I MORTI DI REGGIO EMILIA

Onore ai morti di Reggio Emilia!

Lorenzo Mazzucato (conques@alice.it)

I morti del luglio 1960, a Reggio Emilia

(scheda a cura di Girolamo De Michele)

Il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI, sono

uccisi dalle forze dell'ordine. I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei "Per i morti

di Reggio Emilia": Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. I morti di

Reggio Emilia sono l'apice - non la conclusione - di due settimane di scontri con la polizia, alla quale il

capo del governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in "situazioni di emergenza": alla fine si

conteranno undici morti e centinaia di feriti. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo

Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei

monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in

modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l'avvento della generazione dei

"ragazzi con le magliette a righe". Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati,

distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle "tre M" (macchina, moglie, mestiere): la

giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali

della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo

mutamento di clima - dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza

dopo i fatti di luglio - sono testimonianza la poesia di Pasolini "La croce uncinata" (aprile 1960) e l'articolo

"Le radici del luglio" (Vie nuove, 29 ottobre 1960).

Il contesto storico-politico

Il 25 marzo 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferisce l'incarico di formare il nuovo

governo a un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, avvocato quasi sessantenne ed

esponente della sinistra democristiana, attivo sostenitore di una politica di "legge ed ordine". La sua

designazione segna un punto di svolta all'interno di un'acuta crisi politica, con pesanti risvolti istituzionali.

La politica del centrismo è ormai esaurita, ma le trattative con il Partito Socialista di Pietro Nenni per la

formazione di un governo di centro-sinistra non sembrano in grado di partorire la svolta politica, auspicata

e preparata dall'astro nascente della DC Aldo Moro, che nell'ottobre 1959 aveva aperto ai socialisti

affermando il carattere "popolare e antifascista" della DC in occasione del congresso democristiano

svoltosi a Firenze. Il governo Tambroni ha al suo interno una forte presenza di uomini della sinistra

democristiana, ma ottiene la fiducia alla camera solo grazie ai voti dei fascisti e dei monarchici. La

direzione della DC sconfessa l'operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) aprono

una crisi che si conclude col rinvio alle Camere del Governo, con l'invito del presidente Gronchi a sostituire

i tre ministri riottosi. In questo modo Gronchi esplicitava la proposta politica di un "governo del

Presidente" che cercava spregiudicatamente i suoi consensi in aula con chiunque fosse disponibile ad

appoggiarlo: una soluzione autoritaria, come lo era del resto la proposta di un "gollismo italiano"

caldeggiata da Fanfani, volta a sminuire le prerogative del Parlamento davanti al rischio di un ingresso dei

socialisti nella maggioranza. Degna di nota la presenza nel governo di due uomini del "partito-Gladio":

Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, (oltre all'immancabile Giulio Andreotti, Oscar Luigi

Scalfaro e Benigno Zaccagnini).

Da Genova a Reggio Emilia

Nel giugno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d'oro della

Resistenza, e che a presiederlo è stato chiamato l'ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile

della deportazione degli antifascisti resistenti e degli operai genovesi nei lager e nelle fabbriche tedeschi.

Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti "camalli") risalgono dal porto

guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età (i cosiddetti "ragazzi dalle

magliette a righe"), in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. Al tentativo di

sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono

barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In

piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell'ordine. Il prefetto di

Genova è costretto ad annullare il congresso fascista. In risposta alla sollevazione genovese Tambroni

ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide

Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti. Il 6 luglio 1960 a

Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall'olimpionico Raimondo

d'Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.

Il 7 luglio

La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel

momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli

assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare.

Ma l'unico spazio consentito - la Sala Verdi, 600 posti - è troppo piccolo per contenere i 20.000

manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di

raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una

violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la

manifestazione pacifica: "Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un'autobotte della

polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti", ricorda un testimone, l'allora maestro

elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici,

partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d'acqua e dai fumogeni, i

manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, "dove c'era un cantiere, ricorda un protagonista

dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi...". "Altri manifestanti,

aggiunge Zambonelli, buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza". Respinti dalla disperata

sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: "Teng-teng, si

sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l'isolato San

Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall'autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza

d'uomo".

In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli (1924), operaio di 35 anni. Si trova isolato al centro

di piazza della Libertà. L'agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s'inginocchia, prende la mira in

accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: "Mi

hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia". Partigiano della 76a Sap (nome di

battaglia "Bobi"), è il quinto di otto fratelli, in una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è segretario

locale dell'Anpi.

Davanti alla chiesa di San Francesco è Lauro Farioli, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un

bimbo. Lo chiamavano "Modugno" grazie alla vaga somiglianza con il cantante. Era uscito di casa con

pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi: ai primi spari si muove incredulo verso i poliziotti

come per fermarli. Gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto. Dirà un ragazzo

testimone dell'eccidio: "Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra, io mi

trovavo proprio alle sue spalle e l'ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva

dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue".

Intanto l'operaio Marino Serri, 41 anni, partigiano della 76a brigata si è affacciato piangendo di rabbia

oltre l'angolo della strada gridando "Assassini!": cade immediatamente, colpito da una raffica di mitra.

