L’UOMO INFORME NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

 

di Wanda Piccinonno

 

L’ingordigia di spazio della globalizzazione sta divorando il pianeta, imponendo una sorta di legge divina. La logica onnipervasiva dell’impresa, la tautologia del pensiero, una ragione procedurale di marca economico-funzionale , generano un nucleo dal quale scaturiscono automatismi, che consentono le tele paralizzanti del paradosso.

I dati sono inquietanti, basti pensare che due milioni su cinque vivono nel mondo con meno di 4 mila lire al giorno e che il reddito giornaliero di un cittadino svizzero è uguale al reddito annuale di un etiope. Intanto si continuano a celebrare i fasti della new economy , della moltiplicazione dei valori di Borsa, con freddo cinismo e con una disinvoltura etica senza precedenti. Sulla base di una procedura universale e calcolante, il capitalismo odierno si esplicita all’insegna dell’iperproduzione, vendendo servizi, comprando azioni e instaurando rapporti simbiotici con l’informazione standardizzata, con il carrozzone pubblicitario e con i circuiti informatici. La vittoria del capitale, l’introduzione della logica dell’impresa, le variegate forme di flessibilità pianificata, investono gli ospedali, la scuola, l’università e tutte le condizioni di produzione del lavoro. Ciò determina un regime di dominazione totalitario, che inficia la rappresentazione di tutti i rapporti fondati su valori, affetti, passioni. Preso atto che tutto è misurabile quantitativamente, ne consegue l’espulsione dello spazio pubblico e dell’agire umano e sociale.

Da qui un sistema generalizzato di acculturazione, che consente "all’uno" di moltiplicarsi e di fabbricare spazi eterodiretti. I codici esangui ed esasperati del capitalismo universale vengono descritti in un bellissimo romanzo, "La caverna", di Josè Saramago, che avvalendosi di toni vigorosi e incisivi, si riappropria dell’autentica valenza delle parole e di forme antiche insopprimibili, offrendo un’immagine esaustiva dell’uomo moderno, vittima dell’atomismo globalizzato. L’autore, partendo dalla storia di vita di un vasaio, delinea una società caratterizzata dal "Centro", ossia una città che con i suoi poteri tentacolari, controlla tutti i luoghi dello spazio sociale. Saramago, descrivendo, simbolicamente, il folle processo di espansione della globalizzazione e delle élite globalizzate, focalizza l’attenzione su problemi inerenti la libertà individuale, il mondo del lavoro, i vincoli collettivi, lo scarto tra individuo e socialità. In questo contesto, la storia non viene intesa come historia rerum gestarum, ossia dei vertici politici e delle loro imprese, ma è, invece, una storia di vita, percepita come miniera esistenziale e come memoria collettiva.

In altre parole, come voleva Stendhal, i verbali della giornata di un uomo diventano un metodo di esplorazione significativa del sociale e dell’umano.

Illuminante è la conclusione del romanzo, quando fa riferimento a un manifesto del "Centro", che così recita. "Entro Breve, Apertura Al Pubblico Della Caverna di Platone, Attrazione Esclusiva, Unica al Mondo, Acquista il Biglietto". Il manifesto del "Centro" diviene, dunque, il simbolo di una realtà sociale impoverita, ossificata nei parametri dell’homo aeconomicus e di un capitalismo, che percepiscono l’universale solo nel mercato, tant’è che anche l’altissimo messaggio platonico viene mistificato.

A questo punto, nella consapevolezza che i meccanismi globali, con una sorta di mostruosa formazione permanente, riducono il soggetto a mero strumento di un ingranaggio, vale la pena rivisitare il mito platonico, per rilevare che lo stato di schiavitù degli uomini della caverna rimanda alla situazione odierna. Pertanto, rimuovendo l’uso strumentale del mito, operato dal "Centro", giova sottolineare che quello della Caverna è insigne tra i miti platonici, per vigore icastico e rispondenza del simbolo ai concetti simboleggiati. Proprio in virtù di queste considerazioni è utile rievocare il mito. In una caverna sono incatenati uomini prigionieri, con le spalle volte alla luce del sole, ossia alla verità. I prigionieri, schiavi delle opinioni, ritengono che le ombre siano la realtà e non un surrogato.

