L’ I T E R D E L L ’ I S T R U T T O R I A

La presente istruttoria trae origine dalla separazione, al momento del deposito degli atti della prima istruttoria condotta da questo Ufficio in materia di eversione di destra, di una serie di posizioni e atti relativi ad episodi specifici (concernenti in particolare Piero Battiston ed altri aspetti relativi a "La Fenice" e l’attività in Italia e all’estero degli elementi dell’Aginter Press) e dalla loro riunione ed inserimento, per motivi di economia processuale, nel procedimento già rubricato come 2/92F, trasmesso nell’autunno del 1992 dal Giudice Istruttore di Bologna per ragioni di incompetenza territoriale e riguardante i reati di associazione sovversiva e banda armata a fini di strage, ascritti ad alcuni esponenti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.

Si intendeva soprattutto con tale provvedimento salvaguardare la riservatezza delle dichiarazioni in parte già rese all’epoca (inizio 1995) da Carlo DIGILIO e da Martino SICILIANO, riguardanti molti reati specifici, ma in particolare la strage di Piazza Fontana, e ciò in attesa che la Procura della Repubblica di Milano aprisse con il nuovo rito un procedimento relativo agli attentati del 12.12.1969 iscrivendo nel registro degli indagati inizialmente il dr. Carlo Maria MAGGI e Delfo ZORZI, indicati dai collaboratori quali corresponsabili di tali attentati.

L’attività istruttoria relativa al procedimento 2/92F proseguiva quindi, fino all’estate del 1997, approfondendo ed ampliando in modo notevolissimo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e di Martino SICILIANO, contestando ai vari imputati gli episodi specifici che man mano emergevano o che in precedenza non erano ancora stati contestati e acquisendole testimonianze di tutte le persone citate dai collaboratori o comunque facenti parte in passato dell’area di estrema destra che potessero fornire utili elementi di riscontro.

Ovviamente venivano delegate alle strutture di p.g. operanti, in particolare il Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri, ma anche le Digos di Milano, Verona, Trieste e altre città e la D.C.P.P. presso il Ministero dell’Interno, tutti gli accertamenti necessari sempre a fini di riscontro e proseguiva altresì, tramite ricerche "mirate" delegate al personale del Servizio, l’acquisizione di elementi informativi presso il S.I.S.Mi.

L’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Milano si sviluppava, invece, soprattutto sino all’autunno del 1996, più che con l’audizione dei collaboratori, con l’effettuazione di intercettazioni telefoniche ed ambientali riguardanti gli ex-componenti dell’area mestrina di Ordine Nuovo, intercettazioni rivelatesi molto efficaci, e con l’approfondimento degli spunti investigativi resi possibili anche dal recupero, presso una caserma di Via Appia a Roma, di moltissimo materiale non protocollato risalente prevalentemente agli anni ‘70.

Gli episodi specifici e le imputazioni elevate nella rubrica possono essere sistematizzate in quattro filoni tutti strettamente connessi all’iniziale campo di indagine e cioè le attività eversive di Ordine Nuovo e, in misura minore, di Avanguardia Nazionale negli anni ‘70:

- La posizione di Pietro BATTISTON e alcuni nuovi episodi attribuibili al gruppo La Fenice (capi 1-9 di imputazione).

- Le imputazioni associative e i singoli episodi attribuibili alla struttura occulta di Mestre/Venezia di Ordine Nuovo, struttura in stretta connessione sia con gli elementi milanesi sia, in alcuni casi, con gli elementi triestini (capi 13-28 di imputazione).

- Le imputazioni associative prospettabili nei confronti della struttura AGINTER PRESS, dal momento del trasferimento del suo centro di attività da Lisbona a Madrid, e gli episodi ad essa attribuibili in Italia e all’estero (capi 10-13 di imputazione).

Di tale struttura, diretta da GUERIN SERAC, facevano parte molti italiani sia di Ordine Nuovo sia di Avanguardia Nazionale e del resto, sin dalla fine degli anni ‘60, l’AGINTER PRESS aveva studiato e ispirato il protocollo di azione delle più importanti organizzazioni di estrema destra sia in Italia sia in altri Paesi europei.

- Le imputazioni di spionaggio politico e militare e le altre imputazioni in materia di armi connesse all’attività di controllo e consulenza svolta da una struttura di sicurezza americana, probabilmente di carattere militare ed erede del vecchio COUNTER INTELLIGENCE CORPS, sulle attività di Ordine Nuovo in Veneto negli anni della c.d. strategia della tensione (capi 33-35 di imputazione).

Si tratta delle imputazioni di maggior rilievo e novità, anche sul piano dell’interpretazione dell’insieme degli avvenimenti, presenti nell’istruttoria in quanto, in passato, mai erano emerse le prove di un così ampio coinvolgimento, confinato come possibilità nel mondo delle mere ipotesi politiche.

A tali filoni maggiori si devono aggiungere le imputazioni di falso e favoreggiamento connesse alla latitanza e alla fuga a Santo Domingo di Carlo DIGILIO (capi 29-32 di imputazione).

Tali episodi, ascritti soprattutto ad alcuni elementi vicini a Gilberto CAVALLINI, erano già stati in parte trattati nella prima sentenza-ordinanza conclusiva del procedimento 721/88F.

L’attività istruttoria si è inoltre arricchita con l’incarico affidato al dr. Aldo Giannuli, esperto in materie storiche ed archivistiche e consulente della Commissione stragi, di effettuare ricerche di materiale documentale, riguardante fra l’altro Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e l’Aginter Press, presso gli archivi di Enti e Strutture istituzionali sino a quel momento non completamente esplorati (ad esempio gli archivi del Ministero dell’Interno, del Ministero degli Affari Esteri, del Servizio "I" della Guardia di Finanza, dei S.I.O.S. delle Forze Armate), inquadrando poi, anche alla luce dell’ulteriore materiale rinvenuto, l’eventuale corrispondenza delle notizie raccolte con quanto era già emerso dagli atti processuali e inquadrando altresì i fatti oggetto del procedimento nel contesto nazionale e internazionale dell’epoca (cfr. incarico affidato in data 22.1.1996 e successive integrazioni in data 10.12.1996 e 14.3.1997).

L’elaborato peritale depositato in data 13.3.1997, che consta di oltre 300 pagine e moltissimi allegati tratti dalla documentazione rinvenuta, consente di mettere a fuoco il contesto internazionale e la posizione dell’Italia negli anni cruciali della "strategia della tensione" e di approfondire argomenti di rilievo quali il dibattito sulla guerra rivoluzionaria sviluppatosi negli anni ‘60 e l’esportazione in tutto il mondo, a partire dalle teorizzazioni del Pentagono, delle tecniche di guerra non ortodossa (argomento, questo, strettamente connesso al ruolo dell’AGINTER PRESS e dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO), la penetrazione di tali tecniche anche nel nostro ambiente militare grazie, in particolare, all’impegno del generale Adriano MAGI BRASCHI e gli stretti rapporti intrattenuti, sin dalla fine degli anni ‘60, fra GUERIN SERAC e Pino RAUTI, propiziati e attivati non da un qualsiasi personaggio dell’estrema destra, ma da Armando MORTILLA, giornalista romano principale fonte informativa del Ministero dell’Interno, con il nome in codice ARISTO, per un ventennio dal 1955 al 1975.

Proprio nel lavoro di ricerca del perito va inserita la nota vicenda del ritrovamento o, meglio, recupero dallo stato di abbandono in cui si trovavano, dei fascicoli, non protocollati e contenuti in scatoloni non catalogati, giacenti nell’Archivio di Deposito della Via Appia (impropriamente definiti dalla stampa "archivio parallelo" o "archivio occulto"), il cui ritorno alla luce è stato peraltro reso possibile, come sottolineato dallo stesso perito, dall’impegno e dall’atteggiamento di collaborazione del personale attualmente in servizio presso la D.C.P.P.

L’esame di tale materiale, risalente per la maggior parte agli anni ‘60/’70, ha permesso di aprire nuovi spunti investigativi anche nelle istruttorie collegate, ed in particolare nel procedimento avviato dalla Procura di Milano sulla strage di Piazza Fontana.

Perdipiù, a titolo di esempio concreto di quella che era, all’epoca, la pratica delle Strutture del Ministero dell’Interno, in uno dei faldoni recuperati in Via Appia è stato addirittura rinvenuto il reperto (alcune parti del congegno ad orologeria e dell’involucro che lo conteneva) relativo all’attentato dell’8.8.1969 al treno 771 in sosta, al momento dell’esplosione, presso la stazione di Pescara, reperto trasmesso dal locale compartimento di Polizia all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e da tale Ufficio mai trasmesso all’Autorità Giudiziaria per le necessarie verifiche tecniche e comparative (cfr. vol.8, fasc.8).

Il reperto, riemerso dopo 27 anni, è quindi la prova concreta dello stile con cui venivano condotte le indagini sugli attentati commessi dalla cellula veneta.

Sempre sul piano generale legato alla storia e allo sviluppo dell’istruttoria, si impone in questa sede un’altra breve considerazione.

Ci riferiamo all’antinomia apparente fra "pista interna" e "pista esterna" nei fenomeni di appoggio e di collusione con i presunti autori degli attentati e delle altre attività eversive emerse nel procedimento, antinomia "costruita" in occasione di alcune sterili polemiche extraprocessuali in occasione delle quali qualcuno ha voluto addirittura prospettare che la presente istruttoria si sia occupata della c.d. pista internazionale per tralasciare volutamente la c.d. pista interna.

In realtà, poichè Carlo DIGILIO, principale collaboratore ed interlocutore di questo Ufficio nel corso dell’istruttoria, è stato a lungo un informatore di una struttura di sicurezza americana ed ha accettato di descrivere con ampiezza di particolari come tale struttura abbia operato in Veneto in quegli anni, è assolutamente ovvio, sul piano dei risultati, che il maggior numero di novità sia stato acquisito in merito a tali inquietanti attività.

Analogamente, gli spazi che si sono aperti sull’attività di GUERIN SERAC e dell’Aginter Press, struttura "internazionale", ma in grado di ispirare l’azione delle organizzazioni di estrema destra italiane e formata, nell’ultima fase, anche da molti cittadini italiani, sono dovuti alla scelta di testimonianza non "collaborativa", ma comunque "ricostruttiva" di Vincenzo VINCIGUERRA il quale era entrato in contatto, durante la sua latitanza alla metà degli anni ‘70, con gli esponenti di tale organizzazione trasferitisi da Lisbona a Madrid dopo la "rivoluzione dei garofani".

Se spunti altrettanto ampi non si sono aperti in merito alle complicità di strutture italiane, ciò è dovuto non certo alla volontà di seguire una direzione istruttoria, ma al fatto che, dopo la testimonianza del capitano Antonio LABRUNA nel corso della prima fase delle indagini, non sono stati acquisiti, in tale campo, altri testimoni di rilievo eccettuate, forse, le sintetiche dichiarazioni del generale Nicola FALDE, peraltro deceduto poco tempo dopo averle rese.

