Kamikaze

Gli aspiranti martiri hanno tra i 18 e i 23 anni. Sono reclutati nelle moschee. L'addestramento è spirituale e militare. Fino al giorno del sacrificio. Dopo, le madri non accettano condoglianze, ma soltanto congratulazioni e l'aiuto di Allah e dei martiri i quali purificheranno la nostra terra dalla presenza corruttrice dei sionisti... la voce dello sceicco giunge attutita, ma ha la solennità delle grandi occasioni. Mahmud Ahmed Marmash, vent'anni, il kamikaze palestinese di Tulkaren che si è fatto saltare in aria venerdì 18 all'ingresso del centro commerciale di Hasharon, a Netanya, quella frase l'aveva ascoltata molte volte nei sermoni alla moschea che frequentava assiduamente. Ma quel giovedì sera era diverso. Lui era sepolto vivo in una tomba vuota, nel cimitero di misere lapidi e fiori di plastica. Una lamiera copriva la sua fossa, il buio era totale, e l'ossigeno lentamente si esauriva. Eppure Mahmud, determinato, resisteva. Era l'ultima prova, il salto di qualità per trasformarsi il giorno dopo in una bomba umana e seminare morte. La mattina seguente la metamorfosi. Si rade la barba (simbolo di ogni bravo musulmano) per non dare nell'occhio, indossa il vestito buono, fa l'ultima preghiera in moschea e si avvia a percorrere i 16 chilometri che separano Tulkaren (nord della Cisgiordania) da Netanya, ridente cittadina israeliana sul Mediterraneo. Lungo la strada, in uno dei tanti centri di assistenza sociale legati alle organizzazioni integraliste di Hamas e Jahad islamica, riceve il giubbotto antiproiettile in cui sono nascosti i candelotti di esplosivo che da lì a poche ore gli squarceranno il corpo e lo trasformeranno in uno "shaid", un martire. Ed elargitore di morte e terrore. Due giorni prima del suo sacrificio, Mahmud nello stesso centro sociale aveva registrato in una videocassetta il suo addio al mondo terreno con un messaggio: «Voglio vendicare il sangue dei palestinesi. In particolare, il sangue delle donne, dei vecchi, dei bambini... Offro questo mio modesto gesto a tutti i musulmani credenti, che ammirano i martiri e che operano in loro favore». L'esempio di Mahmud e la risposta israeliana, che ha usato gli F16 per colpire postazioni palestinesi, hanno dato maggiore linfa ai giovani palestinesi, impazienti di scatenare la loro vendetta: 250 volontari pronti a immolarsi sarebbero stati arruolati da una organizzazione integralista nei pressi di Gerusalemme. Con direttive precise: uccidere cinque civili israeliani per ogni civile palestinese e cinque soldati di Israele per ogni agente ucciso. Ma chi sono questi giovani, quale la loro provenienza sociale, e quali le motivazioni di gesta così estreme? Senza terra, senza futuro. Secondo una ricerca del quotidiano israeliano "Yediot Ahronot ", nel 64 per cento hanno una età tra i 18 e i 23 anni; il rimanente 36 per cento tra i 24 e i 30. Nel 47 per cento hanno una educazione universitaria, il 29 ha frequentato le scuole medie e il 24 solo le elementari. L'83 per cento è celibe. Quindi, sono tutti giovani cresciuti sotto l'occupazione israeliana che significa soprusi, umiliazioni, repressione. Molti di loro poi sono stati protagonisti, da ragazzini, della prima Intifada (1987-1993). «La maggior parte proviene dai campi profughi , come i loro genitori. E come i loro genitori senza speranza, senza futuro», dice il dottor Iyad Sarraj, responsabile di assistenza psichiatrica a Gaza: «Molti, all'inizio, hanno creduto alla pace, anche se considerata ingiusta. Poi, delusi nel vedere la loro terra non restituita, ma frantumata e divisa, hanno risposto all'appello islamico. La figura del kamikaze non ha mai fatto parte del bagaglio politico-militare della lotta di liberazione palestinese», conclude Sarraj. In effetti, il primo attentato suicida è avvenuto il 6 aprile del 1994 ad Afula e causò la morte di nove israeliani. Fu la risposta, 40 giorni dopo, all'uccisione di 29 palestinesi in preghiera nella moschea dei patriarchi a Hebron da parte del colono, Baruch Goldstein, medico dell'insediamento di Kiryat Arba. Da allora, 54 sono stati gli attentati di kamikaze portati a termine. Una trentina quelli sventati dai servizi israeliani. Il sentimento del "martire" è talmente radicato ormai nella società palestinese, che non ci sono lacrime di disperazione tra i famigliari, né provano vergogna per un massacro. Lo "shaid" porta onore e rispetto. Non accettano condoglianze, ma solo congratulazioni. Così è stato anche per la madre, le sorelle i fratelli di Mahmud. I vicini di casa hanno fatto visita, portando dolci e cibi. Ma come vengono iniziati questi giovani all'appuntamento con la morte? Due le preparazioni fondamentali, quella spirituale-ideologica e quella tecnico-militare. La preparazione spirituale. Avviene nelle moschee o nei centri sociali, con l'aiuto di uno sceicco, attraverso filmati dedicati alle azioni dei guerriglieri islamici e videocassette che riproducono messaggi e discorsi di diversi sceicchi arabi. Il sermone più gettonato, quello del saudita Saleh Ben Mohamed Hamid pronunciato nella grande moschea della Mecca, dal titolo "L'aggressione degli ebrei in Palestina". Tuona lo sceicco: «Quanto fioriva è diventato secco e la speranza si è trasformata in disperazione. Gli ebrei uccidono e torturano coi metodi dei faraoni. Noi uccideremo i loro figli, godremo delle loro mogli, li conquisteremo». Molta ispirazione anche dal Corano, la vera fonte didattica. Il versetto più seguito, quello che racchiude il precetto della "shahada", il martirio, come gesto di fede e di testimonianza. Chi mette in pratica questa aspirazione riceve in premio il Paradiso e 72 mogli vergini, un posto alla destra di Allah e un giorno, la ricongiunzione con dieci membri della famiglia. La preparazione militare. È semplice. Intanto sta ai responsabili del braccio armato delle varie organizzazioni integraliste, individuare il soggetto. Scartati gli emotivi o le teste calde, i reclutatori studiano i possibili candidati durante le preghiere in moschea o nelle attività sociali. La scelta cade sempre tra i giovani, un serbatoio di migliaia di seguaci. Prima lezione: imparare a simulare e sapersi mimetizzare. I famigliari e gli amici non devono avere alcun sospetto. Poi, alcune settimane di preparazione tecnica. Cellulari per far detonare l'ordigno, semplici siringhe che premute mettono in funzione un detonatore o normali interruttori di corrente. Poi, la vita del kamikaze continua normale. Come è avvenuto per Mahmud, giovane falegname di Tulkaren. Fino alla chiamata e a quell'ultima prova in una fossa di un cimitero, prima di seminare morte e terrore.

 

 

 

 

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