegata agli atti del processo di Catanzaro.

In una pagina di tale agenda da tavolo appare infatti questa annotazione manoscritta: ""Annamaria Cozzo, Via Gigante 204 - Napoli (contatto) (mi deve dire il nome di chi si prende l’iniziativa di vendere libri a Napoli - vedi Delfo - anche per le xilografie"" (cfr. fotocopia dell’agenda di FREDA, vol.18, fasc.1, f.23).

Era quindi possibile che in Annamaria COZZO potesse identificarsi la ragazza di Delfo ZORZI, avendola perdipiù Franco FREDA interessata in quel periodo per la diffusione delle pubblicazioni delle "Edizioni A.R." a Napoli.

Acquisita quindi una fotografia di Annamaria COZZO che ne riproducesse fedelmente le fattezze dell’epoca, ella veniva riconosciuta senza alcun dubbio da Martino SICILIANO (int.14.3.1996, f.5, e 1°.6.1996, f.1) e da Giancarlo VIANELLO (int.27.5.1996, f.4) come la ragazza presente alla spedizione di Trieste e Gorizia, da Giampaolo STIMAMIGLIO e, seppur con qualche margine di incertezza visto il tempo trascorso, da Guido BUSETTO come la ragazza presente al campo di addestramento di Ordine Nuovo a Tre Confini (dep. STIMAMIGLIO a personale R.O.S., 29.5.1996, f.2, e dep. BUSETTO, 14.1.1997, f.1).

La mancata identificazione in precedenza di Annamaria COZZO, nonostante le complesse ricerche effettuate, era dovuta ad un marginale errore dei testimoni.

Ella infatti non era stata iscritta, con Delfo ZORZI alla Facoltà di Lingue Orientali di Napoli, bensì ad altra Facoltà e la mancanza di tale elemento di collegamento aveva fatto venire meno la messa a fuoco della sua persona e indotto la p.g. delegata a seguire o a curare prevalentemente altre piste.

Peraltro, proprio nei giorni in cui era avvenuto il recupero dell’agenda di Franco FREDA, quando ancora non vi era alcuna certezza in ordine alla identificazione nella COZZO, fra le diverse donne possibili, della ragazza presente a Trieste, ella veniva sentita in sede di sommarie informazioni testimoniali da personale del R.O.S. Carabinieri.

In tale sede Annamaria COZZO, spiegando di avere militato per lungo tempo nell’area di estrema destra, e in particolare nel FUAN di Napoli, e di avere partecipato agli scontri del marzo 1968 all’Università di Roma, riconosceva, dopo molte titubanze e reticenze, di avere conosciuto Delfo ZORZI, frequentatore come lei di una palestra di arti marziali a Napoli, e di avere intrattenuto con lo stesso un legame sentimentale (cfr. s.i.t. 18.1.1996, f.6).

Annamaria COZZO riferiva altresì, dopo altre esitazioni, di avere partecipato ad un campo di addestramento "filosofico-ideologico" sugli Appennini, organizzato dal prof. Paolo SIGNORELLI (si tratta certamente del campo di Tre Confini) e di ricordare bene il nome, anche se non le fattezze, di Guido BUSETTO (s.i.t. citato, f.7).

Proseguiva ammettendo di essere stata coinvolta in due attentati dimostrativi, collegati alla visita del Presidente Saragat in Jugoslavia ed avvenuti uno a Trieste e il secondo in una zona di confine.

Ricordava che in tale spedizione era presente Delfo ZORZI e che per commettere l’attentato di Trieste era stata deposta una cassetta vicino ad un muro di cinta ed erano stati lasciati sul posto dei volantini (s.i.t. citato, f.8).

A seguito di tali sintetici ma inequivoci riferimenti agli attentati di Trieste e Gorizia, questo Ufficio procedeva a indiziare formalmente la COZZO in ordine ai reati connessi ai due episodi, con informazione di garanzia ed invito a comparire per il giorno 9.3.1996.

Tuttavia Annamaria COZZO, che si era resa conto o era stata probabilmente, nel frattempo, "invitata" a rendersi conto della gravità e dell’importanza per le indagini delle dichiarazioni che ella stava per rendere, non si presentava inviando inoltre all’Ufficio un fax con cui comunicava la scelta di avvalersi comunque della facoltà di non rispondere.

Anche non volendo tenere conto, su un piano di correttezza processuale, dell’ultima parte della deposizione di Annamaria COZZO in quanto contenente dichiarazioni pregiudizievoli per se stessa, rese nella qualità di testimone, è certo che gli elementi forniti sulla sua persona tolgono ogni dubbio in merito all’identificazione nella COZZO della ragazza di Delfo ZORZI presente ai due attentati e che l’intera testimonianza, utilizzabile comunque a riscontro delle altre dichiarazioni, contiene elementi del tutto in sintonia con le acquisizioni processuali.

La presenza di Annamaria COZZO a Trieste e Gorizia non deve inoltre essere considerata casuale ed occasionale alla luce di quanto riferito da Martino SICILIANO in merito agli avvenimenti immediatamente precedenti.

Martino SICILIANO, infatti, era stato convocato qualche giorno prima da Delfo ZORZI a Napoli, aveva raggiunto tale città in treno portando, sempre su richiesta di ZORZI, un fucile tedesco della seconda guerra mondiale quasi certamente consegnatogli da Paolo MOLIN e, alla stazione ferroviaria di Napoli, aveva incontrato Delfo ZORZI e la ragazza.

Da qui erano partiti a bordo della FIAT 500 della COZZO in direzione di Bari e sull’autostrada, all’altezza di Candela, si erano fermati e ZORZI e la ragazza si erano allontanati per qualche minuto occultando il fucile in qualche nascondiglio.

Ripassando rapidamente per Napoli erano subito ripartiti alla volta di Mestre, raggiungendola in un’unica tappa, e nel giro di un paio di giorni vi era stata l’operazione di Trieste e Gorizia (int. SICILIANO, 18.10.1996, f.4; 14.3.1996, f.5).

Di tali strani spostamenti, Martino SICILIANO ha fornito una sua spiegazione che appare del tutto condivisibile:

"""...ho sempre avuto sin dai primi giorni la netta sensazione che la spedizione a Trieste e Gorizia fosse una messa alla prova dei mezzi e delle persone e della loro affidabilità per le operazioni successive.

Anche il complesso tragitto iniziato con il trasporto del fucile a Napoli, il viaggio a Candela insieme ad Anna Maria, il lungo viaggio con la Fiat 500 di nuovo sino a Mestre, seguito nel giro di pochissimi giorni dalla spedizione a Trieste e Gorizia, dava la netta idea di una verifica della disponibilità delle persone.