Alcuni elementi significativi sono comunque pervenuti da taluni spezzoni di conoscenza di cui erano in possesso alcuni esponenti di Ordine Nuovo (si pensi al "reclutamento" di ZORZI da parte dell’Ufficio Affari Riservati in occasione del suo arresto nel 1968, testimoniato da VINCIGUERRA, ed alle protezioni, da parte dello stesso Apparato, di cui il gruppo avrebbe goduto, emerse, secondo Martino SICILIANO, durante le indagini sull’attentato alla Scuola Slovena di Trieste), mentre un nuovo e promettente filone di indagine, lasciato per motivi di opportunità processuale agli approfondimenti della Procura di Milano, si è aperto con il recupero e l’esame del materiale della caserma di Via Appia, reso possibile soprattutto dall’attività di ricerca del perito dr. Aldo Giannuli.

E’ chiaro, comunque, che i due profili, impropriamente definiti dalla stampa "pista interna" e "pista esterna", si pongono in rapporto non di antinomia, ma di complementarità, poichè all’epoca nella medesima direzione era orientata la strategia globale degli apparati istituzionali del nostro Paese e di quelli dei Paesi alleati.

Sono del resto molto esplicite le osservazioni conclusive sintetizzate sul punto dal dr. Giannuli al termine della sua ricerca:

"""Il cenno agli apparati di sicurezza italiani e stranieri ci induce ad affrontare il tema del loro ruolo nella strategia della tensione.

Il primo dato evidente è la conferma, pur se talvolta indiretta e frammentaria, del coinvolgimento della C.I.A. nella vicenda (e si pensi, quantomeno, ai documenti sul rapporto fra il servizio americano e l’Aginter Press - allegati 102-115).

Questo, naturalmente, non esclude affatto responsabilità interne negli stessi avvenimenti.

D’altro canto, è possibile cogliere anche intuitivamente la sterilità di una contrapposizione fra cosiddetta "pista straniera" e "pista interna": qualsiasi intervento straniero - data la portata e la durata temporale delle operazioni legate alla strategia della tensione - non avrebbe potuto realizzarsi senza il supporto compiacente di ampi settori istituzionali italiani.

Così come - stante la particolare delicatezza dello scenario italiano, sicuramente vigilato con la massima attenzione dagli ambienti atlantici ed americani in particolare - non appare molto convincente l’ipotesi di una vicenda tutta interna che sarebbe rimasta incompresa ed incontrollabile da parte dei servizi di sicurezza alleati.

E, dunque, non vi è ragione di ritenere che le due piste non si completino a vicenda.

L’esame della documentazione sembra confermare pienamente questa ipotesi di indagine""".

(dalla perizia del dr. Aldo Giannuli depositata in data 13.3.1997, pag.284, punto 15).

Al termine dell’attività istruttoria i Pubblici Ministeri hanno presentato, in data 14.7.1997, le richieste finali chiedendo il rinvio a giudizio di un gruppo di imputati e la dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione (e quindi non nel merito) in relazione alla maggior parte delle altre posizioni e comunque di verificare in via principale la sussistenza degli elementi di connessione, ai sensi dell’art.45 c.p.p. abrogato, fra i reati specifici via via contestati e i reati base costituiti dalle imputazioni associative che hanno originato l’istruttoria formale.

In proposito deve rilevarsi che anche in questa seconda parte dell’istruttoria è stata rigorosamente seguita la linea interpretativa tracciata dal Giudice Istruttore di Bologna, dr. Leonardo GRASSI, nella sentenza-ordinanza conclusiva dell’istruttoria-bis sulle stragi dell’Italicus e alla Stazione di Bologna (cfr. capitolo 6 della prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio in data 18.3.1995) e cioè l’opportunità e la necessità di contestare i reati che via via emergevano dalle varie dichiarazioni poichè connessi a quelli originari e purchè avvenuti prima del 24.10.1989.

Tale corretto ampliamento delle indagini, insito in qualsiasi istruttoria formale condotta in passato e relativa a strutture criminali di ampio respiro e proporzioni, ha visto solo la contestazione di episodi e situazioni connessi funzionalmente alle strutture organizzative originarie (Ordine Nuovo e, in misura minore, Avanguardia Nazionale) ed in particolare gli episodi specifici espressione del programma criminoso delle 2 bande armate, episodi altresì strettamente connessi sul piano probatorio essendo venuti alla luce, nelle loro linee essenziali, dalle dichiarazioni dei vari associati e cioè Carlo DIGILIO, Martino SICILIANO, Vincenzo VINCIGUERRA e così via.

Non vi sono più, quindi, ipotesi di reato da trasmettere alla Procura della Repubblica per l’avvio di indagini secondo il rito vigente, anche tenendo presente che molte prospettazioni di reato sono già state trasmesse ad altre Procure, territorialmente competenti, al termine della prima fase dell’istruttoria (ad esempio i reati prospettabili nei confronti dei responsabili dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, con trasmissione alla Procura della Repubblica di Roma) e altri episodi che presentavano minori elementi di connessione con le imputazioni originarie della presente istruttoria (ad esempio l’episodio della cessione di due M.A.B. da Luigi FALICA a Massimiliano FACHINI, trasmesso alla Procura di Bologna, l’attentato al Gazzettino di Venezia del febbraio 1978 e la rapina in danno del laboratorio di preziosi Adularia di Milano, avvenuta il 13.2.1986) sono già stati oggetto, nel corso delle indagini, di separati provvedimenti di trasmissione ad altre Autorità Giudiziarie.

Del resto, le profonde connessioni che legano tutte le indagini partite sin dal 1987 con la scoperta del famoso "documento AZZI" sono state ribadite (seppure, nel caso concreto, con conseguenze negative per l’accusa) dal Tribunale del Riesame di Milano che nel luglio del 1987 ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Milano per il reato di rifiuto di testimonianza al P.M. proprio nei confronti di Nico AZZI.

Infatti il Tribunale del Riesame ha rilevato che il filone investigativo condotto condotto dal Giudice Istruttore in merito all’evoluzione e all’operatività di Ordine Nuovo, e in particolare del gruppo La Fenice, costituisce un continuum con i singoli episodi via via emersi (dal possesso dei timers da parte del gruppo La Fenice, a fini di depistaggio, citato nel "documento AZZI", all’attentato al treno in occasione del quale questi venne arrestato, sino ai contatti di Ordine Nuovo con i Servizi e alla strage di Piazza Fontana), cosicchè la connessione strategica e probatoria fra ogni circostanza ed episodio impediva che Nico AZZI (imputato in entrambi i filoni di indagine condotti da questo Ufficio) potesse essere sentito come testimone, con i doveri discendenti da tale veste, addirittura nel procedimento nuovo rito nato dall’approfondimento delle dichiarazioni rese e dagli accertamenti svolti nell’istruttoria formale.

Del resto anche la strage di Piazza Fontana e gli altri attentati del 12.12.1969 avrebbero potuto senza difficoltà, come gli altri episodi specifici espressione del programma criminoso di Ordine Nuovo, rientrare nel novero dei reati connessi alle originarie imputazioni associative e quindi restare interni all’istruttoria condotta con il vecchio rito.

Si è ritenuto tuttavia opportuno, nella primavera del 1995, anche a seguito di missive inviate da questo Ufficio alla Procura della Repubblica, sollecitare e segnalare l’opportunità dell’apertura di un fascicolo di indagini preliminari con il nuovo rito per una molteplicità di ragioni.

In quel momento, infatti, il termine massimo per la chiusura delle istruttorie formali era prossimo a scadere (30.6.1995), era assolutamente incerto se il Parlamento intendesse o meno approvare una nuova proroga ed era impensabile che le indagini relative ad una strage potessero concludersi nel giro di 2 o 3 mesi.

Appariva inoltre opportuno disporre intercettazioni ambientali nei luoghi ove i fiancheggiatori mestrini di Delfo ZORZI si incontravano per concordare le strategie processuali (intercettazioni ambientali poi disposte dal P.M. con risultati molto significativi) ed anche sotto questo profilo risultava necessario aprire un fascicolo nuovo rito poichè, applicando il vecchio, rito era assai dubbio che si potesse procedere ad un tal genere di intercettazioni, non espressamente vietate, ma nemmeno previste dal codice del 1930.

Soprattutto appariva inopportuno che episodi così delicati, gravi e che tanta risonanza avevano avuto nel Paese fossero oggetto di un giudizio in base alle regole di un rito in via di estinzione e, sotto alcuni profili, anche a fronte di possibili critiche da parte dei difensori, meno "pubblico" e meno "garantista".

Concludendo in merito all’iter e alla fase finale della presente istruttoria, è necessario sottolineare che la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti di Carlo DIGILIO e Sergio MINETTO per il reato di spionaggio politico e militare, così come articolato nel capo 32 di imputazione, costituisce una scelta importante perchè comporta una omogeneità di interpretazione e di ricostruzione complessiva dell’intervento della struttura di sicurezza statunitense che lega indissolubilmente e concretamente gli episodi e le indagini relative agli attentati del 12.12.1969 alla strage di Via Fatebenefratelli a Milano e alla strage di Piazza della Loggia a Brescia.

3

LA COLLABORAZIONE DI

CARLO DIGILIO E MARTINO SICILIANO

Asse portante della presente istruttoria e delle indagini a questa collegate sono le centinaia di pagine di dichiarazioni rese da Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO a questo Ufficio, il primo a partire dalle sue prime limitatissime ammissioni nel giugno 1993 e il secondo a partire dall’ottobre 1994, data del suo primo rientro in Italia grazie al successo dell’intervento del personale del S.I.S.Mi.

Diversa è la genesi di tali due collaborazioni, così come diverso è il ruolo ricoperto dai due in Ordine Nuovo e diverso lo stesso profilo umano dei due personaggi.

E’ opportuno innanzitutto sottolineare che, come si evidenzierà quasi da ogni capitolo di questa sentenza-ordinanza, le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO rivestono un’importanza e una valenza elevatissima sia perchè rese dall’interno di un mondo come quello dell’estrema destra, storicamente povero di collaboratori o di dissociati, sia perchè rese in assoluta separatezza le une dalle altre sia perchè corroborate da moltissimi altri testimoni che hanno vissuto parte di tali esperienze.

Sotto il primo profilo il muro del silenzio, reso particolarmente forte nel mondo dell’estrema destra dall’importanza dei vincoli di "onore" e di fedeltà ai camerati, tipici di tale ambiente, si è rotto per ragioni diverse e difficilmente ripetibili.

Carlo DIGILIO, espulso da Santo Domingo e trovatosi, al suo arrivo in Italia, dinanzi ad una pena di oltre dieci anni da scontare, ha trattato progressivamente la propria resa con le Autorità dello Stato, uniche a poter garantire a DIGILIO un futuro diverso in ragione delle condizioni familiari, della sua età e del suo stato di salute.