Solo quando usciranno dalla caverna e contempleranno il sole, ovvero la verità, negheranno l’oscuro limbo delle apparenze e approderanno alla conoscenza veritiera.

L’impresa non è priva di impedimenti, tant’è che Platone, usando la forma del dialogo, fa intervenire Glaucone, che afferma: "Strani sono quei prigionieri". La risposta è destabilizzante ed inquietante, infatti la conclusione è: "Somigliano a noi". Pur prendendo atto che il contesto economico, sociale e culturale è cambiato, il mito della caverna risulta attuale, se si fa riferimento all’uomo, alla sua alienazione, alla perdita di ogni identità autentica, al suo cogito ridotto solo a mercanzia. La verità è che la pratica atomizzata della vita collettiva è diventata individualismo estremo, che espelle lo spazio dall’appartenenza sociale.

Si vive in una sorta di presente eterno, di "tempo accorciato, concentrato nel presente senza passato e senza futuro", come lucidamente osserva Virno. D’altra parte, con la globalizzazione, la vittoria del capitale e dell’impresa svuota i luoghi dell’agire comune, trasformandoli in non-luoghi, dal momento che l’unico spazio è quello degli investitori e delle imprese transnazionali. Ciò dissolve ogni vincolo e ogni capacità di autorappresentarsi. Il tempo accelerato dell’informazione ha cancellato via via la memoria della comunità, delle esperienze collettive. D’altro canto, la situazione odierna, ossia la postmodernità, altro non è che la radicalizzazione della modernità, infatti il nesso non antropomorfo della socializzazione moderna è il mercato, inteso come istituto di riconoscimento reciproco dei soggetti mediato dallo scambio delle cose. Ciò significa che il riconoscimento sociale e l’integrazione del privato nel pubblico avvengono mediante l’acquisizione di forme universali astratte. Oggi, con un sistema di conoscenze sempre più razionalizzate e formalizzate, l’astrazione reale risiede nelle cose e nelle idee attraverso cui gli uomini pensano. Siamo passati dalla sussunzione formale alla sussunzione reale della società al capitale e ciò consente al capitale di penetrare in ogni esperienza e di farsi principio di totalità.

A questo proposito Pietro Barcellona afferma che "Di fronte a questo scenario della contemporaneità non solo perdono significato le tradizionali distinzioni di destra e di sinistra (che non hanno più nessuno spazio e nessun luogo), ma la stessa assunzione di un principio regolativo, di un criterio per ipotizzare una società migliore dell’attuale, appare una mera velleità".

In questo quadro "l’uomo senza qualità" di Musil corrisponde all’uomo del "Centro" di Saramago, difatti in entrambi i casi emerge un soggetto reificato e sussunto da un rapporto formalizzato di regole astratte. La globalizzazione, dunque, percepita ormai come un fatto naturale, invade culture, rapporti di reciprocità, forme di vita. La diffusione del modello psicologico-culturale imperante discende dalla separazione tra produzione e bisogni, tra impresa e territorio, dalla deculturazione della società, dalla neutralizzazione della politica, che concorrono a colonizzare l’immaginario individuale e collettivo. Ciò provoca un imbarbarimento globale, un individualismo esasperato, un narcisismo senza aggettivi, e di conseguenza una cultura del successo e della competizione. Latouche, analizzando il problema, sostiene che "La cultura del successo è anche la cultura dello scacco, perché rispetto a questo immaginario l’esperienza è purtroppo una massa di frustrazioni che stanno rendendo le nuove generazioni apatiche rispetto alla prospettiva di una responsabile progettazione del proprio destino". Quando quest’ultimo è già tracciato, preconfezionato dal sistema di dominazione, non vi è, d’altra parte, nessuna possibilità che si realizzi il "progetto esistenziale", inteso come fondamento del sapere antropologico. Ciò significa che una totalizzazione pianificata determina la sussunzione reale della sfera sociale e della sua significazione, sicché individuo e comunità si separano e rimangono solo le pratiche commerciali. In questo contesto, la soggettività viene intesa nella dimensione finanziaria, la democrazia discorsiva viene eliminata ed anche i mestieri artistici ed educativi sono degradati dalla razionalizzazione economica.