Del resto non ho mai capito perchè mi fu chiesto di portare a Napoli un fucile di non particolare pregio, anzi un residuato bellico, privo di munizioni, al solo fine di occultarlo, dopo un altro viaggio, nei pressi di un'autostrada""".

(SICILIANO, int.20.3.1996).

I singolari spostamenti di SICILIANO da Mestre a Napoli e del gruppetto prima in direzione di Bari e poi, senza alcuna sosta, sino a Mestre costituiscono quindi un’altra prova indiziaria del fatto che le attività di quei giorni e la spedizione a Trieste e Gorizia non fossero altro che una prova, in termini di affidabilità dei mezzi e delle persone, di operazioni ben più gravi che sarebbero state portate a termine poco tempo dopo.

Si noti del resto che Delfo ZORZI deve avere valutato il pericolo che Annamaria COZZO fosse identificata e che, in ragione del bagaglio di conoscenze di cui certamente la donna dispone in merito alle attività dello stesso ZORZI nel 1968/1969, potesse rendere dichiarazioni pregiudizievoli sia per la sua posizione sia per Ordine Nuovo in generale.

Non è probabilmente un caso che Delfo ZORZI, in sede di spontanee dichiarazioni rese a Parigi nel dicembre 1995 al P.M. di Milano, parlando dei suoi legami sentimentali alla fine degli anni ‘60, abbia fatto riferimento a tale Marina CUZZOLIN e ad una certa ANNA MARIA o ANNA CLAUDIA, ma non di origine napoletana, bensì dalmata.

In proposito Martino SICILIANO ha fatto presente che Marina CUZZOLIN era persona esistente, ma del tutto estranea all’attività politica del gruppo, mentre non esisteva nell’ambito delle conoscenze di ZORZI alcuna ANNA MARIA o ANNA CLAUDIA di origine dalmata, ragazza di cui certamente, in caso contrario, SICILIANO avrebbe almeno sentito parlare in ragione del legame di amicizia che lo legava a Delfo ZORZI (int. 17.4.1996, f.2).

In sostanza è molto probabile che in tale occasione ZORZI, mescolando, secondo una tecnica sperimentata, notizie vere ma prive di qualsiasi interesse e notizie false, abbia deliberatamente cercato di stornare l’attenzione degli inquirenti dalla vera ANNAMARIA, persona che non doveva essere identificata e quindi nemmeno nominata in quanto coinvolta negli attentati di Trieste e Gorizia.

In conclusione è opportuno sottolineare che una completa testimonianza di Annamaria COZZO avrebbe molto probabilmente consentito di acquisire, in ragione del suo rapporto confidenziale con Delfo ZORZI e della comune militanza politica negli anni cruciali, elementi di grande importanza per le indagini.

Ciò non è stato reso possibile anche dalla sconsiderato comportamento di un funzionario della Digos di Milano (non di tale Ufficio nel suo insieme) che, alla fine del 1995, non ha ritenuto suo dovere fornire a questo Ufficio gli ulteriori dati in corso di acquisizione in merito all’identificazione di ANNAMARIA (ma solo eventualmente alla Procura di Milano che aveva attivato, senza alcun coordinamento e a dispetto degli accordi assunti con questo Ufficio, ricerche parallele).

Tale possibilità è stata infatti frustrata anche dall’assoluto rifiuto della Procura della Repubblica di coordinare le attività investigative e l’intervento processuale relativo ad ANNAMARIA, riducendo così in modo sensibile le probabilità di un risultato positivo e l’utilizzo al meglio dei dati raccolti.

Gli incresciosi strascichi cui ha dato luogo, non per responsabilità di questo Ufficio, la ricerca di ANNAMARIA sono ampiamente esposti nella memoria inviata nella primavera del 1996 al Consiglio Superiore della Magistratura, allegata agli atti della presente istruttoria.

18

LA POSIZIONE DEGLI ORDINOVISTI TRIESTINI

IN RELAZIONE ALL’ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA

Resta solo da esaminare, in relazione all’attentato alla Scuola Slovena, la posizione degli elementi triestini, indicati da SICILIANO e VIANELLO, della cellula di Ordine Nuovo, cellula molto attiva nella città anche per evidenti ragioni storico-culturali e molto probabilmente responsabile anche di azioni di provocazione, negli anni ‘60, oltre il confine jugoslavo che si erano concluse con sparatorie con le guardie di confine (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.2).

Fittissimi e di antica data sono i collegamenti che emergono, dalle testimonianze e dagli altri atti istruttori, fra la cellula di Trieste e la cellula di Mestre/Venezia e sembra superfluo citarli tutti.

Basti solo ricordare che, sin dalla metà degli anni ‘60, vi erano state riunioni comuni di elementi di Mestre/Venezia, di Trieste e di altre città, ancora all’interno dell’ala più radicale del M.S.I. e ancora prima dell’uscita di Ordine Nuovo dal partito (int. SICILIANO, 17.4.1996, f.3) e che Francesco NEAMI era sovente ospite, a Venezia, in casa MAGGI (int. DIGILIO, 25.6.1993, f.4; 12.10.1996, f.5), che a Trieste, SICILIANO, VIANELLO e BUSETTO si erano recati per dare man forte ai camerati nell’azione punitiva contro i giovani di estrema sinistra (int. SICILIANO, 20.10.1994, f.7; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.10; dep. BUSETTO, 11.11.1994, f.2) e che, del resto, normalmente i militanti triestini erano presenti alle manifestazioni di Ordine Nuovo a Mestre e viceversa i mestrini a quelle convocate a Trieste.

I triestini erano stati infatti presenti, con un ruolo molto attivo, agli scontri del 3.5.1970 in Piazza Ferretto, a Mestre, con giovani di opposta tendenza in occasione di un comizio dell’on. ROMUALDI (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.3; 5.4.1996, f.2; confronto SICILIANO-Claudio BRESSAN, 22.3.1996, f.3, nel corso del quale il triestino BRESSAN ha ammesso la sua presenza a Mestre), mentre i mestrini poco tempo dopo, l’8.12.1970, avevano partecipato in massa, a Trieste, ad una manifestazione di carattere antislavo che si era conclusa con l’assalto alla sede del P.S.I. e altre azioni di violenza e con l’incriminazione e la condanna, fra gli altri, di Martino SICILIANO, Giampietro MARIGA e Francesco NEAMI (int. SICILIANO, 25.10.1996, f.4 e sentenza allegata alla nota della Digos di Trieste in data 10.10.1996, vol.25, fasc.5, ff.23 e ss.).