Carlo DIGILIO in sostanza si è "arreso" in una condizione di assoluta necessità che, come se egli fosse un prigioniero caduto in mano al nemico, non gli consentiva altra scelta.

Diverse sono state le motivazioni e l’atteggiamento psicologico di Martino SICILIANO.

Questi, raggiunto non da un provvedimento restrittivo, ma da una comunicazione giudiziaria che comunque, una volta resa nota da un quotidiano di Venezia, gli aveva fatto perdere immediatamente la sua attività lavorativa presso una ditta tedesca, ha ritenuto inaccettabili le proposte di sistemazione in Russia o in Giappone avanzategli da Delfo ZORZI ed ha soprattutto ritenuto inaccettabile rispondere, quantomeno all’esterno, di colpe non sue (e cioè di essere uno dei materiali esecutori della strage di Piazza Fontana) e di continuare a fungere da capro espiatorio per il gruppo di Delfo ZORZI.

Dopo un lungo oscillare fra le blandizie degli ex-ordinovisti e le proposte di riscatto e tutela che venivano dai funzionari dello Stato, Martino SICILIANO ha deciso di rompere ogni rapporto con i suoi vecchi camerati, manifestando peraltro, sin dai suoi primi interrogatori, un atteggiamento di riflessione critica e di rimorso sincero per i tragici avvenimenti che egli con la sua militanza e il suo impegno operativo sino a pochi giorni prima dei fatti più tragici, aveva comunque contribuito in parte a rendere possibili.

Anche per questa ragione la collaborazione di Martino SICILIANO, pur in possesso di un minor bagaglio di conoscenza rispetto a Carlo DIGILIO, è stato sin dall’inizio più semplice e lineare, privo delle remore o titubanze che hanno contraddistinto altre testimonianze.

Sotto il secondo profilo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO sono state rese in assoluta separatezza sia, ovviamente, sul piano processuale, in quanto i due non sono mai entrati in contatto durante le indagini, sia su un piano storico.

Infatti Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO non si sono praticamente conosciuti durante la loro militanza in quanto DIGILIO, quadro rigorosamente "coperto" della cellula di Venezia, poteva entrare in contatto con i mestrini solo indirettamente tramite incontri riservati con Delfo ZORZI.

E’ evidente che tale circostanza accresce di molto la credibilità delle rispettive dichiarazioni, tenendo presente che DIGILIO e SICILIANO, pur storicamente e processualmente separati, hanno reso, su episodi e circostanze anche secondarie, testimonianze del tutto convergenti.

Sotto il terzo profilo va rilevato che le dichiarazioni dei due collaboratori non sono rimaste quasi in nessun caso isolate, ma sono state confermate, in linea generale e anche con riferimento a moltissimi episodi specifici, da quelle di un gran numero di altri collaboratori "minori" o semplici testimoni.

Ci riferiamo alle dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA rese fra il 1991 e il 1993 in un’ottica di ricostruzione delle collusioni fra l’ambiente di estrema destra e gli apparati dello Stato, a quelle di Tullio FABRIS in merito all’innesco di ordigni mediante timer allo studio della cellula padovana, a quelle importantissime di Edgardo BONAZZI in merito alle notizie apprese in carcere sulle attività del gruppo milanese e del gruppo veneto, a quelle di Giancarlo VIANELLO sulle attività della cellula mestrina, rese, si badi bene, in sintonia con quelle di Martino SICILIANO che egli non vedeva da oltre 20 anni.

Ci riferiamo altresì alle importanti dichiarazioni , anche relative alla struttura informativa statunitense, di Dario PERSIC, Benito ROSSI, Ettore MALCANGI e Marzio DEDEMO e a quelle, più limitate ma utili per comprendere la dinamica dell’ambiente mestrino, di Guido BUSETTO, Giuliano CAMPANER e, sino alla sua assoluta chiusura processuale, di Piero ANDREATTA.

Con riferimento alla collaborazione di Carlo DIGILIO, egli è stato espulso da Santo Domingo nell’ottobre 1992 e, come si è accennato, ha iniziato a rendere le prime e timide dichiarazioni nel giugno 1993.

Nella primavera del 1994 egli è stato posto in regime di detenzione extrapenitenziaria, in una struttura idonea, sotto il controllo della Digos di Venezia e, a partire dall’inizio del 1995, con lo svilupparsi e il progredire delle sue dichiarazioni, è stato sottoposto allo speciale Programma di Protezione previsto dalla normativa sui collaboratori di giustizia.

La collaborazione di Carlo DIGILIO, benchè unica per importanza nel settore dell’estrema destra e dei rapporti fra tali ambienti e strutture di sicurezza, è stata travagliata e faticosa.

Egli infatti, sin dall’inizio, non ha mai accettato di descrivere un quadro organico e cronologicamente scandito della sua militanza politico-eversiva e dei suoi rapporti con la struttura statunitense, ma ha scelto di affrontare, interrogatorio per interrogatorio, singoli argomenti, aprendo sportelli su episodi e circostanze spesso distanti fra loro e procedendo per "accumulazione", cioè aggiungendo a ciascun episodio sempre nuovi dettagli non in contrasto con la descrizione precedente, ma che comunque sino a quel momento aveva ritenuto di tenere per sè.

Carlo DIGILIO ha giustificato tale suo comportamento, improntato ad una sorta di cautela anche se sempre in progressione, con due ordini di ragioni.

In primo luogo la lontananza dall’Italia sin dal 1985 non gli aveva consentito subito di verificare se certi apparati statali, che erano stati attivi nel periodo della strategia della tensione e con cui era stato in contatto o erano stati in contatto i suoi camerati, fossero ancora attivi, o sin dove lo fossero, e in grado eventualmente di essere presenti e condizionare anche le strutture preposte al suo controllo e alla sua tutela quale collaboratore di giustizia.

In secondo luogo egli ha ben presto fatto presente che quanto era in grado di riferire, unico fra i collaboratori di giustizia e i testimoni, o quantomeno unico con tale ricchezza di particolari, in merito all’intervento di strutture di intelligence straniere nelle stragi e in genere nella strategia della tensione era di tale gravità e novità da imporgli un cammino progressivo nel raccontare verità che sino a quel momento risultavano confinate nelle ricostruzione di parte e anche fantasiose delle pubblicazioni e degli slogans della c.d. contro-informazione.

Perdipiù, nel maggio del 1995, in un momento cruciale della sua collaborazione (in quegli stessi giorni era stato arrestato il suo "superiore" negli anni ‘70, Sergio MINETTO, caporete di Verona), Carlo DIGILIO è stato improvvisamente colpito da un grave ictus che ha imposto sino all’ottobre di quell’anno, momento della sua ripresa, la sospensione degli interrogatori.

A partire da tale momento, comunque, anche grazie al passaggio della sua tutela a persona del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri (la struttura periferica della Digos di Venezia si era dimostrata ben presto non attrezzata a gestire un personaggio di tale livello), la collaborazione di Carlo DIGILIO è ripresa in modo sempre più completo e determinato, pur risentendo del fatto che per diverso tempo, in ragione delle sue condizioni di salute, gli interrogatori non hanno potuto essere molto lunghi e nemmeno continuativi essendo egli ricoverato in una località assai distante dalla sede di questo Ufficio.

Sempre su un piano di esame critico delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO, per tutta la prima fase della sua collaborazione egli si è autorappresentato più come testimone che come corresponsabile degli avvenimenti che stava descrivendo, negando inoltre di essere soprannominato, all’interno della cerchia dei militanti, OTTO o ZIO OTTO (cfr. int.10.10.1994, f.4).

Tale circostanza, non irrilevante o secondaria, e la sua valenza vanno spiegate al fine di comprendere quali conseguenze implicasse il riconoscimento di tale soprannome o meglio nome in codice.

Nell’ultima istruttoria sugli attentati del 12.12.1969, condotta a Catanzaro dal g.i. dr. Emilio Le Donne nei confronti di Stefano DELLE CHIAIE e Massimiliano FACHINI (e conclusasi con assoluzione dibattimentale nonostante molte intuizioni dell’inquirente che solo oggi risultano confermate nella loro validità), Angelo IZZO e Sergio CALORE avevano riferito di aver appreso in carcere da Franco FREDA che colui che aveva fornito gli esplosivi utilizzati per gli attentati del 12.12.1969 era una persona non giovane, veneta e soprannominata ZIO OTTO.

Tale affermazione non poteva non essere considerata sincera e credibile, tenendo presente che i due collaboratori non conoscevano la persona che FREDA aveva nominato e quindi la confidenza era stata riferita dai due così come era stata ricevuta, senza la pretesa di accusare uno specifico soggetto.

Sulla base di un collegamento effettuato da Vincenzo VINCIGUERRA nella medesima istruttoria, ZIO OTTO era stato individuato in Carlo DIGILIO, ma non erano stati comunque possibili ulteriori sviluppi.

L’ammissione da parte di DIGILIO di essere ZIO OTTO avrebbe comunque comportato, nella prima fase delle sue dichiarazioni, il riconoscimento, in un modo o nell’altro, di responsabilità e di un coinvolgimento ben maggiore di quello che era disposto a rivelare.

Dinanzi a tale negazione, che costituiva un punto di snodo dell’intera ricostruzione, questo Ufficio ha ritenuto necessario disporre, soprattutto nella primavera/estate del 1995, una serie di audizioni a tappeto di tutti gli ex-militanti di Ordine Nuovo e dei N.A.R. disposti in qualche modo a testimoniare, al fine di rendere più saldo e inequivocabile il collegamento fra la persona di Carlo DIGILIO e il nome in codice OTTO.

L’iniziativa istruttoria ha avuto pieno successo in quanto molti testimoni hanno dichiarato di avere sentito parlare di OTTO (quadro comunque "coperto " e inaccessibile quasi a tutti, tanto da aver avuto rapporti diretti, alla fine degli anni ‘70, solo con CAVALLINI e non con gli altri militanti dei N.A.R.), fornendo di tale misterioso soggetto qualche dettaglio o particolare, tutti comunque concordanti per un verso o per l’altro, con la persona di Carlo DIGILIO.

Ci riferiamo alle testimonianze, fra l’altro, degli ex-militanti dei N.A.R.: Valerio FIORAVANTI (che aveva avuto modo di conoscere DIGILIO per qualche giorno in carcere, a Roma, dopo la sua espulsione da Santo Domingo, cfr. dep. 3.7.1995), Francesca MAMBRO (dep. 12.7.1995), Walter SORDI (26.8.1995), Stefano SODERINI (3.5.1994), Pasquale GUAGLIANONE (8.11.1995) nonchè di Enrico CARUSO e Lorenzo PRUDENTE, che erano stati in contatto con DIGILIO durante la sua latitanza (cfr. rispettivamente int. 23.8.1995 e 6.9.1995).