Nato in una famiglia contadina e montanara poverissima di Casina, con sei fratelli, non aveva frequentato

nemmeno le elementari: lavorava sin da bambino pascolando le pecore nelle campagne. Militare a 20

anni, era stato in Jugoslavia. Abitava a Rondinara di Scandiano, con la moglie Clotilde e i figli.

In piazza Cavour c'è Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni. Viene colpito da un proiettile

all'addome. Cerca di tenersi su, aggrappandosi a una serranda: "Un altro, racconta un testimone, ferito

lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato a tutti e due". Franchi è la vittima

più giovane (classe 1941, nativo della frazione di Gavassa): figlio di un operaio delle Officine Meccaniche

Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina

della zona. Nel frattempo frequentava il biennio serale per conseguire l'attestato di disegnatore

meccanico, che gli era stato appena recapitato. Morirà poco dopo a causa delle ferite riportate.

Ma gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani - tra i quali è Rovacchi - a

resistere: "La macchina del sindacato girava tra i tumulti e l'altoparlante ci invitava a lasciare la piazza,

che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava

addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva.

E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di

Reverberi, ma lo capii soltanto dopo".

Emilio Reverberi, 39 anni, operaio, era stato licenziato perché comunista nel 1951 dalle Officine

Meccaniche Reggiane, dove era entrato all'età di 14 anni. Era stato garibaldino nella 144a Brigata

dislocata nella zona della Val d'Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola). Nativo di

Cavriago, abitava a Reggio nelle case operaie oltre Crostolo con la moglie e i due figli. Viene brutalmente

freddato a 39 anni, sotto i portici dell'Isolato San Rocco, in piazza Cavour. In realtà non è ancora morto:

falciato da una raffica di mitra, spirerà in sala operatoria.

Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d'ora, contro

gli inermi manifestanti. I morti sono cinque, i feriti centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell'ospedale,

testimonia di "feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull'altro".

Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: "In sala operatoria c'eravamo io, il

professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila

in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c'era

tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l'apprensione e il

dolore dei parenti".

La caduta del governo Tambroni

Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma. Il ministro degli Interni Spataro

afferma alla Camera che "è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali".

Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di

polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per "non lasciare libera una moltitudine

di gente che può provocare incidenti": la polizia continua a sparare ad altezza d'uomo. A Palermo la polizia

carica con i gipponi senza preavviso, e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono i

mitra e le pistole e uccidono Francesco Vella, di 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe

edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni colpito da un colpo di moschetto al petto, Giuseppe

Malleo (che morirà nei giorni successivi) e Andrea Gangitano, giovane manovale disoccupato di 18

anni. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa da una pallottola sparata

all'impazzata mentre chiudeva le imposte. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.

A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre di 19 anni, disoccupato, è

massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: "mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli

spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo

irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione". Il corpo martoriato e

sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia da

ammonimento. Essi impediscono a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a

mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno

successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di "accertare, ove

sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti". Altri 7 manifestanti rimangono feriti.

Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e

Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a

Mosca, affermando che "questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino".

Ma il governo è ormai nell'angolo: il 16 luglio la Confindustria firma con i sindacati l'accordo sulla parità

salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici

che intima ai dirigenti democristiani a non fare alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal

presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l'incarico di formare un governo appoggiato

da repubblicani e socialdemocratici.

Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell'agente Celani. Il 14

luglio la Corte d'Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari

Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto;

Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l'agente che con freddezza prende la mira e uccide

Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.

da www.reti-invisibili.net

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Dalla rubrica "Dialoghi con Pasolini"

Vie Nuove n. 33 a. XV, 20 agosto 1960

Ho acquistato il disco realizzato da Vie Nuove (http://web.tiscali.it/bcaracciolo) sui fatti di Reggio Emilia e

le assicuro che quella cronaca sonora di un delitto tanto efferato mi ha profondamente colpito. Suppongo,

del resto, che anche lei l'abbia ascoltata, per cui non sto a descriverle i sentimenti che ho provato durante

l'audizione. Ciò che vorrei chiederle, invece, è cosa pensa dell'iniziativa. Credo si tratti di una iniziativa

assolutamente nuova e penso sarebbe il caso di estenderla e potenziarla. In un paese dove i dischi che si

vendono contengono quasi sempre insulse canzonette, il "documento" - anche se è soltanto cronaca nuda

e spoglia - non crede che possa portare una ventata nuova?

Giacinto Malaguzzi - Cremona

Non so se per il disco di Reggio Emilia si possa parlare di iniziativa: o per lo meno di normatività di tale

iniziativa. Esso è stato un puro caso. Me lo scrive la direttrice di Vie Nuove (Maria Antonietta Macciocchi

ndr): "Io ebbi a Reggio Emilia questo nastro da un commesso di un negozio di tessuti, che si era portato lì

il registratore, per registrare il comizio: e, invece, finì con il registrare l'agghiacciante sparatoria, non una

guerra, ma una fredda carneficina". Ora. io mi auguro che simili carneficine non si ripetano più, mai più,

nella nostra vita, che è stata tutta un'esperienza di carneficine: e spero che nessun registratore serva mai

più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile - e anche profondamente bello - che abbia mai

sentito.