I nomi di vari militanti triestini (fra cui ancora Francesco NEAMI) erano inoltre presenti nell’agenda sequestrata a Franco FREDA all’inizio dell’istruttoria sulla c.d. pista nera (int. SICILIANO, 21.3.1996, ff.1-2) e in particolare i rapporti fra Claudio BRESSAN e Franco FREDA sono proseguiti quantomeno sino alla fine degli anni ‘70, quando FREDA si trovava in carcere (cfr. fascicolo della Digos di Trieste intestato a Claudio BRESSAN, vol.17, fasc.2, ff.26 e 37-39) a testimonianza dell’importanza rivestita dal gruppo triestino all’interno della geografia di Ordine Nuovo.

Per quanto concerne l’attentato alla Scuola Slovena, risulta dalle concordi dichiarazioni di Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO (di indiscutibile valenza probatoria in quanto rese separatamente, a brevissima distanza di tempo, da due persone che non si vedevano da oltre 20 anni) che l’apporto dei militanti triestini fu duplice.

Essi infatti, dopo avere atteso e incontrato a Trieste il gruppo che proveniva da Mestre a bordo della FIAT 1100, avevano mostrato ai camerati il punto esatto dove si trovava la Scuola Slovena e quindi la migliore via di accesso e di fuga e avevano messo a disposizione dei mestrini un appartamento, non distante dalla Scuola Slovena, nella disponibilità di uno dei militanti del gruppo, affinchè Delfo ZORZI e gli altri, con una breve sosta, potessero approntare e collegare in condizioni di sicurezza gli inneschi degli ordigni contenuti in due cassette militari che dovevano essere deposte, nella notte, prima a Gorizia sul confine e poi a Trieste.

Pur essendo pacifica la presenza e il contributo dei camerati triestini, Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO hanno avuto difficoltà, in ragione del tempo trascorso, a ricordare quali e quanti dei militanti della locale cellula fossero presenti e quali li abbiano accompagnati nell’appartamento.

Martino SICILIANO, mettendo a fuoco progressivamente tali scene, ha ricordato che all’appuntamento a Trieste erano presenti tutti e quattro i militanti più noti della cellula triestina (PORTOLAN, NEAMI, BRESSAN e Claudio FERRARO), ma che solo due, e cioè i più decisi e determinati NEAMI e PORTOLAN, avevano accompagnato il gruppo dei mestrini nell’abitazione che era di proprietà di una parente deceduta di PORTOLAN e che si trovava a non molta distanza dalla Scuola Slovena (int. 18.10.1994, f.4; 29.1.1995, f.2; 16.3.1996, f.4; confronto con Claudio BRESSAN, citato, ff.4-5, e, in merito alla presenza di Claudio FERRARO, int.9.10.1996, ff.1-2).

Giancarlo VIANELLO ha ricordato la presenza solo di due triestini, uno dei quali certamente Francesco NEAMI e il secondo anch’egli uno dei militanti più noti, non riuscendo tuttavia a focalizzare se si trattasse di Manlio PORTOLAN o Claudio BRESSAN (int.19.11.1994, f.6, e 6.12.1994, f.2).

L’appartamento in cui i mestrini erano stati condotti era modesto, non era abitato e apparteneva ad un parente di uno dei due triestini (int. VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e 27.5.1996, ff.5-6).

Tali incertezze, comprensibili a tanta distanza nel tempo dei fatti e comunque di per sè indicative della sincerità dei due dichiaranti, non sminuiscono minimamente il quadro di accusa anche tenendo presente che l’indispensabile apporto logistico fornito dal gruppo triestino non solo è perfettamente logico, ma è del tutto in sintonia con l’intervento del gruppo quando, tre anni dopo, sarebbe stato necessario far allontanare da Trieste l’avv. Gabriele FORZIATI nel timore che egli rivelasse quanto, seppur in modo indiretto, egli sapeva sulla responsabilità dei triestini nell’attuazione degli attentati.

Infatti la fuga dell’avv. FORZIATI da Trieste a Venezia era stata ispirata e patrocinata con un tranello da Claudio BRESSAN e in seguito Francesco NEAMI e probabilmente Claudio FERRARO avevano sorvegliato lo spaventato avvocato nell’appartamento di Via Stella, a Verona, prima che egli raggiungesse la Grecia (cfr. capitolo 16 della presente sentenza-ordinanza).

Sul piano delle conclusioni istruttorie, non potendosi, alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, qualificarsi l’attentato alla Scuola Slovena come tentata strage e non potendosi quindi riaprire l’istruttoria nei confronti di Francesco NEAMI (già prosciolto in sede istruttoria dal G.I. di Trieste) in quanto i reati meno gravi configurabili sono estinti per prescrizione, deve essere emessa nei suoi confronti sentenza di non doversi procedere per inammissibilità di un secondo giudizio.

Nei confronti di Manlio PORTOLAN invece, molto probabilmente presente all’appuntamento a Trieste e molto probabilmente colui che aveva messo a disposizione l’appartamento ove fu operato l’innesco degli ordigni, condividendosi le richieste del Pubblico Ministero, deve essere emessa sentenza di non doversi procedere per gli stessi reati per intervenuta prescrizione.

Il contributo della cellula di Ordine Nuovo di Trieste all’attentato alla Scuola Slovena dell’ottobre 1969 è, su un piano prospettico, tutt’altro che secondario in quanto tale attentato si pone a metà strada fra gli altri attentati cui tale cellula, secondo i pur incompleti dati emersi, avrebbe partecipato rafforzando l’ipotesi di una stabile operatività organizzata e diretta in prima persona dal dr. MAGGI.

Vincenzo VINCIGUERRA, infatti, pur non rivelando la fonte delle sue conoscenze, comunque certamente interne alla struttura di Ordine Nuovo e quindi attendibili, ha dichiarato che Giovanni VENTURA, accennando al G.I. dr. D’Ambrosio alla corresponsabilità della cellula di Udine negli attentati ai treni dell’agosto 1969, (cellula ormai disintegrata dal disastroso esito del dirottamento di Ronchi dei Legionari in cui aveva trovato la morte Ivano BOCCACCIO), aveva coscientemente mentito e cercato di confondere gli investigatori in quanto all’esecuzione di tali attentati, come ben noto allo stesso VENTURA, aveva partecipato invece la cellula di Trieste ancora intatta e operativa (int. VINCIGUERRA, 2.12.1992, f.2; 21.12.1992, f.3).

Carlo DIGILIO ha poi confermato che i triestini, sempre a seguito di direttive del dr. MAGGI, avevano partecipato agli attentati ai treni (int.30.8.1996, f.3) e avevano poi dato il loro apporto per l’esecuzione degli attentati "minori" del 12.12.1969 che erano avvenuti a Roma (int.10.9.1996, f.4).

Un filo di continuità collega quindi l’importante cellula di Trieste a tutta la catena degli attentati, dalle "prove" di agosto e di ottobre sino alla giornata del 12.12.1969.