Ed ancora agli interrogatori di ex-ordinovisti quali Sergio CALORE (9.9.1995) e Paolo ALEANDRI (9.9.1995) e alle deposizioni di esponenti minori del gruppo mestrino (dep. CAMPANER, 27.4.1995, e Roberto MAGGIORI, 22.4.1995).

Dinanzi a tali testimonianze che portavano tutte ad individuare in DIGILIO l’OTTO legato prima a MAGGI e ZORZI e poi a Gilberto CAVALLINI, Carlo DIGILIO ha ammesso finalmente che questo era il suo soprannome (cfr. int. 4.1.1996, f.1) ed anche a partire da tale punto di svolta la sua collaborazione è decollata consentendo di acquisire per la prima volta alle indagini un quadro diretto e di grande spessore non solo sulla strage di Piazza Fontana e gli attentati precedenti (fatti in relazione ai quali, se non era stato il "fornitore" dell’esplosivo, DIGILIO ne aveva contribuito all’acquisto ed aveva poi svolto attività di consulenza), ma anche sulla strage dinanzi alla Questura di Milano, sulla strage di Brescia, sul ruolo della struttura informativa statunitense e in una miriade di episodi minori.

Più movimentata nella sua gestazione e nascita, ma più semplice e lineare sin dal momento dello svolgimento dei primi interrogatori rispetto a quella di Carlo DIGILIO, è stata la collaborazione di Martino SICILIANO.

Martino SICILIANO, quasi dimenticato militante di Ordine Nuovo di Mestre da quasi 20 anni, residente all’estero salvo brevi rientri nella sua città ove tuttora vive la sua famiglia, è entrato nell’istruttoria a seguito di alcune testimonianze rese da fonti e in circostanze del tutto diverse tra loro nel 1991/1992.

Gianluigi RADICE, amico di SICILIANO negli anni ‘70 (cfr. dep. 9.5.1991), Marco AFFATIGATO, l’ex-ordinovista toscano a lungo residente in Francia (dep. 29.4.1992) e il giornalista Gianni CIPRIANI, studioso della c.d. strategia della tensione e autore del volume "Sovranità Limitata" (dep. 7.11.1991) riferivano infatti con vari particolari che l’ex ordinovista mestrino, residente da molti anni a Toulouse, nella Francia meridionale, era molto probabilmente coinvolto nell’esecuzione degli attentati del 12.12.1969.

Identificato Martino SICILIANO ed effettuati i primi approfondimenti, egli veniva raggiunto da una prima informazione di garanzia per l’attentato dell’ottobre 1971 all’Università Cattolica di Milano e successivamente, il 25.8.1993, da un’altra per concorso in strage.

Nell’ottobre del 1993, il quotidiano La Nuova Venezia dava, con ampio risalto, la notizia di questa seconda informazione di garanzia.

Martino SICILIANO, che sino a quel momento aveva evitato di farsi rintracciare cercando di capire, attraverso contatti con gli ex camerati mestrini e soprattutto con Bobo LAGNA, cosa stesse accadendo, a seguito della pubblicazione dell’articolo perdeva immediatamente il suo lavoro di rappresentante di una ditta tedesca.

In preda a gravi difficoltà e profondamente angosciato, Martino SICILIANO cominciava a peregrinare per l’Europa e il Sud-America, incerto se accettare la proposta del funzionario del S.I.S.Mi. (che aveva già attivato un contatto, non riuscito, all’inizio del 1993) di scaricarsi la coscienza e collaborare con la Giustizia o se accettare la proposta, da parte di Delfo ZORZI, di aiuto e di una remunerativa attività lavorativa in ex Unione Sovietica o in Estremo Oriente, ovviamente quale ricompensa del suo silenzio.

Nel luglio 1994, quando era già in procinto di rientrare in Italia grazie ai pazienti contatti con lui riannodati dal funzionario del Servizio, proprio poche ore prima di imbarcarsi sull’aereo diretto a Milano veniva telefonicamente raggiunto da Delfo ZORZI a Toulouse e convinto a desistere dal presentarsi all’Autorità Giudiziaria e ad instaurare qualsiasi forma di collaborazione.

Delfo ZORZI riusciva, nei giorni successivi a "dirottare" SICILIANO a San Pietroburgo, pagandogli il biglietto e una prima somma di denaro, e qui SICILIANO incontrava Rudi ZORZI ed un altro emissario del gruppo i quali rinnovavano le offerte di aiuto economico e di una adeguata sistemazione lavorativa (sugli elementi di riscontro al soggiorno di Martino SICILIANO e Rudi ZORZI a San Pietroburgo, vedi nota S.I.S.Mi. in data 27.12.1994 trasmessa tramite nota R.O.S. in data 29.12.1994, vol.6, fasc.4, ff.25 e ss.).

Martino SICILIANO, tuttavia, non convinto della scelta di affidarsi interamente a Delfo ZORZI e temendo che il gruppo avesse in realtà preparato per lui qualche altra soluzione più definitiva, rientrava precipitosamente in Francia e da Toulouse riprendeva di sua iniziativa il contatto con il funzionario del S.I.S.Mi.

Infine, superate le ultime titubanze, il 18.10.1994 rientrava in Italia e rendeva a questo Ufficio il primo interrogatorio.

E’ doveroso ancora una volta sottolineare che l’azione di contatto e di convinzione svolta dal S.I.S.Mi. nei confronti di Martino SICILIANO è stata un’operazione di intelligence da manuale, condotta con grande professionalità, correttezza e umanità e il cui risultato ha superato addirittura le aspettative iniziali in quanto, stante la storica difficoltà di ottenere atteggiamenti di collaborazione nel mondo dell’estrema destra, il risultato inizialmente sperato era, al più, di ottenere da SICILIANO qualche contributo informativo poi autonomamente sviluppabile sul piano investigativo ed invece la completa collaborazione processuale dell’ex-militante di Ordine Nuovo ha superato le più ottimistiche aspettative.

La collaborazione processuale di Martino SICILIANO si è dispiegata prima con gli interrogatori dell’ottobre 1994 in cui egli, nel giro di tre giorni, ha fornito i fondamentali elementi di conoscenza in merito agli episodi da lui vissuti, poi, con altre due rapide "puntate" in Italia dalla lontana località ove vive con la famiglia, per interrogatori di precisazione (gennaio-marzo 1995) ed infine, dal marzo al dicembre 1996 e dal giugno all’agosto 1997, quando egli è rientrato per cospicui periodi di tempo in Italia, rientri consentiti dall’adozione del programma di protezione nel nostro Paese pur avendo egli mantenuto la residenza all’estero, con una serie continuativa ed estremamente proficua di interrogatori di approfondimento e di messa a fuoco di altri episodi che via via ritornavano alla memoria.

Si noti anche che le intercettazioni telefoniche, disposte da questo Ufficio sin dall’autunno 1994 sulle utenze in uso alle persone indicate da SICILIANO come referenti ancora attuali a Mestre di Delfo ZORZI, hanno evidenziato come i componenti del gruppo, resisi conto della sparizione di SICILIANO da Toulouse e quindi del suo probabile e paventato rientro in Italia per testimoniare, abbiano messo in atto un tentativo disperato, contattando i parenti di SICILIANO e tutti i suoi possibili collegamenti, di scoprire ove egli si trovasse e quindi di farlo desistere dal suo atteggiamento di collaborazione (cfr. in particolare le telefonate fra il 28 ottobre e il 5 novembre 1994 intercorse tra Piercarlo MONTAGNER e Delfo ZORZI o persone comunque legate a quest’ultimo, trascritte e allegate alla nota R.O.S. in data 10.11.1994, vol.46, fasc.1, ff.131 e ss.).

Tale tentativo non è riuscito in quanto nel giro di pochissimi giorni, in base ad un programma ben coordinato, Martino SICILIANO aveva reso a Milano gli interrogatori fondamentali ed era poi stato fatto rientrare non in Francia, ma nella lontanissima località ove vive la sua nuova famiglia, difficilmente raggiungibile dagli emissari del gruppo.

L’azione di aiuto e di tutela immediata prestata in quei giorni dalla Direzione del S.I.S.Mi., con provvedimenti protocollati e verificabili (cfr. vol.45, fasc.1 e 3), dovrebbe quindi, nel contesto dell’azione complessiva svolta, essere, anche come momento di concreta rottura con scelte ben diverse verificatesi negli anni ‘70 e ‘80, motivo di elogio e non delle critiche che sono state mosse.

Si ricordi, del resto, che anche dalla successive intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte dalla Procura di Milano emerge come il gruppo si sia gravemente rammaricato di non aver agito, nell’occasione, più tempestivamente degli uomini dello Stato, impedendo a qualsiasi prezzo la diserzione dell’ex-camerata.

Peraltro, nel medesimo contesto, uno dei fiancheggiatori di Delfo ZORZI si è espresso affermando che, in alternativa ad un intervento di recupero che si era dimostrato troppo lento ed inefficace, il "problema" Martino SICILIANO poteva comunque essere risolto con un colpo di pistola calibro 9, affermazione questa che rende a posteriori comprensibili le sensazioni per le quali, non a torto, Martino SICILIANO aveva avuto paura di fidarsi del tutto delle proposte dei suoi ex-camerati.

La collaborazione di Martino SICILIANO, a differenza di quella di Carlo DIGILIO, non ha creato particolari difficoltà in quanto egli non ha avuto remore o titubanze alcune a riferire quanto a sua conoscenza e incorrendo, al più, in qualche errore di data dovuto alla lontananza nel tempo dei fatti e riuscendo a mettere a fuoco alcuni avvenimenti solo nei più continuativi e approfonditi interrogatori, svolti nel corso del 1996, durante la sua più lunga permanenza in Italia.

Solo Martino SICILIANO, militante di medio livello ma comunque presente in tutte le situazione anche per i numerosi rapporti amicali che coltivava, è riuscito a fornire dall’interno un quadro organico e vivido del mondo di Ordine Nuovo, mettendo sovente a fuoco i rapporti interpersonali fra i vari militanti e simpatizzanti in grado di condizionarne le scelte operative.

Martino SICILIANO è stato escluso, dopo gli episodi di Trieste e di Gorizia, dalla fase conclusiva della strategia degli attentati, forse perchè non abbastanza duro e determinato, forse perchè la sua presenza sarebbe stata pericolosa essendo egli già sotto osservazione da parte quantomeno del personale della Questura di Trieste che lo aveva individuato quale uno dei probabili autori dell’attentato alla Scuola Slovena e lo aveva sottoposto ad un interrogatorio a sorpresa pochi giorni dopo il fatto (cfr. int. SICILIANO, 22.9.1996 ff.1-2 e allegato verbale di interrogatorio in data 6.10.1969 dinanzi a personale della Questura di Trieste).