Sembra uno scherno: tutti gli esperimenti, estetizzanti, di fare poesia con la tecnica, con la casualità della

materia pura - dalla musica elettronica alla pittura astratta - appaiono ora come resi ridicoli e penosi

proprio da questo esperimento che, di estetizzante, non ha proprio nulla: nato com'è dal caso, semplice

riproduzione di una "materia pura", suoni, urli, spari, rumore, la sua bellezza anche estetica ha momenti

sublimi. Perché mai, nemmeno per un istante, la suggestione estetica si distacca dal suo contenuto.

Perciò, penso che questo disco resterà unico nel suo genere: qualsiasi altro tipo di riproduzione pura e

semplice, preordinata, mi sembra destinata a fallire. Occorre sempre l'elaborazione intellettuale o stilistica

del fatto riprodotto, perché questo abbia valore. I critici stilistici dicono che ogni opera ha la sua

"interazione figurale": ossia ogni opera, nell'atto di essere scritta o letta, brano per brano, parola per

parola, si integra in una sua totalità immanente ad essa, in una sua ideale conclusione che le dà

continuamente senso e unità. Così per questo disco - è atroce dirlo - la interazione figurale, che gli dà

quasi una dignità estetica, è la morte dei giovani lavoratori di Reggio, è la calcolata brutalità della polizia:

fatti che tutti noi sappiamo, e che quindi integrano in noi, con la loro disperata violenza e con la raggiunta

coscienza, le tremende pregrammaticalità del disco.

Quello che colpisce soprattutto, ascoltando questo disco - oltre all'emozione, oltre la pietà - sono due

fatti.Il primo è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si

succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con

la voluttà distratta di un divertimento. Questo è già stato notato da tutti: e ora capisco come uno dei

morenti abbia potuto pronunciare quella frase: "Mi hanno ucciso come sparassero a caccia". Proprio in

questi giorni è di scena Eichmann: egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa

dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti che hanno sparato e ucciso saranno

simili a quelle già ben note, pur con le debite differenze di atrocità: anch'essi parleranno di ordini, di

dovere, ecc. E sono di questi giorni anche certi documenti pubblicati da Paese Sera a proposito delle

omissioni del Vaticano durante il periodo delle stragi naziste contro gli ebrei, C'è in tutti questi fatti, un

connettivo che li unisce, una atroce somiglianza.

È vero che, nello stesso tempo, la lotta popolare di Reggio, di Genova, di Roma autorizza anche a

rinnovare e sentire con maggiore forza quella speranza che sembrava perduta dai giorni della Resistenza:

ma ciò non toglie che bisogna essere lucidi e spietati nel valutare il pericolo. Il capitalismo ha raggiunto in

questi giorni lo stesso grado di potenza e di ferocia che aveva raggiunto prima della guerra: ed era più

pericoloso, perchè i moralisti-cattolici sono meno idioti dei fascisti.

E siamo al secondo fatto che colpisce nel disco di Reggio: cioè la sensazione netta che a lottare non siano

più de dimostranti italiani e una polizia italiana, in un doloroso ma normale, direi, momento del processo

di evoluzione della classe operaia: come accadeva per esempio ancora negli eccidi del primo dopoguerra,

a Melissa o a Modena. Si ha l'impressione che si trovino ora di fronte due schiere quasi estranee: la

popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti. I poliziotti che sparano non sembrano

nemmeno degli italiani, se questa categoria ha ragione di essere almeno come dato sentimentale. Tra i

lavoratori e la polizia c'è un salto di qualità, di nazionalità.

Al tempo di Melissa e di Modena, la polizia non era stata ancora riorganizzata: era stata messa insieme un

po' confusamente, era una sezione della "ricostruzione": essa difendeva genericamente un ordine

costituito secondo un canone di lotta tradizionale, che la Resistenza aveva alquanto fiaccato. Ora invece la

polizia è perfettamente organizzata, per opera di Scelba e di Tambroni: è un corpo ponderoso, deciso,

politicamente orientato e cosciente. Inoltre, come documenta un giornalista, non certo marxista

sull'Europeo, Renzo Trionfera, esso è direttamente legato al Vaticano.

La polizia italiana, insomma, si configura quasi come l'esercito di una potenza straniera, installata nel

cuore dell'Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito?

Io, per me, sono alieno dalla violenza: e spero, lo ripeto, che mai più si debba scendere in piazza, a

morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza

fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere

mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti:

non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi alla ragione con la ragione, alle

idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze e di

menzogne crollerà: com'è crollata la legge-truffa, com'è crollato il governo Tambroni. Gli italiani, per una

parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono naturalmente intelligenti e si stanno lentamente

rendendo conto da che parte sta la ragione. Le nuove leve di giovani lo dimostrano.

Pier Paolo Pasolini

in: "Le belle bandiere" Editori Riuniti, 1977, a cura di Gian Carlo Ferretti