lettera 74

di Ettore Masina

Da cinquant’anni, anzi da quasi cinquantaquattro, noi ogni giorno ci alziamo, portiamo i bambini a scuola e noi stessi al lavoro, ritorniamo a casa, mangiamo, andiamo a dormire e intanto in Palestina muoiono ammazzati uomini donne e bambini. No, non è un genocidio: è uno stillicidio omicida, come se il tempo fosse segnato da una mostruosa gigantesca clessidra attraverso la quale passano non granelli di sabbia ma corpi di uccisi.

Da cinquant’anni, anzi da quasi cinquattaquattro, noi ci innamoriamo, sogniamo, preghiamo, frequentiamo concerti, organizziamo feste fra amici, ci commoviamo leggendo le pagine di grandi scrittori, tentiamo di scrivere poesie e di imparare nuove tecniche per dialogare con persone lontanissime, insomma cerchiamo di rendere la nostra vita più bella, più ricca dal punto di vista sentimentale e intanto uomini donne bambini palestinesi continuano a morire ammazzati, uno dopo l’altro, o in stragi crudelissime,  dietro i muri di una solitudine che rimarrà una vergogna per la storia del nostro tempo.

In questo mezzo secolo di martirio palestinese, nei tranquilli territori europei alcuni di noi sono giunti alla vecchiaia, altri hanno maturato la loro giovinezza, ed altri ancora sono nati mentre a due ore di distanza di aereo i palestinesi continuavano a morire, in diverse maniere. Nei primi decenni ci sono state, “laggiù”, guerre terribili. Allora per qualche giorno – o settimana – siamo stati costretti da orrendi rumori e visioni di massacri a pensare al Medio Oriente. Ma gli eserciti innalzano le loro bandiere proprio per farci sapere che la guerra è cosa loro, noi ne siamo fortunatamente (almeno direttamente) esclusi. Così a quel sangue e a quelle morti abbiamo dedicato l’attenzione dolorosa – o forse soltanto  perplessa - che si presta ad eventi atroci e disgustosi ma che non ci appartengono. Oppure è accaduto a non pochi di prendere posizione su quelle guerre, parteggiando per il “piccolo”, moderno, civile, “occidentale”, “europeo” Israele aggredito da arabi fanatici, straccioni e sporchi. Ricordo ancora sui cruscotti di molte automobili milanesi l’adesivo “Io sono per Israele”.

Poi le guerre si sono rivelate più che mai criminali e inutili, il “piccolo” Israele minacciato essendo in realtà un gigante, issato com’è sulle spalle degli Stati Uniti e difeso dalle armi dell’Impero; e anzi qualcuno di noi ha capito che in quella faziosità filo-israeliana era contenuto un grano di razzismo. Franco Fornari, grande psico-analista, ci ammoniva: concedere a Israele il diritto di comportarsi in modi che non si consentirebbero ad altri popoli significa pensare che esso è qualcosa di geneticamente diverso da noi…

Finita l’epoca delle guerre, è cominciata la più macabra delle routines. Come le stragi degli week-end nei paesi industriali, le morti di uomini donne e bambini palestinesi scandiscono nel Medio Oriente le cronache di una violenza che, nella sua insensatezza, sembra ormai inestirpabile. Negli ultimi anni i palestinesi non sono morti di guerre ma sono morti di nostalgia nell’esilio, di miseria da espropri e da disoccupazione, di torture, di prigionie nel deserto, di spietate rappresaglie di ogni atto insurrezionale, di malattie da repressione: denutrizione, mancanza d’acqua, ritardi nei soccorsi medici a causa dei blocchi stradali, immensa difficoltà di stabilire un minimo di condizioni igieniche nei campi profughi, in cui per mezzo secolo decine di migliaia di palestinesi sono stati costretti a vivere e in cui per mezzo secolo gli israeliani hanno impedito ogni miglioria. Ma si potrebbe dire che i palestinesi sono morti soprattutto di solitudine perché il loro martirio di mezzo secolo è anche e soprattutto amara consapevolezza di costituire per l’opinione pubblica internazionale ben più un fastidio che un problema. Anche gli stati arabi, nella loro grande maggioranza, hanno preferito l’oltranzismo delle parole agli atti di solidarietà che avrebbero potuto e dovuto offrire ai loro “fratelli”.

Adesso, a Durban , in occasione della Conferenza dell’ONU dedicata al tema del razzismo, Israele è stato accusato di questa nefandezza. I suoi leaders sono insorti sdegnati, loro e i loro protettori americani; se ne sono andati, sbattendo la porta egridando: “E’ un mare di odio che si rovescia su di noi”. Capisco quanto risuoni infame ad orecchie di ebrei l’accusa di razzismo: è a causa del concetto di razza, come tutti sappiamo, che il popolo ebreo ha subìto spietate persecuzioni che avvelenano la storia della civiltà “cristiana”; e penso che sia improprio usare la parola “razzismo” nei confronti di Israele perché nessuno in Israele ha mai teorizzato, come invece è avvenuto negli stati razzisti, l’ignobile dicotomia superuomo/sottouomo. Tuttavia è un fatto che se una delle componenti “pratiche” del razzismo è l’apartheid allora qualche governante israeliano dovrebbe spiegare quale sia la pienezza di diritti dei cittadini arabo-israeliani nello stato in cui hanno accettato di vivere. Se una componente pratica del razzismo è il disprezzo per la dignità delle persone di diversa etnia, allora qualcuno dei dirigenti israeliani dovrebbe spiegare perché a milioni di persone che da cinquant’anni lottano per proclamare la propria identità nazionale la dirigenza politica di Israele (spalleggiata dagli Stati Uniti) continui a negare il diritto di costituirsi stato, quasi fosse una mandria di bestie selvagge e raminghe; e nella stessa carne viva delle piccole isole di “autonomia” palestinese conficchi come enormi chiodi martorianti le arroganti presenze dei coloni. Se una componente pratica del razzismo è la volontà di “pulizia etnica” (nel senso di appropriazione esclusiva di un territorio da parte di un’etnia), allora qualche autorevole israeliano dovrebbe spiegare come si possa definire diversamente quella inesorabile, spietata, continua eliminazione burocratica di palestinesi dall’anagrafe di Gerusalemme.