Ciò, tuttavia, non gli ha impedito di comprendere, prima e dopo i fatti, come si vedrà nel prosieguo di questa ordinanza, la dinamica di quanto si stava preparando quantomeno a partire dall’estate 1969.

Martino SICILIANO, presente non solo agli episodi eversivi ma anche alle manifestazioni di piazza, alle riunioni del circolo di Ordine Nuovo di Via Mestrina, agli addestramenti nella palestra di arti marziali e agli incontri di carattere amicale, è stato soprattutto il primo a scolpire il carattere e il carisma del pur giovanissimo Delfo ZORZI, introverso, determinato, apparentemente privo di emozioni e capace di un grande autocontrollo, appassionato di esoterismo ed insensibile alle conseguenze della violenza tanto da sottoporre ad un duro pestaggio il più debole camerata, Guido BUSETTO, per una piccola mancanza (cfr. int. SICILIANO, 20.10.1994, f.8 e, a conferma, dep. BUSETTO, 11.11.1994 f.3 e 14.4.1995 f.3) e che coltivava interesse solo per la parte meno "compassionevole" delle filosofie orientali.

Caratteristiche, queste, confermate poi da tutti gli altri testimoni dell’ambiente e che non saranno disgiunte, in seguito, da un forte intuito per le attività commerciali, intuito che ha consentito di costruire quel ragguardevole e diffuso patrimonio commerciale e finanziario che non poco ha pesato sugli sviluppo di questa indagine e delle indagini collegate.

4

IL COLPO DI MAGLIO CONTRO LE INDAGINI:

L’ "OPERAZIONE CECCHETTI"

Una fase estremamente delicata delle indagini, contestuale alla ripresa della possibilità di interrogare Carlo DIGILIO e all’avvio da parte del personale del R.O.S. di un programma di audizioni di numerosi e importanti testimoni relativi anche all’attività delle strutture statunitensi, è stato purtroppo contrassegnato da una delle più importanti operazioni di confusione e disinformazione, purtroppo non adeguatamente contrastata dagli Uffici preposti, che abbiano toccato negli ultimi decenni le indagini in materia di eversione di destra.

Il 28.10.1995, preceduto da una serie di allarmi e messaggi via via segnalati da questo Ufficio alla Procura di Milano, usciva su "La Nuova Venezia" e altri quotidiani veneti uno scoop esclusivo firmato da Giorgio CECCHETTI, cronista giudiziario di Venezia, dal titolo con ampio risalto sulla prima pagina "PIAZZA FONTANA: L’ULTIMO DEPISTAGGIO.

Lo scoop, prendendo spunto dal tardivo e generico esposto del dr. Carlo Maria MAGGI e da alcuni accertamenti effettuati dal dr. Felice Casson in merito agli aspetti formali della tutela garantita a Martino SICILIANO (non è chiaro in base a quale competenza, trattandosi di situazioni non verificatesi a Venezia) ed acquisendo, non si sa in quale modo, tali iniziali notizie (si pensi alla riservatezza che dovrebbe contraddistinguere l’attività del Comitato di Controllo sui Servizi di Sicurezza cui il dr. Casson aveva appena inviato una missiva), tentava, senza mezzi termini e senza alcuna verifica dell’effettivo lavoro in corso presso questo Ufficio, di screditare frontalmente e delegittimare i risultati in via di acquisizione nella presente istruttoria.

Il giornalista "avvisava" con clamore l’intero ambiente veneto e nazionale che era in corso ad opera del S.I.S.Mi. l’ "ultimo depistaggio" sulla strage di Piazza Fontana, che sarebbe stato scoperto che Martino SICILIANO era stato aiutato e tutelato dal S.I.S.Mi. (curiosa "scoperta", posto che l’azione del S.I.S.Mi. era già documentata in base alle comunicazioni trasmesse dalla Direzione del Servizio, momento per momento, nei fascicoli dell’istruttoria condotta da questo Ufficio) al fine di "indirizzare in una direzione invece che in un’altra le indagini".

Tutto ciò sarebbe addirittura avvenuto per "impedire che fosse dato un nome e un volto a chi ha organizzato il vile attentato di Piazza Fontana".

Perdipiù, con un’autentica opera di disinformazione, l’articolo aggiungeva che i pentiti sarebbero stati "l’uno contro l’altro", in particolare Martino SICILIANO avrebbe "scagionato tutti coloro che erano stati indicati come autori della strage da altri "pentiti" neofascisti", mentre DIGILIO avrebbe addirittura accusato SICILIANO di avere confezionato la bomba scoppiata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura.

Il giornalista concludeva affermando che era in corso un’azione in sostanza simile a quella che negli anni ‘70, ad opera del S.I.D., aveva visto la fuga di Marco POZZAN e Guido GIANNETTINI e che a tale situazione stavano fortunatamente ponendo rimedio altri Uffici Giudiziari, diversi ovviamente dall’Ufficio Istruzione di Milano sulle cui indagini, così come sugli operanti del R.O.S., gravavano sospetti ed accuse.

Tale cumulo di falsità e distorsioni, pubblicate perdipiù senza che il giornalista operasse alcuna verifica, provocavano un effetto devastante sulle indagini anche in ragione del fatto che i quotidiani ove era apparso l’articolo sono pubblicati nell’area veneta, ove risiede la maggior parte degli imputati e dei testimoni.

Veniva messa in pericolo la credibilità, la prosecuzione della collaborazione e forse anche la sicurezza di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO (il primo, all’epoca, ancora privo di un formale programma di protezione, il secondo ripresosi proprio in quei giorni dal grave ictus che lo aveva colpito), veniva con tale opera di delegittimazione resa impossibile o messa in grave difficoltà la prosecuzione delle audizioni già in corso di alcuni testimoni e l’audizione di testimoni sino a quel momento non sentiti in quanto costoro non sapevano più, trovandosi di fronte a personale del R.O.S. Carabinieri, se stavano avendo a che fare con onesti e impegnati investigatori o con pericolosi depistatori, veniva frustrata la scelta e la disponibilità offerta, forse per la prima volta, dal S.I.S.Mi. di dare un prezioso contributo informativo in tale tipo di indagini.

Ne usciva rafforzato e più compatto al proprio interno solo l’ambiente ex -ordinovista che da tempo (cfr. quanto esposto al capitolo 19) stava meditando una mossa azzardata, ma resa inevitabile dal progredire delle indagini, finalizzata a colpire soprattutto il personale del R.O.S. che stava giungendo al cuore dell’attività delle cellule eversive di Mestre, Venezia e Milano.

Gli ispiratori dell’articolo, diversi comunque dagli ex-ordinovisti e interni probabilmente ad ambienti istituzionali, forse anche a quelli che a parole hanno sempre sostenuto di volere la verità sulla strategia della tensione, ritenevano probabilmente, con una simile azione di attacco e di discredito, di provocare, anche a seguito delle inevitabili reazioni di questo Ufficio e degli operanti, una catena di polemiche tali da distruggere in poche settimane le indagini.

Non si dimentichi, del resto, che solo la presente istruttoria, oltre a far venire alla luce le modalità e i materiali esecutori di molti attentati, stava dirigendosi, con elementi di prova sempre più consistenti, verso l’individuazione delle collusioni in tali attentati e delle attività di "controllo" del nostro Paese, negli anni della strategia della tensione, da parte delle strutture dell’Alleanza Atlantica, verità forse auspicata in anni lontani quando, peraltro, non era possibile dimostrarla, ma ormai scomoda, per molteplici ragioni storiche e politiche, al tempo presente.

Fortunatamente il tentativo di delegittimazione non raggiungeva il suo scopo e nel giro di qualche mese, seppure con difficoltà e sacrifici inauditi, il fronte delle indagini si ricostituiva permettendo via via l’acquisizione di nuovi e importanti elementi di prova e di conoscenza.

La gravità e la strumentalità dell’operazione ora descritta è testimoniata pagina per pagina dagli atti dell’istruttoria e da quanto esposto nella presente sentenza-ordinanza.

Appare tuttavia doveroso riportare integralmente in questa sede quanto Martino SICILIANO ha voluto verbalizzare, in uno dei primi interrogatori resi dopo l’operazione dell’ottobre 1995, in merito alla storia, anche personale, della sua collaborazione in quanto tale racconto testimonia la linearità e la sincerità della sua scelta processuale ed è la migliore risposta all’operazione che è stata tentata:

"""Nell'autunno del 1995, quando mi trovavo all'estero con mia moglie e mia figlia, ebbi eco dall'Italia, ed in particolare da mio fratello, del fatto che sulla stampa di Venezia e in televisione erano usciti servizi che mi riguardavano e mi attaccavano pesantemente.

Rientrato in Italia circa due settimane or sono, ho potuto leggere con attenzione gli articoli pubblicati nell'ottobre/novembre 1995, in particolare l'articolo a firma Giorgio Cecchetti pubblicato su "La Nuova Venezia" il 28.10.1995.

Leggendo questo articolo ho provato molta amarezza sul piano personale in quanto ciò ha ferito e danneggiato non solo me, ma anche la mia famiglia che vive a Mestre e posso dire che il contenuto dell'articolo è veramente falso, vile e disgustoso.

Del resto fu proprio il giornalista Giorgio Cecchetti, per primo, a colpirmi pubblicando nell'ottobre del 1993 un articolo sul quotidiano "La Repubblica", rendendo noto che ero stato indiziato per la strage di Piazza Fontana.

Tale articolo, ripreso dalla stampa nazionale e anche dalla televisione, ebbe l'effetto, come ho già spiegato, di farmi perdere il posto di lavoro e di privarmi di ogni forma di sostentamento.

All'epoca, infatti, io lavoravo come rappresentante e persona di fiducia della società tedesca FRANKE & RUHRHANDEL, società di importazione in Germania di articoli sportivi e da campeggio.

Io, per questa società, seguivo gli acquisti, i pagamenti, i carichi e quando veniva in Italia personale direttivo della società, svolgevo anche l'attività di interprete e di accompagnatore presso le ditte italiane.

Ovviamente, pochi giorni dopo le notizie di stampa fui convocato a MECKENHEIM, vicino a Bonn, dalla sede centrale e mi fu detto che a causa della pubblicità fatta sul mio nome non mi era più possibile lavorare per loro.

Riconsegnai quindi la vettura e rientrai in Francia.

Mi ritrovai quindi in una situazione di enorme difficoltà e come ho già dichiarato nei miei primi interrogatori, contattai MONTAGNER lasciandogli il mio numero di telefono francese, e chiedendogli di essere contattato da Delfo ZORZI.

Questi mi chiamò dopo qualche giorno, lasciandomi anche un suo numero di fax, ma non di telefono, e mi esortò a non presentarmi in Italia, a non cedere, poichè egli avrebbe risolto tutti i miei problemi legali e di lavoro.

Concordammo, come ho già detto, un appuntamento a Parigi nel maggio del 1994, dove rimanemmo insieme per qualche ora.