A margine del coinvolgimento degli elementi triestini di Ordine Nuovo nell’attentato alla Scuola Slovena si colloca la vicenda relativa all’attività informativa e di collaborazione svolta dalla famiglia PORTOLAN con le strutture di sicurezza del nostro Paese e della NATO.

Claudio BRESSAN infatti, sin dalla deposizione resa a personale del R.O.S. in data 11.1.1996, aveva fatto cenno alle confidenze ricevute da Manlio PORTOLAN in merito al fatto che la madre, rimasta vedova, aveva affittato, alla fine degli anni ‘60, una stanza dell’appartamento di Via Belpoggio, ove risiedeva con il figlio, ad agenti dei servizi segreti, probabilmente del S.I.D. (dep. citata, f.2).

Tale disponibilità era ricollegabile al fatto che il padre di Manlio PORTOLAN, sottufficiale della Guardia di Finanza, era stato in vita sempre legato al medesimo ambiente e di conseguenza il punto di appoggio fornito dalla signora PORTOLAN ad agenti dei servizi distaccati a Trieste era la naturale prosecuzione dell’attività svolta dal marito (int. BRESSAN, 1°.3.1996, f.4).

In ragione della situazione che si era creata, anche al figlio Manlio era stata chiesta una collaborazione con il Servizio che egli aveva effettivamente prestato passando informazioni sull’ambiente di estrema sinistra locale (int. citato, f.4).

Tale circostanza aveva influito negativamente sull’amicizia fra Claudio BRESSAN e Manlio PORTOLAN, tanto più che quest’ultimo, a dispetto delle teorie naziste e antisemite coltivate all’interno di Ordine Nuovo, era stato assunto presso la ditta di trasporti israeliana ZIM (dep. 11.1.1996, f.3).

Tali notizie apparivano immediatamente interessanti e attendibili anche perchè Claudio BRESSAN, certamente non un pentito nè un collaboratore, aveva inteso riferirle incidentalmente per spiegare i contrasti di natura personale e politica insorti , all’inizio degli anni ‘70, con Manlio PORTOLAN all’interno della cellula di Ordine Nuovo di Trieste.

Veniva quindi deciso di affidare al S.I.S.Mi. la ricerca di tutti gli atti, risalenti al periodo dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni ‘60, che potessero confermare quanto riferito da Claudio BRESSAN.

La ricerca dava esito positivo.

Infatti, dagli atti forniti dalla Direzione del S.I.S.Mi. risultava che il maresciallo della Guardia di Finanza Filippo PORTOLAN, originario della Dalmazia e sottoposto sin dal dicembre 1943 a procedimento di discriminazione per la sua attività fascista, nel dopoguerra era stato distaccato presso il SIFAR con compiti controinformativi di particolare delicatezza in relazione alla situazione jugoslava e aveva anche collaborato con l’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore Esercito sino al momento del suo posizionamento in congedo, nel 1959 (cfr. fascicolo relativo al mar. Filippo PORTOLAN presso l’Ufficio Coordinamento Informativo e Sicurezza della Guardia di Finanza, vol.20, fasc.4, ff.1 e ss.).

Soprattutto dal fascicolo intestato al maresciallo PORTOLAN fornito dal S.I.S.Mi. (vol.20, fasc.4, ff.48 e ss.) e dall’allegata nota di analisi del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri in data 21.9.1996) emergeva che il maresciallo, anche dopo il suo congedo e sino alla sua morte, aveva continuato a svolgere attività informativa per il Centro C.S. di Trieste e per persone distaccate dell’Ufficio R del S.I.D. in merito alla situazione jugoslava di cui era buon conoscitore avendo prestato servizio militare, durante la guerra, lungo il litorale dalmata e parlando correntemente il serbo/croato ed era stato anche in contatto, nel 1967, con ufficiali della NATO e del Comando del Counter Intelligence Corps della base SETAF di Vicenza per un’azione informativa da svolgere in territorio bulgaro.

L’eccessiva autonomia e disinvoltura mostrate dal maresciallo PORTOLAN (cui erano stati assegnati i nomi in codice PIPPO e INES) nei rapporti con tali ultime strutture gli erano costate, nel maggio 1967, una "reprimenda" da parte di un elemento del Raggruppamento Centri C.S. di Roma giunto appositamente a Trieste per verificarne l’attività (cfr. nota in data 22.5.1967 del Centro C.S. di Trieste, ff.117 e ss.).

Pur non essendovi agli atti riferimenti ad una successiva, analoga attività del figlio Manlio, è evidente che gli elementi acquisiti grazie a tali fascicolo rafforzano notevolmente il racconto di Claudio BRESSAN in merito ai contatti con apparati istituzionali dell’ex-Reggente della cellula di Ordine Nuovo di Trieste e come tale, e fino alla sua sostituzione con Francesco NEAMI nel 1968/1969, diretto referente del dr. MAGGI sul territorio.

Perdipiù il generale Guido GIULIANI, Capocentro S.I.D. a Trieste fra il 1965 e il 1968 e firmatario di alcuni atti contenuti nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo PORTOLAN, ha confermato non solo che quest’ultimo era uno stabile e importante collaboratore del Centro, soprattutto nelle azioni informative relative alla Jugoslavia, ma anche che il figlio Manlio, di cui il Centro C.S. di Trieste pure ben conosceva l’attiva militanza ordinovista, era stato reclutato per fornire informazioni (dep. generale GIULIANI al G.I. di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, e a questo Ufficio, 28.8.1997, ff.3-4).

E’ significativo ricordare che nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo PORTOLAN, appena citato, sono presenti due note del Centro C.S. di Trieste con le quali si comunica al Reparto "D" della Direzione Centrale del Servizio l’esito del processo celebrato nel giugno 1962 dal Tribunale di Trieste e che si era concluso con la condanna di Manlio PORTOLAN a circa un anno di reclusione, di Claudio BRESSAN e di altri 3 ordinovisti triestini per l’attentato in danno dell’abitazione dell’antifascista prof. Carlo Schiffrer, avvenuto il precedente 1° aprile, e di Francesco NEAMI per detenzione di armi ed esplosivi (cfr. note del Centro C.S. di Trieste, 26.4.1962 e 2.7.1962, vol.20, fasc.4, ff.89 e ss.).

E’ certamente singolare che il Centro C.S. di Trieste utilizzasse e abbia continuato ad utilizzare quale collaboratore sul piano informativo il maresciallo Filippo PORTOLAN e, a un livello più generico, il figlio Manlio negli stessi anni in cui quest’ultimo si rendeva responsabile di attentati e di detenzione di esplosivo ed era uno degli elementi portanti dell’agguerrito e pericoloso gruppo di Ordine Nuovo di Trieste, la cui attività, vi è da concludersi, non interessava più di tanto il Servizio.