Inoltre, i media non consentono l’accesso all’esperienza plurale dei fatti, concorrendo così a formare il pensiero unico e una coscienza drogata, che annullano la possibilità di essere individui e comunità. In realtà, oggi assolutamente libero è solo il capitale transeunte , che si avvale anche del "denaro linguistico". Usando questa espressione, Rossi Landi tiene a precisare che con la figura del denaro linguistico, la lingua diventa denaro, in quanto mezzo universale di qualsiasi comunicazione. Il denaro, dunque, diviene l’equivalente generale di tutte le comunicazioni possibili, nel senso che le regola tutte. A questo proposito rimane illuminante l’analisi del grande Vecchio, ossia Marx, che nei "Grundrisse", sostiene che il denaro rappresenta la forma dei rapporti sociali, perché la forma del denaro vede come presupposto il capitale, ed è inscritta nel processo di socializzazione del capitale stesso. Da qui l’universale epifenomeno dell’agire astratto e della figura spettrale della differenza identica, con le forme relative di senso. Vero è che attualmente la forza immateriale del capitalismo è ovunque e in nessun luogo, è una sorta di deus absconditus, che per via delle autostrade informatiche, divulga item scarnificati, pre-codificati , programmati, in vista del controllo della quantificazione. Svanisce così la realtà sociale umanamente significativa, con le sue dinamiche interne e con le sue pulsioni, che possono trasformare la potenza in atto. D’altra parte, quando il tempo è accelerato, il tempo non può essere percepito come durata, ovvero come categoria esistenziale, che poi è la precondizione evolutiva per vivere la società. Ciò consente di utilizzare la vita intrapsichica dei soggetti e di invadere la vita collettiva, cancellando ogni possibilità di riflessione e di reminiscenza. Ne consegue una paurosa miseria interiore, che permette al regime proprietario di regolarizzare anche la corporeità, i sentimenti, i bisogni. La società di controllo e una finzione prestabilita comportano che al posto degli uomini liberi vi siano numeri e, al posto delle scelte collettive, poteri, apparati, corporazioni. Lo scenario inquietante spinge a rivisitare Nietzsche, che, nella solitudine di una sana "follia", afferma: "Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero; quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente… Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente". Inoltre, Nietzsche, con la sua "decostruzione chimica", non manca di evidenziare la frammentazione dell’uomo, infatti, sostiene: "In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti e membra di uomini".

Indubbiamente Nietzsche rappresenta il caposaldo di un processo di liberazione, perché è il grande smascheratore di tutti i pregiudizi, è colui che osa guardare ciò che si cela dietro i valori universalmente accettati, dietro le verità stabilite. D’altra parte, pur rilevando le palesi divergenze tra il pensiero di Marx e quello di Nietzsche, si può constatare che in entrambi si manifesta una critica vigorosa alla massificazione della società borghese, e al tempo stesso, il riconoscimento della materialità e della corporeità dell’uomo. Procedendo nell’analisi sulla prassi collettiva della mercificazione, vale la pena sottolineare che, con le condizioni di riproduzione sociale, gli esseri umani vengono percepiti dagli eco-sistemi solo come forze sociali produttive, sicché anche le condizioni comunitarie si manifestano sotto forma di "capitale sociale".

Il regime proprietario, dunque, avvalendosi della strategia dell’inclusione, sussume la materialità e la socialità ai criteri regolatori del primato dell’economico. A questo proposito sono estremamente incisive le osservazioni di Paul Virilio, quando sostiene che con le "nuove forme di controllo all’aria aperta", si sostituiscono le vecchie discipline operanti in un sistema chiuso, con forme aperte egualmente dure. Le formazioni nucleari, le manipolazioni genetiche, l’assistenza a domicilio, il day hospital, sembrano quasi rappresentare una svolta, ma, in realtà, sono forme di asservimento e di controllo totale. Lucidamente Deleuze afferma che i diversi ambienti di internamento attraverso cui passa l’individuo sono variabili indipendenti, infatti, si presume che ogni volta si ricominci da zero, invece il linguaggio comune a tutti gli ambienti è analogico. Nelle società di controllo, scrive ancora Deleuze, la cosa essenziale non è più né una firma né un numero , ma una cifra. Quest’ultima è un lasciapassare e ciò significa che, mentre le società disciplinari sono regolate da parole d’ordine, il linguaggio del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l’accesso all’informazione.