Dopo qualche giorno egli mi riconfermò il suo pieno appoggio purchè non rientrassi in Italia o, al più, rendessi dichiarazioni del tutto reticenti accettando eventualmente di essere sentito solo in Francia.

Dopo qualche settimana mi ricontattò e mi disse che una ditta a lui collegata mi avrebbe mandato un invito per recarmi a San Pietroburgo, invito necessario affinchè io potessi ottenere un visto d'ingresso dal Consolato dell'ex/URSS a Marsiglia.

Mi fece avere, come ho già detto, sul conto di mia moglie una somma equivalente a 600 o 700 dollari che mi permise di recarmi a Marsiglia per ottenere visto e poi a Zurigo dove avrei trovato un biglietto aereo prepagato per San Pietroburgo.

Il mio viaggio a San Pietroburgo subì comunque un ritardo perchè io ero incerto se accettare o meno le offerte di ZORZI.

Faccio del resto presente che prima di incontrare ZORZI a Parigi io avevo telefonato al dr. Madia (nota Ufficio: un funzionario del S.I.S.Mi.), che avevo conosciuto a Mestre e che mi aveva fornito il numero del suo cellulare, manifestandogli il mio disagio e chiedendogli quali sarebbero state eventualmente le condizioni e gli esiti di una mia presentazione in Italia.

Ovviamente non gli dissi, in questa occasione, che ero già stato contattato da ZORZI.

Infatti, già dalla primavera del 1994 io vivevo in uno stato di angoscia poichè le proposte di ZORZI e le sue telefonate chilometriche e piene di allusioni non mi convincevano affatto e dentro di me mi sentivo molto combattuto e molto incerto sulla strada da scegliere.

Infatti, se da un lato ZORZI mi prometteva un avvenire sicuro sul piano lavorativo e anche su quello legale, nello stesso tempo percepivo da parte di quell'ambiente un senso di pericolo in quanto non sapevo che fine avrei fatto una volta messomi nelle loro mani.

Infatti per loro ero l'anello debole della catena e percepivo nettamente questa sensazione e non sapevo se mi avrebbero effettivamente aiutato o se si sarebbero poi in qualche modo liberati di me.

Sapevo inoltre da mio fratello che a Mestre Bobo LAGNA e Piercarlo MONTAGNER seguivano costantemente i miei movimenti, cercavano di acquisire notizie ed esercitavano una forte di pressione parallela a quella che mi proveniva da ZORZI.

Nonostante questi embrionali contatti che avevo spontaneamente riattivato con il dr. Madia, andai lo stesso a San Pietroburgo dopo il primo spostamento della prenotazione e mi incontrai appunto con Rodolfo ZORZI che era accompagnato dal responsabile della ditta QUATZAR che io già conoscevo come ex cameriere a Mestre.

Questa persona aveva preso il posto di Bobo LAGNA che nel frattempo era deceduto.

A San Pietroburgo mi furono rinnovate le offerte di lavoro, in quella zona, come uomo di fiducia della catena commerciale, con uno stipendio non eccessivamente elevato, ma con un tenore di vita molto più alto in quanto l'albergo in cui avrei alloggiato costava circa 400 dollari al giorno solo per la camera.

Mi ero reso conto, del resto, che ZORZI poteva mettere a posto chi voleva in quanto il mestrino che accompagnava Rodolfo ZORZI a San Pietroburgo era stato in passato semplicemente un cameriere in una pizzeria ed era ora responsabile di una società commerciale.

Mi ero anche reso conto che a ZORZI faceva capo, in Russia, una grossa catena commerciale poichè Rodolfo aveva portato per il punto vendita di San Pietroburgo una somma liquida di 50 mila dollari e parecchie valige di occhiali da sole "firmati", introvabili in quella città.

Avevano altri punti vendita a Kiev e a Mosca che dovevano essere contattati in quei giorni da Rodolfo.

Tutta la situazione, comunque, non mi convinceva e avevo paura.

Fui colto da una crisi di paura, non diedi una risposta definitiva e dissi che per il momento avrei dovuto comunque rientrare in Francia e così feci.

Quando a San Pietroburgo mi sentii male, ZORZI, contattato al telefono dal mestrino che accompagnava Rodolfo, tentò di convincermi di rimanere in Russia dove avrei potuto farmi curare a sue spese.

Io, utilizzando come scusa il fatto che mi sarei trovato più a mio agio presso medici francesi, non accettai di rimanere.

Rientrato in Francia mi ricoverai in una clinica di Toulouse per tutto il mese di agosto, anche se ZORZI mi aveva subito telefonato, appena ero giunto a casa, per sapere cosa intendessi fare e io non gli risposi prendendo tempo.

All'inizio di settembre ZORZI mi richiamò e mi disse che se non mi andava bene San Pietroburgo avrei potuto avere un'altra sistemazione in Giappone, dalle parti di Osaka dove lui aveva un'attività commerciale.

A questo punto capii che ero al bivio e che dovevo scegliere.

ZORZI mi disse che lui non aveva problemi, ma che ero io, persona molto più scoperta, ad averne e compresi che rimanendo in Francia ZORZI non mi avrebbe mollato.

Dovevo quindi scegliere e telefonai al dr. Madia, verso la metà di settembre, e gli dissi che ero disponibile a incontrarlo a Toulouse per discutere la mia situazione e valutare il mio rientro in Italia affidandomi alle Autorità del mio Paese.

Faccio presente che già prima di partire per San Pietroburgo avevo comprato il biglietto per rientrare in Italia, e precisamente per l'aereoporto di Venezia dove avrei dovuto incontrare il dr. Madia, ma proprio poche ore prima di imbarcarmi, alle 4 del mattino ora di Toulouse, quando avevo già la valigia pronta, ZORZI mi telefonò dal Giappone e riuscì a convincermi a non partire dicendomi che se mi fossi presentato in Italia sarei certamente stato arrestato, nonostante le garanzie che mi erano state fornite e mi rammentò, con velate minacce, che non avrei dovuto azzardarmi a testimoniare.

In settembre, invece, la mia decisione era sostanzialmente presa e accettai l'incontro con il dr. Madia che si svolse a Toulouse alla fine di settembre.

Il dr. Madia, giungendo all'aereoporto, mi avvicinò da solo e molto correttamente mi disse che viaggiava con un collega che io avrei potuto decidere di incontrare o meno; io accettai di incontrare entrambi.

Il loro comportamento rafforzo la mia fiducia e accettai di spiegare loro, ovviamente per sommi capi tutti gli episodi e le circostanze in cui ero stato coinvolto negli anni '70 e mi resi quindi disponibile a rientrare in Italia nel giro di pochissimo tempo.

Rientrai infatti in Italia nell'ottobre 1994, ma nelle ultime settimane della mia permanenza a Toulouse ZORZI continuò a tempestarmi di telefonate e io cercavo di rispondere evasivamente.

Egli mi telefonò addirittura la sera in cui ero appena partito per l'Italia e mia moglie rispose che io ero partito e che non sapeva dove fossi.

Certamente ZORZI comprese che io avevo accettato di testimoniare e da quel momento mise tutto l'ambiente sulle mie tracce.

In merito a quanto avvenne in questo periodo e alla mia vicenda personale intendo fermamente sottolineare quanto segue. Io ero profondamente turbato sia perchè avevo compreso che in qualche modo ero oggetto dell'istruttoria e che su di me rischiava di pesare indefinitamente il sospetto di essere l'autore materiale di un massacro di cui personalmente non ero invece responsabile, con le conseguenze che ne derivavano anche su mio padre anziano e sul resto della mia famiglia.

D'altronde sin dalla fine del 1969, come ho già avuto modo di dire nell'interrogatorio in data 20.10.1994, ho provato rimorso e turbamento essendomi reso conto di avere partecipato ad una progressione di attività criminose e di attentati che, pur senza la mia successiva partecipazione, si era conclusa con fatti gravissimi.

Mi sono sentito quindi, in qualche forma, moralmente responsabile e umanamente coinvolto, nonostante il mio distacco da moltissimo tempo da quell'ambiente.

Le pressioni di ZORZI e delle persone a lui legate mi facevano temere che io non andassi incontro ad una sistemazione lavorativa, ma a qualcosa di ben diverso.

Per questi motivi, nonostante molte titubanze e tentennamenti, nella primavera del 1994 riaprii il contatto con il dr. Madia e alla fine decisi di rientrare.

Il dr. Madia mi era parso subito come una persona estremamente positiva anche sul piano umano, molto preparata ed ebbe con me un comportamento sempre corretto e lineare.

Mi disse che se io avessi accettato di dare informazioni utili, e in prospettiva anche di collaborare formalmente con l'Autorità Giudiziaria, avrei dovuto dire esclusivamente la verità, dire tutto quanto a mia conoscenza per avervi partecipato direttamente o per averlo nell'ambiente in un contesto di affidabilità ed attenermi strettamente a questo tipo di comportamento.

Da parte mia risposi che se avessi scelto tale via mi sarei attenuto a tale comportamento e infatti così ho fatto, raccontando tutto quanto a mia conoscenza senza alcuna reticenza e nel contempo senza inventare o aggiungere nulla.

Credo che le conferme che sono giunte, come ho appreso durante gli interrogatori, da altri imputati o testimoni confermino ciò e d'altra parte alcune imprecisioni soprattutto nei primi interrogatori, quando a distanza di tanto tempo tante circostanze si affollavano nella mia memoria, ritengo che testimonino la mia spontaneità e sincerità.

Ovviamente ho chiesto e ho avuto garanzia, qualora avessi scelto questa strada, di un aiuto economico in quanto mi trovavo in una situazione disperata avendo perso il lavoro e non avendo più un posto dove stare, dal momento che la mia residenza francese era facilmente rintracciabile dagli elementi del mio vecchio ambiente.

Faccio presente che una volta ottenuto tale aiuto economico, dall'ottobre 1994, avendo fissato la mia residenza in un luogo molto lontano per motivi familiari e di sicurezza, me la sono cavata da solo senza alcuna ulteriore misura di protezione e tenendomi solo periodicamente in contatto con i due funzionari che avevo conosciuto.

Non ho mai saputo, nè mi interessa saperlo, per quale struttura dello Stato lavorassero il dr. Madia e il Capitano Giraudo.

Per me sono due funzionari dello Stato che hanno dimostrato correttezza, notevole competenza, e profonde doti di umanità richiamandomi anche, e sempre, ai valori morali della mia scelta.

Ciò è avvenuto anche nei momenti più difficili tenendo presente che, dopo la pubblicazione dell'articolo su La Nuova Venezia, la mia situazione familiare nel Paese in cui mi trovavo si era notevolmente aggravata e sono riuscito per molti mesi a reggere l'impatto psicologico di questa situazione solo grazie ai contatti telefonici rassicuranti a tranquillizzanti con il personale del R.O.S. carabinieri di Roma.

