Osama Bin Laden

Si è autoproclamato «emiro della Jihad», principe della guerra santa. E principe, Osama Bin Laden, uno degli ottomila emiri del regno saudita, lo è davvero. Come molti suoi compatrioti ha il fiuto per gli affari. È un Creso del petrolio e magnate delle costruzioni. Suo padre aveva edificato la maggior parte dei palazzi del paese durante il boom petrolifero in Arabia Saudita. E aveva anche ampliato le grandi moschee della Mecca e Medina, lavori costati 19 miliardi di dollari. Osama, a differenza del padre, ha diversificato le fonti di guadagno: non solo l'edilizia ma investimenti oculati in società americane ed europee, anche italiane, oltre che arabe e islamiche. I suoi guadagni sono valutati intorno ai cinque miliardi di dollari - fra 8 e 9 mila miliardi di lire - che, come fedele servitore di Allah, ha deciso di destinare alla guerra contro l'empio, rappresentato dal «demonio occidentale». Incalcolabili, invece, sono i proventi derivati dal commercio dell'oppio afghano e del khat, l'erba amarognola che yemeniti e somali masticano ogni giorno per raggiungere l'eden psichedelico. Ma Osama Bin Laden è uomo che sa toccare anche le corde del sentimento religioso e dei nazionalismi frustrati di esuli e oppositori musulmani, bussando alle casse di molti importanti miliardari arabi, per la questua a favore della liberazione dei luoghi santi musulmani dalla presenza degli infedeli occidentali. E ogni volta si tratta di assegni non inferiori alle sei cifre in dollari. Da qui l'ap-pellativo di «banchiere del terrore». Perché quei soldi servono, appunto, per seminare terrore. Come è avvenuto venerdì 7 agosto a Nairobi e a Dar-es-Sa-laam, le capitali del Kenya e della Tanzania, in quell'Africa ne-ra dove mai prima d'ora si era manifestato in modo così sanguinario il terrorismo islamico. E infatti, quando si sono contate le vittime intorno alle ambasciate statunitensi dei due paesi, prese di mira con micidiali autobombe (oltre 250 i morti, di cui 12 funzionari americani del-l'ambasciata del Kenya, e 5 mila i feriti), subito è stato additato lui, Bin Laden, come il più probabile mandante, lui bollato dalle diplomazie occidentali come «il terrorista più pericoloso del mondo». Alto, magro, barba fluente, gli occhi spesso spiritati, l'aspetto ascetico, Bin Laden maneggia con la stessa facilità kalashnikov, computer e modernissimi impianti di telecomunicazioni che lo accompagnano sia che si trovi in uno dei suoi numerosi uffici ultratecnologici, come quello che aveva fino a due anni fa a Londra, sia che si rifugi in una grotta sulle montagne dell'Afghanistan. È originario dell'Hadrasmaout, una provincia dello Yemen che l'Arabia Saudita ha inglobato nel suo regno. In questa terra, rigorista in materia di costumi e di religione, le grandi famiglie di commercianti sono favolosamente ricche. Quella di Bin Laden è una delle più ricche. Osama nasce a Riad nel l957, ma studia a Gedda, quartier generale della sua famiglia. Frequenta la scuola coranica e si laurea anche in scienze economiche all'università King Abdul Aziz. Grazie alla sua fama di miliardario trova facile accesso e molti simpatizzanti nei palazzi della famiglia reale. Chi lo ricorda da giovane, lo descrive come il più religioso fra tutti i suoi fratelli. Ma la vera trasformazione del giovane Bin Laden avviene nel 1979 in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan. Nel l980, con l'appoggio della Cia e dell'Arabia Saudita, organizza le brigate volontarie di arabi per difendere i musulmani afghani dall'occupazione dell'armata rossa e da quello che considera l'inevitabile contagio ateo. Una delle imprese legate al suo nome è la costruzione dei tunnel sotterranei che dai confini del Pakistan penetravano nell'Afghanistan per permettere il trasporto di uomini e armamenti sofisticati. Lui stesso, forte dell'addestramento Cia, è stato combattente. «Battersi per un solo giorno in Afghanistan era come pregare per mille giorni», ebbe a dire alcuni anni dopo. Numerosi furono i giovani arabi che accorsero al suo richiamo, pronti a immolarsi per il paese invaso dai sovietici. Venivano dall'Egitto, dall'Algeria, dall'Arabia Saudita, dalla Giordania, dalla Siria, dal Kuwait. Furono soprannominati «gli afghani» e finché durò la guerra presidenti e re di mezzo mondo arabo li incoraggiarono e li esaltarono. Per poi combatterli, una volta rientrati in patria a guerra finita. Infatti, presi dall'ardore fondamentalista, volevano instaurare nei propri paesi la purezza dell'Islam, combattere tutto ciò che aveva sapore di Occidente. Da quelle fila uscirono i terroristi del Fis e del Gia, le due organizzazioni integraliste responsabili di efferati eccidi in Algeria. Osama Bin Laden venne ricevuto in Arabia Saudita, per molti anni, come un eroe e onorato come «combattente della libertà». Ma la luna di miele con la famiglia reale si interruppe nel 1991 per le sue aspre critiche contro i potenti di Riad che accusava «di aver venduto la propria anima a un paese di infedeli», cioè gli Stati Uniti, e in seguito al