Ne consegue "che non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo, perché gli individui sono diventati dei ‘dividuali’ e le masse dei campioni, dati, mercati o banche". Collari elettronici; carta elettronica individuale; il mistificato e strumentale senso di educazione permanente introdotto nelle scuole; il regime dell’impresa che impone la modulazione del salario; i test che servono per etichettare e selezionare secondo i parametri dell’amministrazione totale, sono gli elementi che offrono le coordinate per comprendere l’attuale regime di dominazione. E’ evidente che il nuovo ordine, instaurato dalla globalizzazione, invade l’universo del discorso sociale e i luoghi della critica, con i poteri impersonali, con la demagogia e con un’istituzionalizzazione priva di legami sociali ed affettivi. D’altronde le istituzioni assolvono la funzione di assicurare la pratica della vita comune, retta da vuote regole giuridiche e funzionali ai grandi settori globalizzati, ossia la finanza, l’economia, la tecnologia, i media.

Ne consegue che l’individuo non è più persona concreta, ma persona astratta, definita solo da codici istituiti e formalizzati. Venute meno le pratiche comuni basate sull’identità relazionale-associativa, eliminata la distinzione tra pubblico e privato, svuotato il principio della rappresentanza, rimane una vuota impalcatura istituzionale, gestita dalle èlite transnazionali e dal potere tecnocratico, che modulano i loro interventi, avvalendosi del tentacolare sistema policentrico della logica proprietaria. Ciò significa che sono proprio i detentori del capitale a produrre diritto, regolando la vita sociale e condannando gli individui all’annichilimento. Non può, pertanto, stupire che un docente di diritto privato, di grande calibro, come Pietro Barcellona affermi che "non possono continuare a bloccarci con le categorie classiche della filosofia del diritto, della filosofia politica, per vedere se bisogna avere una legge elettorale maggioritaria o una legge proporzionale", dal momento che la democrazia è diventata evanescente e che lo spazio pubblico è stato espulso. Non si può, infatti, insistere su aspetti formali, quando ciò che s’impone è solo la "lex mercatoria del diritto globale senza stato". Ciò comporta il declino della società autenticamente umana e la dissoluzione delle città, intese come luoghi della significazione sociale e dell’investimento affettivo. L’apparato strumentale, onnivoro e onnicomprensivo, spinge Massimo Cacciari a parlare della "città mollusco", ovvero di una città che non ha più punti di riferimento , né spazi, né luoghi che si può rappresentare come un insieme di nomadi che stanno insieme in una fluttuazione permanente, in un contesto, in cui non c’è né inizio né fine. La verità è che l’universalismo della massificazione si insinua nei pori dell’agire comunicativo rendendo così impossibile la riproduzione simbolica del mondo vitale. Axel Honneth constatando che il comune denominatore delle società moderne e post-moderne è la razionalità strumentale, propone un’opposizione che si dovrebbe esplicitare nel "non-identico". Quest’ultimo dovrebbe comprendere le relazioni pubbliche o private, quali l’amore, l’amicizia, la tenerezza, che, ovviamente, dovrebbero rifiutare di essere utilizzate come mezzi in vista di fini altri da se stesse. Pur accettando l’approccio teorico di Honneth, ritengo che siano più incisive le proposte di Deleuze, vuoi perché partono da indagini esaustive sulle società di controllo, vuoi perché penetrano con maggiore acume sulla possibilità di alternative. Deleuze, fedele allo spirito spinoziano e consapevole della valenza del discorso filosofico, ritiene che per fare "movimento" siano necessarie tre componenti: "il concetto" o nuove maniere di pensare, "il percetto" o nuove maniere di vedere, "l’affetto" o nuove maniere di provare. Le folgoranti intuizioni di Deleuze aprono una prospettiva rovesciante, che facendo irruzione nel tempo reificato, potrebbe sconvolgere gli ambiti consueti e costituire la potenza della moltitudine. In altri termini, in un’ottica inedita e vitale, supportata dai conatus individuali e dal conatus collettivo, dovrebbero interagire processi di composizione e decomposizione, in vista della liberazione "dell’immaginazione produttiva" di spinoziana memoria. Da qui la necessità di negare l’alfabetismo coatto e optare per la massima trasgressione dei codici universali. Vero è che l’ottimismo della volontà s’infrange nelle barriere del dilagante processo di deculturazione, che poi è gestito da una vera e propria tecnica della manipolazione. Ciò provoca l’imperversare di slogan, di espressioni ad effetto, che escludono, però, ogni elaborazione concettuale e ogni analisi critica. E’ paradossale dover constatare come sia sufficiente lanciare, con facilismo pressappochistico, qualche slogan da "pseudorivoluzionario" per suscitare consenso, o addirittura uno stato di esaltazione, che, a dire il vero, hanno il sapore amaro dell’allucinazione. Cadono così i punti di riferimento per l’azione individuale e collettiva, sicchè lo sviluppo di una visione alternativa si avvita su se stesso e degenera in forme di puro e sterile narcisismo.