Nonostante la rabbia ho accuratamente evitato di rilasciare interviste o mettermi in contatto con giornalisti, in quanto non volevo mettere in difficoltà lo sviluppo delle indagini e volevo mantenere, come sentivo mio dovere, un comportamento lineare e sereno.

L'articolo del giornalista Cecchetti è stato quindi veramente un episodio vergognoso, punto conclusivo di un accanimento che questo giornalista ha mostrato nei miei confronti e nei confronti della mia famiglia, anche con articoli pubblicati in anni precedenti a questa istruttoria.

Oltre a colpire me, come mi sono reso conto tornando in Italia, questo articolo ha colpito anche il lavoro della Giustizia in quanto essendo pubblicato su giornali veneti ha certamente spaventato molti possibili testimoni che potevano certamente aiutare le indagini ed ha invece fatto il gioco dei vecchi elementi di Ordine Nuovo che hanno le maggiori responsabilità in queste vicende.

Ho trovato estremamente ingiusto che quanto scritto dal Cecchetti, la cui amicizia di lunga data con il P.M. di Venezia che si occupa di questa materia è a Mestre e Venezia di dominio pubblico, non sia stata smentita da tale Autorità che pure aveva il dovere di farlo e la possibilità di informarsi delle modalità della mia collaborazione, che certo non è stato un depistaggio, ma un aiuto offerto alle Autorità inquirenti.

Ho provato anche delusione per il comportamento della Procura di Milano che, da quanto si legge sull'articolo del Cecchetti, sembra anch'essa non avere compreso la mia collaborazione nonostante gli interrogatori che ho reso anche ad essa e che perdipiù, nel mese di ottobre 1995, nel corso di un interrogatorio in presenza di un ufficiale dei Carabinieri, mi aveva garantito l'avvio di una forma di protezione all'estero, cosa che non è mai avvenuta.

Dal canto mio sono invece rimasto sempre lealmente disponibile a rendere all'Autorità Giudiziaria fra cui anche al Giudice Istruttore di Milano, dr. Lombardi, tutti gli interrogatori che fossero ritenuti necessari, compresi i confronti con altre persone del vecchio ambiente ordinovista""".

(int .SICILIANO, 29.3.1996, ff.2-8).

Si noti che il racconto di Martino SICILIANO in merito alle sue peripezie dopo che la sua incriminazione era divenuta di dominio pubblico, al tentativo del gruppo di Delfo ZORZI di prevenire ogni sua possibile testimonianza e alla sua formale scelta di collaborazione sono in perfetta sintonia con quanto documentato dal S.I.S.Mi. (che ha evitato ogni attività di carattere solamente "informale" e quindi non controllabile) momento per momento, contatto per contatto, telefonata per telefonata nelle note via via trasmesse dal Funzionario operante alla Direzione del Servizio, dalla Direzione del Servizio al Reparto Eversione del R.O.S. e da tale reparto a questo Ufficio (vedi vol.45, fasc.1).

Tale doppio riscontro, testimoniale e documentale, testimonia la trasparenza dell’azione svolta dal S.I.S.Mi., che costituisce in tale settore il migliore esempio di azione di intelligence che sino a questo momento sia mai stato condotto dal nostro Paese.

I danni ai potenziali risultati delle indagini in corso fra il 1995 e il 1996 cagionati dall’operazione Cecchetti e dai suoi ispiratori non potranno comunque essere mai calcolati nè riparati e in questo senso il rinvio a giudizio del giornalista, richiesto e ottenuto nella primavera del 1997 dalla Procura di Padova anche a seguito di querela presentata dal Direttore del S.I.S.Mi. dell’epoca, generale Sergio Siracusa (caso, questo, unico nella recente storia giudiziaria), per rispondere del reato di diffamazione aggravata, risarcisce solo in parte e solo sul piano storico/morale l’indagine dei danni subìti.

P A R T E S E C O N D A

I NUOVI ELEMENTI EMERSI SUL GRUPPO "LA FENICE"

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LA POSIZIONE DI PIETRO BATTISTON

Pietro BATTISTON, componente storico del gruppo La Fenice e uomo di fiducia, al pari di Nico AZZI, di Giancarlo ROGNONI, si era reso latitante quando, il 14.12.1973, in un’autovettura custodita all’interno del garage Sanremo di Via Zecca Vecchia a Milano, di proprietà del padre Pio e in cui egli stesso lavorava, era stato rinvenuto un piccolo arsenale di armi ed esplosivo fra cui una saponetta di tritolo da 500 grammi del tutto identica a quella utilizzata da Nico AZZI, nell’aprile 1973, per commettere il fallito attentato sul treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.1 e ss.).

Una volta revocato il mandato di cattura, a seguito della fortunosa assoluzione per insufficienza di prove, Pietro BATTISTON era rientrato in Italia dalla Spagna, ove era rimasto a lungo latitante a Madrid in stretto contatto con Giancarlo ROGNONI, aveva svolto il servizio militare a Mestre (riallacciando fra l’altro, in quel periodo, i rapporti con Carlo DIGILIO già conosciuto a Milano) e si era infine trasferito definitivamente in Venezuela ove aveva impiantato, collaborando a lungo con Roberto RAHO, un’attività commerciale nel campo delle carni surgelate.

Nel corso della prima fase dell’istruttoria era emerso che l’esplosivo rinvenuto nel garage Sanremo apparteneva effettivamente a Pietro BATTISTON che lo custodiva per conto del gruppo La Fenice dopo l’arresto di AZZI e la fuga di ROGNONI (cfr. dep. Biagio PITARRESI, 10.11.1992, f.2 e capitolo 11 della sentenza-ordinanza depositata in data 18.3.1995).

Nel corso di questo secondo troncone dell’istruttoria è emerso, per ammissione dello stesso BATTISTON e a seguito delle conferme di Carlo DIGILIO, Francesco ZAFFONI, Giuseppina GOBBI, titolare della trattoria Lo Scalinetto di Venezia, e altri testimoni, che egli, a partire dall’inizio del 1974, era rimasto per molti mesi latitante a Venezia, grazie all’aiuto del dr. MAGGI, pranzando alla trattoria Lo Scalinetto, punto di riferimento del gruppo, e abitando nella sede dismessa del circolo Il Quadrato, già sede di Ordine Nuovo di Venezia, messagli a disposizione dallo stesso MAGGI e da Carlo DIGILIO (cfr. ampiamente capitolo 22 della presente sentenza-ordinanza).

Nel giugno 1974, Pietro BATTISTON era stato inviato, sempre dai camerati veneziani, in Grecia, nei pressi di Atene, ove, in una villetta, avevano trovato rifugio altri ordinovisti italiani, prevalentemente veronesi, e l’anno successivo egli aveva raggiunto prima Barcellona e poi Madrid riunendosi così a Giancarlo ROGNONI, Pierluigi PAGLIAI, Francesco ZAFFONI e agli altri italiani latitanti.

Nel corso delle indagini erano via via emersi altri, anche se frammentari, elementi concernenti il ruolo svolto da Pietro BATTISTON sino all’inizio degli anni ‘80.

Sergio CALORE aveva ricordato che BATTISTON aveva reso possibile il contatto fra Giancarlo ROGNONI, ormai latitante, e gli altri coimputati del gruppo La Fenice, rimasti in Italia, raggiungendo ROGNONI nei luoghi in cui si trovava (cfr. int. CALORE al G.I. di Bologna, 22.2.1994, f.2).

Mauro MARZORATI, arrestato per l’attentato al treno del 7.4.1973, ha ricordato che BATTISTON gli aveva confidato di essere stato fra i responsabili del fallito attentato del marzo 1973 alla COOP di Bollate, citato nel "documento AZZI" e di cui si è ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza (cfr. dep. MARZORATI, 31.3.1995, ff.2-3 e capitoli 10-11 dell’ordinanza conclusiva del proc. 721/88F).

Francesco DE MIN, altro componente minore del gruppo La Fenice, ha rievocato un’altra circostanza e cioè che Nico AZZI, durante la comune detenzione, aveva ritenuto che parte dell’esplosivo sequestrato nel garage di BATTISTON fosse stato parte di quello occultato nel deposito di Celle Ligure ed eventualmente da questi recuperato, confermando così che BATTISTON, all’interno del gruppo, era l’uomo incaricato della custodia e della gestione degli esplosivi (cfr. int. DE MIN, 18.3.1995, f.3).

Francesco DE MIN aveva del resto appreso, sempre all’interno del gruppo, che BATTISTON aveva in precedenza fatto sparire dell’esplosivo e per tale ragione era entrato in rotta di collisione con Nico AZZI (int. citato, f.3).

Gianni FERORELLI, altro militante della destra milanese, in contatto con il gruppo di ROGNONI, aveva ricevuto da Pietro BATTISTON una pistola cal.7,65 e aveva saputo che questi aveva detenuto per un certo periodo di tempo dell’esplosivo di proprietà di Giancarlo ESPOSTI e Angelo ANGELI, e cioè in sostanza dell’organizzazione S.A.M., contigua a quella di ROGNONI (dep. FERORELLI, 10.3.1995, f.3).

Marco CAGNONI, altro componente del gruppo La Fenice, "sopravvissuto" agli arresti dell’aprile 1973, ha confermato che Pietro BATTISTON, entrato in latitanza, era rimasto per diverso tempo a Venezia, dove lo stesso CAGNONI gli aveva fatto visita, ed era stato poi avviato in Grecia dai camerati veneziani stabilendosi ad Atene in una villetta già occupata anche da Elio MASSAGRANDE e altri latitanti italiani (dep. 15.1.1996, f.2).

Ma soprattutto CAGNONI ha ricordato che nel periodo precedente, quando ROGNONI era ancora latitante in Svizzera, egli si era recato nella zona del Passo San Bernardino per incontrarlo e qui, oltre a ROGNONI, aveva trovato Pietro BATTISTON, certamente incaricato di tenere in modo più stabile i contatti fra i vari militanti del gruppo dispersi a causa degli arresti e delle indagini giudiziarie in corso (cfr. dep. citata, f.3).

Carlo DIGILIO, forse consapevole che l’ammissione dei suoi contatti con il militante milanese avrebbe necessariamente imposto un ulteriore ampliamento delle sue rivelazioni, sino a quel momento contenute ad un numero limitato di episodi, ha ammesso solo il 6.11.1995 di avere conosciuto BATTISTON e di averlo incontrato sia a Milano sia a Venezia sia a Madrid ed infine a Caracas in Venezuela (int. 6.11.1995, f.2), di averlo ospitato in particolare per alcuni giorni nella sua casa di S.Elena quando era latitante a Venezia e di essersi di rimando rivolto a lui per cercare di rintracciare Elio MASSAGRANDE a sua volta latitante in Paraguay (int.10.11.195, f.2).

Da BATTISTON e Roberto RAHO, Carlo DIGILIO era stato anche aiutato economicamente durante il periodo della sua latitanza a Santo Domingo (int.7.8.1996 f.3 e 3.11.1996 f.2).

