(per la Rubrica

Lettere Parole)

 

Marguerite Yourcenar pubblicò Alexis nel 1929, all’età di 24 anni.

«Trent’anni circa son passati dalla sua pubblicazione», e l’autrice scrive una breve prefazione al testo. Quindi mi astengo dall’esprimere mie opinioni personali e riporto le parole di Marguerite Yourcenar, degli anni intorno al ’60.

«Sembra davvero che il problema intimo di Alexis non sia oggi meno angoscioso o meno segreto di un tempo», benché allora fosse ambientato in «un paese ormai scomparso dalle carte geografiche», nella «vecchia atmosfera di Europa centrale e francese». Esattamente non etichetta a parole, l’autrice, quale sia questo problema, ma dalle prime pagine affiora da dentro la vita, da principio. «Certi argomenti fanno parte dell’aria di un certo tempo; e anche della trama di una vita». «Alexis è il ritratto di una voce», che, seguendo le pagine di questa lettera, che Yourcenar immagina Alexis abbia scritto alla moglie Monique, lentamente prende corpo. Si sente prepotentemente «l’influenza dell’opera grave e commossa di Rilke», ed è inevitabile pensare ai quaderni di Malte Laurids Brigge (1910). «Non si è forse osservato abbastanza che il problema della libertà sensuale in tutte le sue forme è in gran parte un problema di libertà di espressione». E se nel libro un concetto predomina su tutto, a dispetto dello stile che confonde una vita col suo immutabile dubbio, questi è forse proprio il problema dell’espressione. Su questo presupposto, verso l’esistenza personale del protagonista, si sfilano le ragioni e le emozioni fino a che capire appare davvero poca cosa, qualsiasi cosa ci sia da capire. Forse così l’unica frase di Alexis è l’ultima del libro, l’unica sintetica ed essenziale, che esprime crudelmente e sinceramente quel che troppo lungamente si era voluto tacere: la via di fuga della libera espressione, quel che si è, ed anche quel che non si è.

Dall’altra parte di Alexis, troviamo Monique, «comodità e rispettabilità prefabbricate, e di cui Monique, volente o nolente, è diventata il simbolo», forse, ma Monique che, ad ogni modo, non risponde, perché, appunto, Alexis è una voce, una lettera, una musica, parole o mutismo, ma senza risposta.

        

Così Yourcenar: «Ho pensato talvolta di scrivere una risposta di Monique che, senza contraddire in nulla la confidenza di Alexis, chiarirebbe alcuni punti di questa avventura, dandoci della giovane donna un’immagine meno idealizzata ma più completa. Vi ho rinunziato, per il momento. Niente è più segreto di un’esistenza femminile. Il racconto di Monique sarebbe forse più difficile da scrivere che non le confessioni di Alexis».

 

Non so se Yourcenar abbia poi più risposto ad Alexis, vista la gravità che il compito le imponeva, ma è proprio quello che vi invito a fare, per gioco: rispondere. Solito indirizzo, dove potete inviare: lettereparole@tiscali.it

 

Perdonerete la lunghezza della lettera riportata, ma ogni taglio è stato faticoso.

  

Marguerite Yourcenar, Alexis ou le traité du vain combat, Editions Gallimard, 1971, trad. it. di Maria Luisa Spaziani, Alexis o il trattato della lotta vana, Feltrinelli, Milano 1997.

 

••••••••???????¦¦¦¦¦¦¦???????????????

 

 

 

 

A Monique, Losanna, 31 agosto 1927 – 17 settembre 1928

 

«Questa lettera, amica mia, sarà lunghissima. Non mi piace troppo scrivere. Ho letto sovente che le parole tradiscono il pensiero, ma mi sembra che le parole scritte lo tradiscano ancor di più. Tu sai ciò che resta di un testo dopo due successive traduzioni. E poi, io non sono abile. Scrivere è una scelta perpetua tra mille espressioni, nessuna delle quali, avulsa dalle altre, mi soddisfa completamente. Eppure dovrei sapere che soltanto la musica permette il concatenarsi degli accordi. Una lettera, anche la più lunga, costringe a semplificare ciò che non avrebbe dovuto essere semplificato: si è sempre così poco chiari quando si tenta di essere esaurienti! Qui vorrei fare uno sforzo, non soltanto di sincerità, ma anche di esattezza; ce ne saranno cancellature in queste pagine; ce ne sono già. Ciò che ti chiedo (la sola cosa che ti possa chiedere ancora) è di non saltare alcuna di queste righe che mi saranno costate tanto. Se è difficile vivere, è ancora più difficile spiegare la propria vita.