Non senza ragione Gramsci sosteneva che la cultura è un concetto basilare del socialismo, perché "il socialismo è una visione integrale della vita", e in quanto tale esso esige chiarezza preliminare sui problemi filosofici morali, che sono i presupposti dell’azione politica ed economica. Ciò significa che per Gramsci la concezione della cultura deve essere intesa "come esercizio del pensiero, come abitudine a connettere cause ed effetti, conquista, insomma di una concezione superiore".

Le osservazioni fatte mettono in luce che la "cultura" ridotta a brandelli di informazione, non solo azzera il pensiero analitico ma provoca anche analfabetismo e fughe verso il vuoto. Pertanto, il recupero della realtà sommersa dall’oblio può avvenire solo a condizione di una scrupolosa indagine sulla patologia sociale e su quella che Castoriadis definisce "allucinazione collettiva". Solo partendo da una razionale analisi critica, si potranno decodificare l’anomia e la maggior parte delle passioni che muovono l’uomo, come ambizione, invidia, gelosia, vendetta, che poi derivano e sono nutrite da precise costellazioni sociali.

Se, dunque, si penetra nei mille travestimenti della realtà e si indaga sulla mistificazione storica borghese, emerge un dato, ossia che la peggiore di tutte le passioni umane, l’impulso a servirsi di un proprio simile per fini egoistici "in nome della superiorità", ben poco si differenzia da una forma raffinata di cannibalismo.

Pertanto, avviare un’etica della liberazione significa rimuovere i codici globali, che riducono il mondo ad alveare e l’uomo a replicante, privo di amore, di ragione, di volontà. D’altronde, a parte condizioni geneticamente patologiche, l’uomo nasce psichicamente sano, ma viene deformato da coloro che perseguono il dominio totale. Ne consegue che se l’individuo viene inteso come pura appendice, si dissolve la compassione, indissolubilmente legata all’amore e s’impone l’ indifferenza. Ciò consente che l’individuo si appaghi di sensazioni-sesso, di sensazioni-sciagura, di sensazioni-crimine. Al di là delle analisi tortuose e pregne di psicologismo, che riducono l’inconscio ad una sorta di scena teatrale, si evince che le società occidentali sono attraversate da una sorda inquietudine e ciò è suffragato dai ricorrenti episodi di violenza, basti pensare al massacro di Novi Ligure.