19

L’ATTENTATO AI MAGAZZINI COIN DI MESTRE

DEL 27 MARZO 1970

L’attentato dimostrativo ai magazzini COIN di Mestre, pur nella modestia dell’accadimento, confinato per pochi giorni nella cronaca dei quotidiani locali, costituisce uno dei nodi centrali di questa istruttoria e dell’istruttoria collegata, in corso presso la Procura della Repubblica di Milano, in quanto esso segna la ricomparsa della gelignite utilizzata a Trieste e Gorizia e probabilmente anche per gli attentati più gravi, e le reazioni, altrimenti ingiustificate, di Piero ANDREATTA e degli uomini vicini a Delfo ZORZI rimasti a Mestre, accese dalle indagini allorchè hanno toccato tale episodio, dimostrano che da tale filo era possibile, come è stato anche se solo in parte, risalire all’intera matassa.

Di tale episodio ha parlato sin dai primi interrogatori e più volte, anche per progressive messe a fuoco sollecitate dal sempre maggiore interesse degli inquirenti, Martino SICILIANO.

In sintesi:

- Piero ANDREATTA si era presentato nella sede di Via Mestrina con un ordigno costituito da due o tre candelotti di gelignite e dal solito innesco costituito dall’orologio da polso con il perno nel quadrante, la batteria e i fili elettrici, pregando Martino SICILIANO di provvedere al collegamento dell’innesco (int. 18.10.1994, f.10).

- SICILIANO aveva aderito alla richiesta, ma, non essendo in gradi di ripetere esattamente l’operazione come gli era stata insegnata prima degli attentati di Trieste e Gorizia, aveva avvisato ANDREATTA che l’ordigno non era in condizioni di sicurezza (int. 25.1.1995, f.3).

E’ quindi probabile che ANDREATTA abbia deciso di cambiare il programma operativo, utilizzando una comune miccia come del resto risulta dal rapporto di polizia giudiziaria relativo all’episodio.

- I candelotti che ANDREATTA aveva portato, gelignite avvolta in carta paraffinata rossa, erano assolutamente identici a quelli visti da SICILIANO l’ottobre precedente, durante la spedizione a Trieste e Gorizia (int.25.1.1995, f.3).

- Il movente dell’attentato dinamitardo era prevalentemente di carattere personale, anche se venato di coloriture politiche, in quanto ANDREATTA intendeva "vendicare" una ragazza a lui legata, dipendente del COIN, che aveva avuto problemi all’interno dell’azienda (int. 18.10.1994, f.7).

Focalizzando meglio tale aspetto, una volta accertato che Giuseppe FREZZATO conviveva all’epoca con Ivana PESCE, dipendente del COIN e sorella di Fiorenzo PESCE, in stretti rapporti commerciali con ANDREATTA nell’ambito dell’Associazione Italia-Benin, Martino SICILIANO ha ritenuto più probabile, per un errore della sua memoria o per un’ambiguità della confidenza di ANDREATTA, che il movente dell’episodio fosse riconducibile a FREZZATO (int. 28.3.1996, f.4).

L’aiuto era stato chiesto a Martino SICILIANO personalmente da ANDREATTA solo perchè i rapporti fra i due, all’epoca, erano già molto stretti, mentre la conoscenza di FREZZATO da parte di SICILIANO era molto superficiale.

Si noti che Piero ANDREATTA svolgeva all’epoca attività commerciale in Africa non solo per conto di Fiorenzo PESCE, ma anche di Stefano TRINGALI che era suo socio e costoro facevano riferimento, sempre sul piano commerciale, a Delfo ZORZI (int.28.3.1996, f.5).

- Inoltre pochi giorni prima dell’attentato, Delfo ZORZI aveva chiesto a SICILIANO di fare un giro in motoretta intorno a Piazza Barche, con la Vespa di un giovane presente in quel momento con loro nella piazza, e di calcolare il tempo che consentiva di allontanarsi con tale mezzo dai magazzini COIN e porsi al riparo da una situazione di allarme (int. 28.8.1996, f.2).

ZORZI aveva spiegato a SICILIANO che era in programma qualcosa contro i magazzini COIN, in risposta ad uno sciopero in occasione del quale era stato impedito un volantinaggio di destra.

SICILIANO aveva accettato di fare il controllo con la motoretta, facendo comunque presente a ZORZI che non intendeva occuparsi di tale azione.

Delfo ZORZI, forse anche in ragione della sua diversa personalità, aveva quindi dato a SICILIANO una spiegazione dell’azione in programma un po’ diversa da quella fornita da ANDREATTA accentuandone il carattere più propriamente politico (int.28.8.1996, f.2) e di risposta ad una iniziativa sindacale.

L’attentato ai magazzini COIN veniva individuato in quello avvenuto la notte fra il 27 e il 28 marzo 1970, collocando un ordigno a miccia alla base di una vetrata.

L’attentato era avvenuto il giorno precedente a quello in cui era già stato proclamato uno sciopero dei dipendenti indetto dalle confederazioni sindacali e, nonostante le indagini svolte, gli autori erano rimasti ignoti (cfr. nota della Digos di Venezia in data 17.12.1996 e atti allegati).

Non risultava nemmeno difficile mettere a fuoco, in base agli atti raccolti dalla Digos di Venezia, le figure di Piero ANDREATTA e Giuseppe FREZZATO, entrambi militanti di destra di Mestre, il primo iscritto al M.S.I. e il secondo alla CISNAL, entrambi legati ad ambienti della piccola malavita comune e ANDREATTA comunque vicino, anche per rapporti amicali, all’area di Ordine Nuovo (nota Digos Venezia citata, ff.5-6 e 19-20; nota R.O.S. in data 16.5.1995 relativa a FREZZATO, vol.1, fasc.19).

Si noti che dai successivi accertamenti risultava che non solo Ivana PESCE, ma anche un’altra donna legata all’epoca a Giuseppe FREZZATO, e cioè Rita TOSATTO (con la quale, in seguito, FREZZATO era emigrato in Argentina), era dipendente dei magazzini COIN di Piazza barche, per cui il movente accennato da Martino SICILIANO poteva riferirsi tanto all’una quanto all’altra donna essendo fra l’altro entrambe simpatizzanti di destra (int. SICILIANO, 9.10.1996, f.3).

Lo sviluppo delle indagini relative a tale attentato, di grande interesse per i profili di collegamento con l’esplosivo usato per gli attentati più gravi, e le reazioni suscitate nell’ambiente di Mestre dalle attività degli inquirenti confermavano che con l’attentato al COIN si era toccato quasi certamente un tasto delicatissimo e di importanza centrale per comprendere la dinamica materiale dell’attività del gruppo mestrino e i rapporti passati e presenti fra i vari soggetti.