Non gioisco del clima di Durban, non applaudo alle conclusioni della Conferenza delle ong, non dimentico che negli anni vi sono stati da parte palestinese, sotto il peso di terribili decisioni prese a loro carico con indifferente crudeltà, atti e parole stupidamente violente e anche razziste– errori, del resto, durissimamente pagati e rinnegati. E tuttavia mi domando: come potevano Sharon & Co sperare di ricevere a Durban un trattamento diverso? Non soltanto decine di organizzazioni non-governa- tive (a cominciare da molte italiane) sono state testimoni delle umiliazioni, delle vere e proprie rapine (di acqua e di terre), delle crudeltà perpetrate dagli israeliani nei territori occupati, ma sono centinaia e centinaia le risoluzioni dell’ONU alle quali Israele, con il favoreggiamento di Washington, ha opposto il disprezzo più arrogante.

Benché a qualcuno che legge queste righe possa sembrare impossibile, io amo Israele, come amo tutti i popoli del mondo. E, anzi, lo amo di più perché quel popolo vive sulla terra in cui si mossero i passi dei suoi e miei progenitori nella fede, e del Cristo Gesù. Tuttavia io penso, in nome di quell’amore, che Israele vada preservata dall’ignominia nella quale va precipitando. I suoi giovani e le sue giovani passano anni ad imparare a uccidere (anche bambini: quanti bambini palestinesi sono stati ammazzati!), per difendere la brutalità di una dominazione coloniale; i suoi governanti sono spinti da una realpolitik senza scrupoli a vivere amicizie torbide, mafiose e, almeno esse, genocide: non sono stati forse lo Shin Bet (il servizio segreto) e l’esercito israeliano ad addestrare i generali guatemaltechi, i commandos del Sudafrica dell’epoca razzista, i corpi speciali di Pinochet? Israele manda ambasciatori nei paesi democratici e si scopre che essi non soltanto hanno praticato, da “professionisti” o da mandanti, la tortura ma continuano a sostenerne la necessità. Gli psicologi istraeliani di quando in quando levano la voce: non si può vivere di odio e di paure trasformate in violenza, senza poi subire devastazioni psichiche. Sembrerebbe voce nel deserto, se non ci fossero i pacifisti israeliani, i giovani coraggiosi di B’Tselem, i soldati e le soldatesse che, in numero crescente, si rifiutano di andare a servire la repressione..

La risposta del governo di Israele alle accuse che gli vengono rivolte è che i palestinesi usano il terrorismo. Terribile realtà che apre davanti ai nostri occhi spetta-coli atroci, che nessuna ragione umana può difendere. E tuttavia è la storia, se non la ragione, a porre terribili domande: se a un popolo è negato per mezzo secolo ogni diritto all’esistenza in quanto tale, se un’intera biblioteca di rapporti e di piani di conciliazione è stata ridotta a carta straccia da chi ha la supremazia delle armi, se grandinano su quel popolo la mostruosità di punizioni collettive che negano alla radice i diritti umani, è davvero possibile pensare che la disperazione non generi mostri? Forse che non generò terroristi il disperato “patriottismo sionista”, dalla Banda Stern all’Irgùm? E alcuni dei suoi adepti non salirono poi sino al vertice dello stato israeliano? E non è il terrorista Sharon, responsabile delle stragi di Sabra e Chatila, a presiedere oggi il governo di Israele? E ancora: se la leadership di Arafat viene scossa in tutti i modi, non vigoreggerà la follìa di Hamas? La vera minaccia a Israele non è l’oceano arabo che lo circonda (in realtà pietrificato dalla vigilanza degli Stati Uniti),è il terrorismo che Sharon & Co fanno crescere con le loro crudeltà e provocazioni.

La triste, angosciante realtà è che Israele pretende di essere uno stato etnico con un popolo tale soltanto per diritto di sangue. E’ un’anomalia della storia che la terribile anomalia storica dello Shoa può far comprendere ma non rende meno anacronistica e produttiva di tragedie senza fine. E noi, per amore di Israele e della Palestina, dobbiamo subito chiedere ai nostri rappresentanti politici – quelli italiani e quelli europei – troppo spesso piegati da complessi e interessi, di intervenire finalmente con forza perché si smetta di sacrificare a quella anomalia tanto sangue palestinese.

P.S. Ricordando quanto mi addolorasse, quando ero deputato, sentir dire che i parlamentari erano tutti eguali, desidero qui esprimere pubblicamente la mia riconoscenza (e certamente quella di tanti altri e altre) a Luisa Morgantini, parlamentare europea, per il suo inesauribile impegno nei confronti del popolo palestinese.

 

 

 

 

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