Come da "copione" gli esperti del regime scatenano puntualmente un tormentone psicologico, che inficia ogni onesta indagine sul principio di decadenza della personalità e sulla "seconda natura", cioè la natura psico-sociale. Non si tratta di percorrere "il sentiero dell’orco assassino", nè di sbattere "i mostri" in prima pagina, perché l’impulso distruttivo è un punto di partenza e non una conseguenza. È, infatti, la reificazione totale razionalizzata della paranoia capitalista, che inscrive nel suo codice "l’aggressività strumentale", ossia quel tipo di distruttività per cui l’annientamento di altri non è lo scopo, bensì il mezzo, che non è nemmeno accompagnato da gioia, piacere o dolore. Per l’aggressore strumentale la vita umana, come la sofferenza dell’uomo, è "indifferente". L’aggressività, dunque, è collegata alle categorie storiche e alla tecnologia del potere.

La cultura dominante si insinua così nei soggetti e vale come norma interiorizzata. In altri termini esiste una razionalizzazione ideologica della violenza di massa, che vede nell’aggressività un’idea teorica regolativa. Ciò significa che il soggetto è un derivato che svanisce in un mormorio anonimo, peraltro funzionale alla celebrazione di un modello di identità. Se la violenza fa scandalo è altresì vero che è inscritta nella struttura sociale, anche se viene banalizzata dai managers d’una grigia proletarizzazione dell’anima. La verità è che al fondo della legittimità formale c’è un’illeggittimità sostanziale, basti pensare alle "guerre umanitarie", agli stupri dell’ambiente, alle procedure sistematiche dell’esclusione, alla tolleranza zero, alle politiche repressive, al razzismo di stato, ai miasmi dell’impero. Giustamente il cronista brasiliano, Luis Verissimo, ha affermato: " il liberalismo sarebbe una buona soluzione, se non esistesse la gente". Questa inquietante amnesia comporta che gli uomini siano diventati solo dei granelli che danzano, proprio perché l’apparato rende vano ogni proposito di creare un’esistenza umana sulle basi di una natura umanizzata. D’altronde la natura umana non è astratta, fissa e immutabile, ma è la totalità delle relazioni sociali, e quindi sono i presupposti inumani e patologici del capitalismo che diffondono una cultura cinica.

Da qui l’avvento del regno dei mezzi e il dilagare di un’identità umana autoreferenziale, che escludono l’investimento affettivo e ogni rapporto empatico. In un contesto così concepito, la cosiddetta normalità si traduce in patologia sociale, sicchè la linea di demarcazione tra normalità e devianza diviene sempre più fragile. Bene e male non sono entità astratte, ma presuppongono una scelta delle nozioni morali, nonché un rapporto cosciente con esse. Non esistono, infatti, giustizia, onestà, senza i corrispondenti concetti di valore.

Diviene conseguente che sono la struttura socio-economica e il regime di dominazione, che plasmano il carattere sociale e il nucleo caratteriale dell’individuo. D’altronde, quando l’essere vivente diventa una merce esibita sul "mercato della personalità", si affermano solo caratteri mercantili: aspetti questi che determinano l’atrofia della vita emozionale e la mancanza di patria delle passioni morali. Vero è che, pur essendo la nostra epoca dissacrata e dissacrante, non mancano i sentimentalismi a buon mercato, che poi sono in perfetta sintonia con le strutture mentali del pubblico. Varrebbe la pena riflettere sul moralismo dei professionisti della televisione: spesso cinici, fanno discorsi in un conformismo "morale" assolutamente prodigioso. Lucidamente sosteneva Gide, "con i buoni sentimenti si fa cattiva letteratura", oggi, potremmo affermare "si fa audience". È evidente che i mass media si muovono in uno spazio sociale strutturato e consacrano i prodotti di cultura media, partendo da presupposti condivisi e sollevando problemi senza storia. Si costruisce così l’oggetto conformemente alle categorie percettive del recettore. Il gioco della drammatizzazione per quanto concerne i giovani, si esplicita su problemi inerenti la scuola, la famiglia, intese come monadi avulse dal contesto. Intanto, rimuovendo la psicanalisi da salotto e lo psicologismo dilagante, sarebbe opportuno riflettere sul fatto che sono nati siti internet in omaggio a Erika e che il massacro di Novi Ligure sta scatenando i fans. Ciò che sfugge ai pensatori "progrediti" è che il contesto sociale, nei suoi presupposti, espelle "l’economia del dono". Nella convinzione che "l’idolatria" la si sconfigge solo riconoscendola, giova focalizzare l’attenzione sulla soppressione odierna del "senso della tragedia", ossia della coscienza della morte. La nostra epoca nega la morte, la esorcizza, e così facendo nega un aspetto fondamentale della vita. Ciò comporta che vengano meno i forti incentivi alla vita e le basi stesse della solidarietà umana. Ma, come sempre succede nella repressione, gli elementi repressi non cessano di esistere, sicché la morte vive tra noi un’esistenza illegittima, sul piano morale ed umano. Le osservazioni fatte intendono mettere in luce che estrapolare alcuni elementi dal contesto, significa voler ignorare aspetti che concernono l’anomia sociale. Pertanto, quando "gli esperti" del disordine istituito incentrano l’attenzione sulla famiglia, dimenticano il dettaglio non trascurabile che la famiglia è l’agente psicologico della società.