Si ponga attenzione allo snodarsi degli avvenimenti in ordine cronologico:

- In data 6.1.1995 Piero ANDREATTA, rientrato momentaneamente dall’Africa insieme alla moglie, originaria del Benin, viene sentito da questo Ufficio in qualità di indiziato in relazione all’attentato al COIN di Mestre.

Nega ogni responsabilità, affermando addirittura di aver fatto parte della componente "moderata" del M.S.I. (quella facente riferimento all’on. MICHELINI) e riparte per l’estero qualche giorno più tardi.

- A seguito di decreto di intercettazione telefonica disposta da questo Ufficio, viene intercettata, il 15.1.1995, una conversazione telefonica dal Giappone intercorsa fra Delfo ZORZI e Piercarlo MONTAGNER.

I due discutono del comportamento di ANDREATTA (chiamato "l’Africano" o quello che ha "sposato la negra"), commentano con soddisfazione il fatto che ANDREATTA non avesse avuto una "crisi mistica" (cioè non stesse collaborando con gli inquirenti) e che fosse ripartito per l’Estremo Oriente, ove ZORZI intendeva rintracciarlo e controllarlo, e accennano alla necessità di offrire ad ANDREATTA, in precarie condizioni finanziarie, una buona opportunità commerciale che doveva favorire, evidentemente, il mantenimento di tale linea processuale (cfr. nota R.O.S. in data 25.1.1995 e allegata trascrizione della telefonata, vol.46. fasc.1, ff.104 e ss., e anche, sul punto, int. SICILIANO, 25.1.1995, ff.4-5).

- In data 19.6.1995, il Pubblico Ministero, nell’ambito dell’indagine nuovo rito nel frattempo aperta, procedeva all’audizione di Paola ROSSI, simpatizzante di destra di Mestre e soprattutto amica di vecchia data di Piero ANDREATTA, Piercarlo MONTAGNER e Stefano TRINGALI.

La testimone riferiva di aver incontrato ANDREATTA a Mestre, nel mese di gennaio, pochi giorni dopo l’interrogatorio svolto da questo Ufficio, e che ANDREATTA le aveva riferito di essere stato chiamato in causa da Martino SICILIANO per l’attentato al COIN, attentato che egli aveva effettivamente commesso badando, comunque, che l’ordigno non esplodesse mentre delle persone transitavano nei pressi (dep. citata, ff.1-2).

Paola ROSSI aggiungeva che nello stesso mese di gennaio ANDREATTA le aveva chiesto in prestito la propria vettura per recarsi all’aereoporto di Tessera e incontrarsi con Rudi ZORZI, fratello di Delfo (f.2).

Con tale decisiva deposizione si chiudeva così il cerchio in merito alla responsabilità di Piero ANDREATTA per l’attentato del marzo 1970.

- Qualche giorno prima comunque, il 26.5.1995, era stato nuovamente sentito Piero ANDREATTA alla presenza sia del Giudice Istruttore sia del Pubblico Ministero.

Nel corso dell’interrogatorio, a tratti drammatico, ANDREATTA inizialmente negava ancora ogni responsabilità in merito all’episodio che gli veniva contestato e negava anche di avere ancora intrattenuto, in quel periodo, contatti con Delfo ZORZI e le persone a lui vicine, ad eccezione di qualche incontro con Piercarlo MONTAGNER finalizzato peraltro a comprendere in quale direzione si stessero muovendo le indagini milanesi (f.6).

Una volta mostrate ad ANDREATTA le fotografie scattate dal personale del R.O.S. in data 26.1.1995, che lo ritraevano all’aereoporto Tessera insieme a Rudi ZORZI (cfr. nota R.O.S. in data 31.1.1995, vol.46, fasc.2, f.2), egli aveva un momento di cedimento iniziando a raccontare circostanze di grande interesse per le indagini e soprattutto utili a comprendere cosa si stesse muovendo per cercare di controllarle e di bloccarle.

Continuava infatti a negare di aver personalmente partecipato all’attentato, ma dichiarava di aver visto, nel portabagagli dell’autovettura di Giuseppe FREZZATO, otto o nove candelotti di gelignite che questi gli aveva detto essere destinati all’attentato al COIN (f.7).

Presa visione di una fotografia facente parte dei rilievi tecnici relativi agli attentati di Trieste e Gorizia, ANDREATTA dichiarava che i candelotti visti nell’autovettura di FREZZATO erano esattamente di quel tipo, avvolti in carta di colore rosso bordeaux (f.7).

Ammetteva di aver incontrato Rudi ZORZI all’aereoporto, tramite un appuntamento procurato da MONTAGNER, di avergli riferito le proprie preoccupazioni per quanto stava avvenendo e che aveva "bisogno di una mano" anche in quanto si era reso conto di essere stato interrogato per una cosa piccola (l’attentato al COIN) che si collegava tuttavia ad una molto più grande (evidentemente la strage di Piazza Fontana).

ANDREATTA, partito per l’Estremo Oriente dopo aver avuto assicurazione che il messaggio era stato trasmesso a Delfo ZORZI, era stato raggiunto telefonicamente da questi in un albergo di Canton (f.9).

ZORZI lo aveva intrattenuto al telefono per quasi due ore facendosi dire tutto quanto a sua conoscenza sull’andamento delle indagini dandogli consigli su come comportarsi e facendogli, non a caso, presente di avere offerto a Martino SICILIANO "un lavoro a Pietroburgo da 4 o 5 mila dollari al mese", allusione indubbiamente allettante per lo squattrinato ANDREATTA (f.10).

I contatti attivati da ANDREATTA dopo l’interrogatorio del gennaio 1995, a seguito del quale egli si era probabilmente accorto che quanto a sua conoscenza in merito all’attentato al COIN e ad altre circostanze era più importante di quanto potesse immaginare e forse un utile mezzo di scambio, non si erano tuttavia fermati qui.

Aveva infatti incontrato il dr. MAGGI, sempre nel mese di gennaio, in casa dell’avv. PARISI e anche con il dottore aveva parlato di quanto stava avvenendo sul piano delle indagini.

Il dr. MAGGI gli aveva detto, con aria stanca e preoccupata, che in quei giorni i Carabinieri lo stavano contattando per sondare la possibilità di una sua collaborazione e che aveva pertanto bisogno di aiuto (f.11).

ANDREATTA gli aveva così procurato un contatto con Rudi ZORZI e i tre erano si erano incontrati a Venezia, in Piazzale Roma, dove Rudi ZORZI e il dr. MAGGI, parlando separatamente, si erano evidentemente accordati in merito all’aiuto da prestare all’ex-Reggente di Ordine Nuovo del Triveneto in difficoltà (f.11).