Meglio sarebbe, forse, che io non me ne andassi senza una parola, come per vergogna, o come se tu avessi compreso. Avrei fatto meglio a spiegarmi a voce bassa, lentissimamente, nell’intimità di una stanza, in quell’ora senza luce in cui ci si vede così poco da osar quasi confessare tutto. Ma ti conosco, amica mia. Tu sei molto buona. In un racconto di questo genere c’è qualcosa di pietoso che può spingere all’intenerimento; avendomi compatito, crederesti di avermi compreso. Ti conosco. Vorresti risparmiarmi ciò che ha di umiliante  una spiegazione così lunga; m’interromperesti troppo presto; io avrei la debolezza, a ogni frase, di sperare d’essere interrotto. Tu hai inoltre un’altra qualità (un difetto, forse) di cui parlerò fra poco e di cui non voglio più abusare. Sono troppo colpevole nei tuoi riguardi per non obbligarmi a porre una distanza tra me stesso e la tua pietà. (…)

Ma, lo vedi, sto esitando; ogni parola che scrivo mi allontana un po’ di più da quel che volevo esprimere in principio; ciò prova soltanto che il coraggio mi manca. Anche la semplicità mi manca. Mi è sempre mancata. Ma neppure la vita è semplice, e non è colpa mia. E soltanto la certezza che tu non sei felice mi persuade a continuare. Noi abbiamo tanto mentito, e tanto sofferto della menzogna, che non c’è poi troppo rischio a provare se la sincerità guarisce. (…)

Il bambino che io ero, il bambino di Woroïno non c’è più, e tutta la nostra esistenza ha come condizione l’infedeltà a noi stessi. (…)

Tu conosci gli stagni di Woroïno; dici che sembrano grossi brandelli di cielo grigio caduti sulla terra, affaticati a risalire sotto forma di nebbia. Bambino, ne avevo paura. Comprendevo già che ogni cosa ha il suo segreto, gli stagni come il resto; che la pace, come il silenzio, non è mai altro che una superficie, e che la peggior menzogna è la menzogna della calma. Tutta la mia infanzia, quando mi torna in mente, mi appare come una grande calma ai margini di quella vasta inquietudine che doveva essere la vita intera. Penso a certe circostanze, troppo minute per raccontarle, cui allora non feci caso, ma nelle quali ora distinguo i primi fremiti premonitori (fremiti della carne e fremiti del cuore), simili al soffio divino di cui parlano le Scritture. Vi sono momenti della nostra esistenza nei quali noi siamo, in modo inspiegabile e quasi agghiacciante, ciò che più tardi diventeremo. Mi sembra, amica mia, di aver cambiato così poco! (…)

Sento che sto diventando molto oscuro. Certo basterebbe, per spiegarmi, qualche termine preciso, che non sarebbe neppure indecente dal momento che è scientifico. Ma non ne farò uso. Non credere che ne abbia paura: non bisogna aver timore della parole, dopo che si è ceduto ai fatti. Semplicemente, non posso. Non posso, non soltanto per delicatezza e perché mi rivolgo a te: non posso di fronte a me stesso. So che ci sono dei nomi per tutte le malattie, e che ciò di cui ti parlo viene ritenuto una malattia. Io stesso l’ho creduto per molto tempo. Ma non sono medico; non sono neanche più certo di essere un ammalato. La vita, Monique, è molto più complessa di tutte le possibili definizioni; ogni immagine semplificata rischia sempre di essere volgare. (…)