Sulla base di tali elementi questo Ufficio aveva emesso nei confronti di Pietro BATTISTON due mandati di comparizione, uno per i reati di cui agli artt. 270 e 306 c.p. in relazione alla sua attività nel gruppo La Fenice e l’altro per il reato di cui all’art.285 c.p. in relazione all’attentato al treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.84 e ss. e 94 e ss.), provvedimenti rimasti tuttavia senza esito in quanto BATTISTON risultava risiedere in Venezuela in una località sconosciuta.

La figura di BATTISTON, mai interrogato da alcuna Autorità Giudiziaria, rimaneva quindi sfumata e sfuggente nonostante il ruolo non secondario avuto all’interno dell’area di estrema destra.

La svolta avveniva nel settembre 1995, grazie ad una intercettazione ambientale disposta dal P.M. di Venezia, dr. Casson, nell’abitazione di Roberto RAHO, nell’ambito di un procedimento relativo ad un traffico di autovetture rubate che vedeva coinvolti vari ex-ordinovisti.

BATTISTON e RAHO iniziavano, infatti, a discutere dell’evoluzione delle indagini in corso presso l’A.G. di Milano dimostrando di essere a conoscenza, anche tramite Lorenzo PRUDENTE, interrogato pochi giorni prima, di molti particolari sia relativi agli sviluppi delle indagini sia direttamente concernenti i fatti che erano avvenuti negli anni ‘70 compreso il ruolo di Carlo DIGILIO, da loro chiamato il "nonno", incontrato ed aiutato economicamente più volte in Venezuela durante la sua latitanza.

RAHO e BATTISTON si mostravano innanzitutto soddisfatti del fatto che Carlo DIGILIO, pur avendo iniziato a collaborare, non avesse riferito tutto quanto a sua conoscenza (circostanza, questa, certamente vera facendo riferimento all’autunno 1995), confermando comunque l’importanza del ruolo da lui ricoperto perchè "di cose da dire non ne ha una, ne ha cento" (cfr. f.6 della trascrizione allegata all’interrogatorio di BATTISTON dinanzi alla Procura di Brescia in data 6.10.1995, vol.13, fasc.3, ff.42 e ss.).

I due, parlando liberamente degli episodi che avevano vissuto o di cui erano stati a conoscenza, facevano quindi riferimento a vicende di minore o maggiore importanza quali un viaggio effettuato alla trattoria Lo Scalinetto di Venezia insieme ad Angelo ANGELI (f.3), alla fabbrica di armi impiantata da Eliodoro POMAR a Madrid (f.5), al tentativo di rintracciare Elio MASSAGRANDE in Paraguay quando DIGILIO si trovava in Venezuela (f.4) e soprattutto al fatto che Marcello SOFFIATI, il giorno prima della strage di Brescia, sarebbe partito in direzione di tale città con una valigia piena di esplosivo (f.4 della trascrizione), episodio che sarebbe stato in seguito raccontato da Carlo DIGILIO, pur all’oscuro di tale intercettazione, negli importantissimi interrogatori del 4 e 5 maggio 1996.

In sostanza, l’intercettazione di tale conversazione confermava che le indagini, nel loro complesso, si stavano muovendo nella giusta direzione e che era necessario insistere affinchè Carlo DIGILIO decidesse di raccontare anche gli episodi più gravi di cui era stato protagonista.

Sentiti dal P.M. di Milano ed anche dal P.M. di Venezia nell’immediatezza dell’intercettazione, RAHO e BATTISTON, posti di fronte al tenore inequivoco delle loro conversazioni, rendevano dichiarazioni di grande importanza per lo sviluppo delle indagini, dichiarazioni che tuttavia non preludevano ad una completa apertura processuale in quanto nel giro di pochi giorni Pietro BATTISTON tornava in Venezuela e non faceva più rientro in Italia, mentre Roberto RAHO assumeva in seguito un atteggiamento di completa chiusura.

Sintetizzando gli argomenti toccati da Pietro BATTISTON (che saranno soprattutto oggetto dell’indagine in corso presso la procura di Milano), questi, oltre a riferire in merito alla propria latitanza a Venezia dal gennaio al giugno 1974 (cfr. capitolo 22 della presente ordinanza), rievocava moltissimi episodi di cui aveva appreso a Venezia, soprattutto da Carlo DIGILIO, e che in seguito sarebbero stati confermati dagli interrogatori che questi avrebbe ricominciato a rendere dopo la malattia che lo aveva colpito.

Emergevano così circostanze importantissime e cioè che il gruppo di Venezia disponeva di gelignite, di cui DIGILIO aveva cura al fine di evitarne il trasudamento (int. al P.M. di Milano, 29.9.1995, ff.1-2), che altro esplosivo di origine bellica era stato recuparato dalla Laguna, che il gruppo stava studiando il modo di far funzionare al meglio i detonatori mediante una resistenza elettrica (int. citato, f.2).

Emergeva ancora che Carlo DIGILIO aveva adibito una stanza della sua abitazione di S.Elena per la riparazione e modificazione di armi in favore del gruppo di Ordine Nuovo e soprattutto che già durante gli incontri fra lo stesso BATTISTON, RAHO e DIGILIO in Venezuela all’inizio degli anni ‘80, quest’ultimo aveva fatto chiari riferimenti alla corresponsabilità del dr. Carlo Maria MAGGI nella strage di Piazza Fontana (int. citato, f.2 e int. 3.10.1995, f.5).

Interrogato anche dai Pubblici Ministeri di Brescia titolari dell’indagine sulla strage di Piazza della Loggia, Pietro BATTISTON confermava di avere appreso da RAHO notizie in merito al trasporto di una borsa di esplosivo da parte di Marcello SOFFIATI il giorno precedente la strage di Brescia ed ammetteva altre circostanze importanti quali l’aiuto economico fornito a DIGILIO in Venezuela durante la sua latitanza e la proprietà da parte del dr. MAGGI di una macchina per scrivere (poi ceduta a DIGILIO) con la quale erano stati battuti i volantini utilizzati per rivendicare falsamente con una sigla di sinistra qualche attentato "minore" avvenuto nel Veneto, secondo una tecnica di "diversione" di cui si è già ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio (cfr. int. BATTISTON al P.M. di Brescia, 4.10.1995, ff.1, 2 e 4, vol.13, fasc.3).

Interrogato anche da questo Ufficio in data 3.10.1995, Pietro BATTISTON aggiungeva altri episodi, ammettendo di avere probabilmente ceduto una pistola cal.7,65 a Gianni FERORELLI, di essersi recato tre volte in Svizzera con altri camerati milanesi fra cui, in una occasione, Francesco ZAFFONI e Marco CAGNONI, per contattare Giancarlo ROGNONI inizialmente latitante in quel Paese e di avere incontrato Carlo DIGILIO a Madrid durante la visita di questi, nel 1975, dall’ing. POMAR che si stava occupando della riproduzione della famosa mitraglietta (ff.4-5).

BATTISTON ricordava anche di avere conosciuto Delfo ZORZI a Miano, presentatogli proprio da Giancarlo ROGNONI (int. citato, f.3).

Anche Roberto RAHO, incalzato nell’immediatezza dell’intercettazione dal P.M. di Milano, aveva reso dichiarazioni di notevole importanza, salvo poi rifiutare ogni ulteriore rapporto con l’Autorità Giudiziaria.

In particolare RAHO aveva confermato di avere conosciuto Carlo DIGILIO tramite Massimiliano FACHINI (personaggio in merito al quale DIGILIO ha mantenuto un rigoroso silenzio), di avere appreso da DIGILIO le tecniche di falsificazione dei documenti e ha confermato altresì la vicenda della macchina per scrivere, originariamente di proprietà del dr. MAGGI, utilizzata per battere le finte rivendicazioni di "sinistra" (cfr. int. al P.M. di Milano, 4.10.1995, ff.1-2).

Soprattutto ha confermato che il gruppo di Venezia disponeva da antica data di notevoli quantità di gelignite e che DIGILIO, sin dai loro incontri in Venezuela, aveva fatto riferimento alla responsabilità del dr. MAGGI in relazione alla strage di Piazza Fontana (int. citato, f.3).

Roberto RAHO ha aggiunto di avere movimentato, sempre con l’aiuto di DIGILIO, notevoli quantità di tritolo destinate ad entrare a far parte della dotazione della struttura romana e ad essere utilizzate per i grandi attentati, della campagna del 1978/1979, al Campidoglio, al C.S.M. e a Regina Coeli e di avere portato a Roma anche alcuni M.A.B. modificati, sempre da DIGILIO, tagliando parte della canna e sostituendo il calcio originale con una impugnatura di metallo (int. citato, f.4).

In tutte queste attività era coinvolto Massimiliano FACHINI il quale, nonostante le ripetute assoluzioni, è così rientrato ancora una volta nelle indagini relative alla struttura occulta di Ordine Nuovo (int. citato, ff.4-5).

Tornando alla posizione di Pietro BATTISTON, non vi è dubbio che il ruolo centrale da lui ricoperto all’interno del gruppo di Giancarlo ROGNONI quale custode del materiale esplosivo e in seguito, sino alla fine degli anni ‘70 (e probabilmente oltre tenendo presente i contatti tenuti con Carlo DIGILIO), il ruolo di raccordo svolto consentendo il mantenimento dei collegamenti fra Giancarlo ROGNONI e gli altri ordinovisti, imponga il rinvio a giudizio dell’imputato per rispondere dei reati di cui ai capi 1 e 2 di rubrica.

Pietro BATTISTON deve invece essere prosciolto in questa sede in relazione alla sua prospettata partecipazione all’attentato al treno Torino-Roma del 7.4.1973.

Infatti gli elementi indicati nel mandato di comparizione emesso nei suoi confronti (l’identità dell’esplosivo rinvenuto nel dicembre 1973 nel garage Sanremo con quello utilizzato da Nico AZZI, la presenza di BATTISTON tanto al convegno del Centro Studi Europa a Genova nel marzo 1973 quanto alla riunione alla birreria Wienervald di Milano il 6.4.1973 (momenti in cui il gruppo dei milanesi mise a punto i preparativi dell’attentato), unitamente alla forte internità al gruppo di Pietro BATTISTON nel corso del 1973, fanno sospettare che egli sia il "quinto uomo" presente alle fasi operative dell’episodio del 7.4.1973, di cui vi è cenno in qualche interrogatorio, quinto uomo riuscito a sfuggire all’individuazione e alla cattura.

Si tratta tuttavia di elementi indiziari e incompleti e, in mancanza di dirette indicazioni provenienti da collaboratori o testimoni, inidonei, vista anche la gravità del fatto, a sostenere validamente un’accusa in giudizio.

Pietro BATTISTON deve quindi essere prosciolto in ordine al reato di cui al capo 3 di rubrica con la formula non aver commesso il fatto.

 

 

 

 

 

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