Piero ANDREATTA ha confermato tali circostanze anche in successivi interrogatori dinanzi al P.M. di Milano (31.5.1995, 1°.6.1995 e 6.6.1995) in occasione dei quali egli aveva cominciato a parlare anche dei traffici di armi che alla fine degli anni ‘60, anche con l’aiuto di Leopoldo BERGANTIN, stavano avvenendo all’interno della cellula di Ordine Nuovo di Mestre (cfr. int. al P.M., 1°.6.1995, f.3), ma anche in un successivo confronto con Paola ROSSI, che pure ha confermato il tenore delle confidenze ricevute da ANDREATTA (confronto dinanzi al P.M. in data 22.12.1995), egli ha continuato a negare la sua responsabilità in ordine all’attentato al COIN chiudendosi, a partire da tale momento, in un assoluto mutismo.

- Grazie ad un provvedimento, adottato da questo Ufficio, di controllo e di ritardata consegna della corrispondenza del dr. Carlo Maria MAGGI, veniva acquisita copia di una lettere inviata da questi al suo difensore, acquisizione del tutto legittima ai sensi dell’art.341 c.p.p. del 1930 trattandosi di corrispondenza non ancora pervenuta al difensore stesso.

In tale lettera il dr. MAGGI fa riferimento al fatto che Piero ANDREATTA aveva fatto capire nell’ambiente di non collaborare, commentando con soddisfazione "ed è già qualche cosa", prova questa, anche a prescindere dagli equilibrismi di ANDREATTA che pur qualcosa si era lasciato sfuggire, che il gruppo teneva moltissimo al fatto che non fossero rivelate le circostanze, magari poche ma cruciali, che ANDREATTA aveva vissuto di persona (cfr. lettera allegata alla nota R.O.S. in data 8.6.1995, vol.46, fasc.4, ff.28 e ss.).

- Anche se può apparire incredibile, alla luce delle ammissioni di ANDREATTA nell’interrogatorio reso in data 26.5.1995, questi ha continuato, per tutto l’anno successivo, a frequentare assiduamente MONTAGNER e TRINGALI cioè coloro che, per conto di Delfo ZORZI, stavano cercando di impedire, tentando in particolare di screditare la testimonianza di Paola ROSSI, che nuove testimonianze peggiorassero ulteriormente la situazione processuale di Delfo ZORZI e del suo gruppo.

Le intercettazioni telefoniche e ambientali, estremamente mirate ed efficaci, disposte dalla Procura della Repubblica di Milano e riassunte nell’annotazione della Digos di Venezia in data 24.5.1996 hanno infatti evidenziato, senza alcun margine di dubbio, che l’attentato al COIN era avvenuto così come rievocato da Martino SICILIANO, per ragioni connesse al maltrattamento di una donna di destra durante un picchetto sindacale, e l’insistenza con cui gli uomini di Delfo ZORZI parlano di tale marginale episodio ne testimonia invece l’importanza, quantomeno sotto il profilo dell’esplosivo usato, e il suo collegamento con i fatti più gravi.

Infatti, da tali intercettazioni si desume con estrema chiarezza che Piero ANDREATTA è stato aiutato economicamente da Delfo ZORZI per il suo personale silenzio in merito a tale episodio e ha continuato a chiedere aiuti economici sempre maggiori, tanto da infastidire MONTAGNER che lo considerava una sorta di "pensionato" a vita del gruppo di ZORZI.

D’altronde Piero ANDREATTA, dinanzi ai suoi interlocutori, poteva rivendicare a sè di essersi "sacrificato" in favore dell’ambiente, salvando con il suo silenzio (che gli era costato il divieto di espatrio, gravissimo in relazione alle sue attività commerciali) l’intera organizzazione.

Inequivoche in tal senso sono le frasi, riportate nell’annotazione, "se dovessi dire sì, sono io il colpevole di COIN comincia tutto, questo è il punto...." e "Piero che sa tutto..il Piero, se va a parlare...."

Inoltre Piero ANDREATTA poteva rivendicare a sè dinanzi ai camerati, come emerge sempre dalle intercettazioni, il merito di avere messo di nuovo in contatto, quasi casualmente, nel gennaio 1995, il dr. MAGGI con Delfo ZORZI, impedendo così che il dottore, in piena crisi, decidesse di collaborare con i Carabinieri e consentendo in suo favore da parte di ZORZI un intervento più rapido ed efficace di quello che era stato attivato con Martino SICILIANO il quale aveva comunque "disertato" e si era affidato ai rappresentanti dello Stato.

Tale recupero del dr. MAGGI, prossimo a cedere, da parte dell’organizzazione era stato la precondizione che aveva portato, nell’agosto del 1995, alla presentazione da parte del dottore dell’esposto contro i Carabinieri, contromossa ispirata da Delfo ZORZI in un’ottica di inquinamento delle indagini (cfr. annotazione Digos di Venezia citata, f.19).

- Le manovre di "ricatto" e di inquinamento in merito al pur modestissimo attentato al COIN non sono tuttavia terminate qui e non sono nemmeno state interrotte dall’arresto di ANDREATTA, MONTAGNER e TRINGALI, nell’estate del 1996, per il reato di favoreggiamento aggravato.

Nel maggio del 1996, il Giudice Istruttore di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’istruttoria relativa all’abbattimento dell’aereo ARGO 16 avvenuto nel 1973, con una coincidenza che testimonia comunque la circolarità delle indagini in questa materia, disponeva una perquisizione nell’abitazione di Baden FREZZATO, padre di Giuseppe e all’epoca dei fatti, nella sua veste di sottufficiale dell’Esercito, custode dell’hangar ove normalmente sostava l’aereo poi abbattuto.

Nell’immediatezza della perquisizione Fiorella FREZZATO, sorella di Giuseppe, molto scossa, riferiva al personale del R.O.S. di Padova incaricato della perquisizione di avere ricevuto pochi giorni prima, l’8.5.1996, una visita di Ivana PESCE, negli anni ‘70 sentimentalmente legata a suo fratello Giuseppe e che da questi aveva avuto una figlia di nome Erika.

Ivana PESCE, facendo presente di essere in gravi difficoltà economiche anche in quanto Giuseppe FREZZATO non aveva mai passato gli alimenti per la figlia Erika, prospettava la necessità di ricevere dalla famiglia FREZZATO la somma di 10 milioni.

Solo in tal caso avrebbe evitato di testimoniare contro Giuseppe FREZZATO, coinvolto, secondo lei, nella "vicenda relativa ad un attentato in danno del COIN" (cfr. dep. Fiorella FREZZATO, 31.5.1996, f.7).

Nell’occasione Ivana PESCE aveva anche fatto il nome di Martino SICILIANO (f.8).