Rievocare Romolo e Remo, Caino e Abele, è riduttivo, infatti, come ha dimostrato Durkheim, "l’anomia" prescinde dai casi individuali e dalle malattie mentali, perché è radicata nel tessuto sociale. Occorre, quindi, guardarsi dal sottovalutare la pressione o l’oppressione, continue e spesso inavvertite, dell’ordine-ordinario delle cose, i condizionamenti imposti dalle condizioni materiali di esistenza, attraverso le sorde ingiunzioni e la "violenza inerte" delle strutture economiche e sociali e dei meccanismi attraverso i quali esse si riproducono. Ciò significa che esiste una ragione non pura ma sociale. Pertanto, le semplificazioni a buon mercato di uno psicologismo di maniera, inficiano ogni indagine sul processo di anomizzazione dell’individuo.

La famiglia, quindi, non è neutrale, perché si colloca in un contesto sociale determinato, non generico, ma specifico, sicché proprio la famiglia diviene specchio e tramite dei rapporti di potere e del mantenimento dell’ordine simbolico. D’altra parte oggi le funzioni socializzatrici della famiglia sono assorbite da gruppi esterni e dai mass-media.

Occorre, pertanto, rilevare che alla radice delle variegate forme di violenza, vi è una società oppressiva, distruttiva della libertà e dell’autonomia dell’individuo. Da qui il "falso io", che diviene un oggetto fra i tanti oggetti del mondo, sicché l’attività dell’individuo finisce con l’essere, in modo coatto, alienata, fino a diventare solo un insieme di scimmiottamenti, caricature e frammenti estranei e passeggeri. Ne consegue che, come sosteneva Platone, "siamo tutti marionette della divinità", e ciò è da imputare al fatto che si è rotta l’unità perfetta, spontaneamente vissuta, primitiva, arcaica, fra l’uomo e il mondo.

Si è instaurata, invece, un’unità fittizia e dolorosa, determinata dal sistema capitalistico, che genera sfigurazione della realtà, rimozione del sentimento, violenza del potere, atrofia degli organi mentali e genitali. D’altro canto, l’uomo non è un angelo disincarnato, sicché gli individui non possono mutare se non muta la società, e quest’ultima non può mutare se non mutano gli individui.

Rimuovendo la credenza che il reale è razionale e mutuando Cioran, sostengo che, "sono in attesa di altri dei", pur constatando che la tirannide odierna si avvale delle leggi che regolano la formazione degli imperi. È, dunque, l’approccio deformante con la realtà, creato dagli effetti simbolici del capitale, che provoca non solo impulsi elementari, ma che genera anche forme sempre più razionalizzate di dominio. Preso atto che si è dissolto il carattere sacro dell’uomo, s’impone l’esigenza di negare il turbinio accecante dei riflessi e optare per la "prassi del vero", per "l’evento", nella consapevolezza che, come voleva Pasolini: "l’uomo si esprime con la sua azione, perché il nostro linguaggio primo e puro è la nostra presenza, realtà nella realtà".

 

 

 

 

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