dispiegamento delle truppe americane sul territorio saudita, giunte per combattere la guerra del Golfo. «Entrando nella penisola dove per 14 secoli nessun'altra nazione aveva osato entrare, il governo americano ha commesso il suo più grave errore», continuava a ricordare ai suoi fedelissimi. «Nemmeno i britannici avevano mai occupato la regione dove stanno le città sante della Mecca e di Medina». Bin Laden, non più gradito in terra saudita, si stabilisce in Sudan, dove sulle sponde del Nilo Blu, nei pressi di Khartum, oltre a curare i propri interessi economici (un'impresa edile, una fattoria che produce semi di girasole, una conceria che esporta pellami di montone in Italia, una azienda per la costruzione di strade) stringe un'alleanza di ferro con Hassan El Tourabi, l'eminenza grigia del regime fondamentalista sudanese, e ideologo dell'internazionale islamica. Abituato a diversificare i proventi delle sue fortune, Bin La-den diversifica anche i teatri di azione. Stabilisce così un altro quartier generale nello Yemen. Qui, negli ultimi due anni, crea una struttura militare, politica e religiosa. Gli esperti americani sostengono che, nello Yemen, la sua organizzazione controlla 4 mila attivisti: metà yemeniti residenti all'estero, 700 sauditi e i rimanenti arabi "afghani" provenienti da Egitto, Tunisia, Libia, Eritrea. Altri 6 mila fedelissimi sarebbero sparsi ovunque, anche in Europa. Nel marzo scorso un giornale arabo pubblicato a Londra, "El Qods el arabi", ha scritto che Bin Laden aveva intenzione di installarsi sulle montagne yemenite per lanciare azioni militari contro le forze americane e saudite. E c'è da stare sicuri che ci proverà, perché, finora almeno, ogni sua minaccia verbale è stata sempre seguita dai fatti. Come nel 1992, proprio ad Aden, con i primi attentati contro il personale americano e in seguito in Arabia Saudita, a Dharan, dove, nel novembre 1995 e nel giugno 1996, morirono in due attentati 19 soldati statunitensi. E come pochi mesi fa, quando in occasione di un vertice del terrore svoltosi sulle montagne dell'Afghanistan, ha incitato i fedeli dell'Islam a insorgere contro «gli interessi americani in tutto il mondo», perché «l'Islam è folle di rabbia contro gli Usa». Puntuali, sono arrivati i suoi kamikaze a seminare il terrore, questa volta in Kenya e Tanzania. L'appello è stato lanciato in occasione della costituzione del Fronte mondiale della Jihad, il cui obiettivo, secondo i giornali arabi, è quello di attaccare gli americani e i loro alleati fino alla «liberazione della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e della Santa moschea (la Mecca) e fino a quando i soldati americani non abbandoneranno tutte le terre del'Islam». A questi obiettivi hanno aderito non solo gruppi arabi, ma anche asiatici e africani (vedi scheda a pag. 76). Tra le organizzazioni presenti, le più importanti e note per i loro attentati erano la Jihad islamica e la Jihad Islamya egiziane, il movimento pakistano Ansars e la Jihad del Bangladesh. Due anni fa, mentre cresceva il suo carisma tra la popolazione saudita, Osama Bin Laden è stato privato della cittadinanza saudita e messo al bando. Anche la Gran Bretagna, dietro pressioni di Riad, gli ha negato il visto di ingresso. A Londra, Bin Laden era di casa, e, nella numerosa comunità musulmana, viene tuttora considerato il simbolo della lotta armata islamica. Nella capitale britannica è titolare di enti finanziari e caritatevoli al pari di decine di altri disseminati in Germania, Italia, Croazia e Pakistan, e naturalmente in Afghanistan, e di diversi uffici. Ma soprattutto, grazie anche alla sua generosità, è riuscito ad allacciare contatti e a stringere alleanze con la frastagliata galassia di gruppi e organizzazioni fondamentalisti, così da fare di Londra il centro dell'integralismo islamico. Poco prima di essere espulso, in una intervista al quotidiano "The Independent" aveva dichiarato: «La guerra contro gli Stati Uniti è cominciata. Non è una dichiarazione di guerra, è una descrizione della situazione. Loro sono contro tutti i musulmani» . Della sua vita privata si sa che ha quattro mogli, come permette il Corano. Da un po' di tempo, è venuto alla ribalta anche il maggiore dei suoi figli, Omar. Fino all'anno scorso, lo si poteva incontrare per le vie di Londra, o in uno degli uffici del padre, o ai vari convegni che alcuni gruppi islamici organizzano. A differenza di molti rampolli della famiglia reale o della ricca borghesia saudita, non frequenta discoteche e prostitute di alto bordo. Anche lui, a diciott'anni, ha assunto l'aspetto ascetico del padre. Dimesso, con poveri sandali di plastica ai piedi e indosso la galabya bianca, sembra il figlio di un poveraccio piuttosto che di un miliardario. Ora che il padre è il ricercato numero uno del terrorismo e inseguito dalla taglia di due milioni di dollari posta sulla sua testa dagli americani, Omar è pronto a raccogliere lo scettro della guerra santa contro l'empio nemico chiamato America.

 

 

 

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