Fiorella FREZZATO ricordava di aver sentito parlare in casa, all’epoca dei fatti, di tale attentato e che suo fratello e Ivana PESCE, discutendo dell’episodio, avevano fatto riferimento a Piero ANDREATTA e alle conseguenze di quanto era avvenuto.

Giuseppe FREZZATO aveva esclamato "Hai visto? Non è successo niente. E’ solo venuta giù una vetrina, ma l’hanno rimessa su e stanno tornando a lavorare come prima" e Ivana PESCE aveva risposto "Giuseppe, stai attento perchè se no ti denuncio" (dep Fiorella FREZZATO al G.I. di Venezia, 7.6.1996, f.2, e a questo Ufficio, 13.6.1996, f.2).

Nonostante la chiarezza di questo insieme di circostanze e di questo scambio di battute, soprattutto se lette alla luce del racconto di Martino SICILIANO, Ivana PESCE, sentita da questo Ufficio in data 28.9.1996, pur ammettendo di essersi recata da Fiorella FREZZATO e di avere chiesto del denaro in favore della figlia Erika, ha negato di avere fatto alcun riferimento all’attentato ai magazzini COIN.

Si noti del resto che Ivana PESCE, già sentita in data 29.4.1995, aveva assunto anche allora un comportamento estremamente reticente, ammettendo a malapena di essere stata iscritta per qualche tempo, proprio su richiesta di FREZZATO, al sindacato CISNAL del settore commercio (dep. citata, f.3).

Indipendentemente dall’eventuale rilevanza penale della vicenda narrata da Fiorella FREZZATO e tenendo presente che la sua testimonianza appare assolutamente spontanea e credibile, è estremamente significativo che un episodio in sè modesto e privo di dirette conseguenze penali come l’attentato del 27.3.1970 possa essere ancora ragione di ricatti e pressioni.

In realtà l’intera vicenda dell’attentato rievocata da Martino SICILIANO porta a due significative conclusioni di grande rilevanza per il complesso delle indagini che sono state svolte:

- le modalità con cui si era giunti all’esecuzione dell’attentato non dovevano assolutamente essere rivelate poichè la gelignite utilizzata era appartenente allo stesso lotto, entrato nella disponibilità della cellula di Mestre (e proveniente certamente da Roberto ROTELLI), utilizzato per gli attentati dell’ottobre 1969 a Trieste e Gorizia e con ogni probabilità entrato a far parte anche del materiale esplosivo raccolto per gli attentati del 12.12.1969.

Piero ANDREATTA, soggetto instabile e processualmente pericoloso a differenza di Giuseppe FREZZATO, irraggiungibile in Argentina, doveva essere blandito e comprato da Delfo ZORZI e dal suo gruppo purchè non rivelasse in qual modo, per tale episodio, era stato acquisito l’esplosivo e quindi dove fosse il deposito di pronto uso di cui la cellula di Ordine Nuovo disponeva a Mestre, deposito più prossimo alla base d’azione del gruppo rispetto a quello di Paese (int. SICILIANO, 5.8.1996, f.4).

Con ogni probabilità il deposito da cui provenivano tali candelotti di gelignite era lo stesso casolare nei pressi di Mestre ove, nel 1974, Marcello SOFFIATI avrebbe in seguito ritirato l’ordigno, composto anch’esso da candelotti di gelignite, trasportato prima a Verona e poi a Milano per essere inviato a Brescia (int. DIGILIO, 4.5.1996, ff.2-4).

Sempre in termini probabilistici può ritenersi che tale casolare sia quello ubicato fra Mirano e Spinea di cui ZORZI e il suo gruppo, all’epoca, già disponevano, utilizzato soprattutto per l’apposizione di marchi contraffatti sugli articoli di pelletteria destinati ad essere esportati in Estremo Oriente (int. SICILIANO, 16.6.1996, ff.1-3; 2.8.1996, f.3, e, in merito all’identificazione del casolare, nota R.O.S. in data 24.7.1996, vol.6, fasc.4, ff.46 e ss.).

- Quasi casualmente le indagini sull’attentato al COIN e l’agitarsi di ANDREATTA dopo il suo interrogatorio del 6.1.1995 hanno reso possibile il riannodarsi dei contatti fra Delfo ZORZI e il dr. MAGGI e il "recupero" di quest’ultimo da parte del gruppo proprio nei giorni in cui, grazie ai colloqui investigativi effettuati dal personale del R.O.S., il dr. MAGGI sembrava prossimo a convincersi dell’opportunità di assumere un atteggiamento quantomeno di "dissociazione".

Non è un caso che il dr. MAGGI, anch’egli, come ANDREATTA, in precarie condizioni economiche, in due lettere acquisite in copia e portanti le date 9.8.1995 e 1°.11.1995 accenni al suo difensore a sostanziosi contributi finanziari che sta per ricevere da un "amico" (cfr. note R.O.S. in data 18.8.1995 e 8.11.1995 e lettere allegate, vol.46, fasc.4, ff.83 e ss. e 88 e ss.).

Così come è avvenuto per ANDREATTA, il vacillante silenzio del dr. MAGGI è stato certamente comprato dal camerata proprietario di un ingente impero commerciale e finanziario.

E’ probabile che solo a "transazione" avvenuta il dr. MAGGI, nell’agosto del 1995, quando peraltro i colloqui investigativi erano cessati da sei mesi, abbia deciso, in cambio, di presentare l’esposto contro il personale del R.O.S. ispirato da ZORZI quale condizione vincente per frenare le indagini (cfr. nota della Digos di Venezia in data 24.5.1996, f.19).

Purtroppo, come è noto, tale esposto è stato coltivato, con zelo degno di migliore causa, dall’A.G. di Venezia ottenendo così parte del risultato che i suoi ispiratori si erano prefissati.

A seguito della discovery degli atti seguita, nel giugno 1997, all’arresto del dr. MAGGI e all’emissione di ordinanza di custodia cautelare anche nei confronti di Delfo ZORZI, sono emerse comunque le prove del pagamento di una somma assai sostenuta al dr. MAGGI, così come le prime emergenze contestuali all’interrogatorio di ANDREATTA lasciavano già intuire.

Indipendentemente, quindi, dalla dichiarazione di prescrizione che deve essere emessa nei confronti di SICILIANO, ZORZI, ANDREATTA e FREZZATO in relazione ai reati connessi all’attentato al COIN di Mestre, è certo che tale episodio, per il quale è stato speso tanto lavoro investigativo e, da parte dell’ambiente mestrino, tanti sforzi per occultare la verità, costituisce sul piano logico/indiziario una delle parti centrali della ricostruzione e del patrimonio complessivo delle indagini collegate.

 

 

 

 

 

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