La vita è qualcosa di più della poesia; è qualcosa di più della fisiologia e persino della morale, in cui ho creduto per tanto tempo. È tutto ciò e molto di più ancora: è la vita. È il solo nostro bene e la sola nostra maledizione. Noi viviamo, Monique; ognuno di noi ha la sua vita particolare, unica, determinata da tutto il passato, sul quale non abbiamo alcun potere, e che determina a sua volta, per poco che sia, tutto il futuro. La nostra vita. La vita che appartiene a noi soli, che non si ripeterà una seconda volta e che non siamo certi di comprendere del tutto. E ciò che sto dicendo della vita intera lo potrei dire di ogni momento di una vita. Gli altri vedono la nostra presenza, i nostri gesti, e come le parole si formano sulle nostre labbra; soli, noi vediamo la nostra vita. Questo è strano: la vediamo; stupiamo che sia così, e non possiamo cambiarla. Anche quando la giudichiamo, le apparteniamo ancora; la nostra approvazione o il nostro biasimo ne fanno parte; è sempre lei che riflette se stessa. Poiché non c’è null’altro; il mondo, per ognuno di noi, non esiste se non in quanto confina con la nostra vita. E gli elementi che la compongono non sono scindibili: so troppo bene che gli istinti di cui andiamo fieri e quelli che non confessiamo hanno, in fondo, la stessa origine. Non ne potremmo sopprimere uno senza modificare tutti gli altri. Le parole servono a tanta gente, Monique, che non si addicono più a nessuno; come potrebbe un termine scientifico spiegare una vita? Non spiega neanche un fatto; lo designa. Lo designa sempre nella stessa maniera, eppure non ci sono due fatti identici in diverse vite, e forse nemmeno in una sola. I fatti sono, tutto sommato, assai semplici; è facile renderne conto: può darsi che tu li sospetti già. Ma quando saprai tutto, mi resterà ancora da spiegarmi a me stesso. (…)

 Ero l’ultimo figlio di una numerosissima famiglia; ero di natura cagionevole; mia madre e le mie sorelle non erano felici; ecco più di una ragione perché io fossi amato. (…)

Mia madre è morta presto: tu non l’hai conosciuta; la vita e la morte mi hanno ugualmente preso le sorelle; erano allora così giovani che potevano sembrare belle quasi tutte. Tutte, credo, avevano già il loro amore, che portavano celato nel profondo del loro essere come più tardi, sposate, hanno portato il bambino o la malattia di cui dovevano morire. (…)

Naturalmente, io ero troppo giovane perché si confidassero con me; ma indovinavo; mi associavo ai loro dispiaceri. Quando colui che esse amavano entrava all’improvviso, il cuore mi batteva, forse più che a loro. È pericoloso, ne sono certo, per un adolescente sensibilissimo, imparare a vedere l’amore attraverso i sogni delle fanciulle, anche quand’esse sembrano pure e lui stesso crede di esserlo.

Mi trovo per la seconda volta sull’orlo di una confessione; è meglio farla subito, e nel modo più semplice. Le mie sorelle, lo so bene, avevano anche delle compagne che vivevano familiarmente con noi, e di cui io finivo per credermi quasi fratello. (…) Non si desidera ciò che si rispetta e nemmeno, forse, ciò che si ama; non si desidera, soprattutto, ciò a cui si somiglia; e quello da cui differivo maggiormente non erano le donne. Il tuo merito, amica mia, non è soltanto di poter capire tutto, ma di poter capire tutto prima che tutto sia detto. Monique, mi capisci? (…)

La gente si scaglia contro l’esempio, contro il contagio morale, e così facendo rinvia sempre più la possibilità di un chiarimento. Non sa che la natura è più varia di quanto la si immagini; non vuole saperlo, perché è più facile indignarsi che pensare. Tesse l’elogio della purezza; non sa quanto di torbido può contenere la purezza; e soprattutto ignora il candore della colpa. Tra i quattordici e i sedici anni avevo meno amici che mai, perché ero più selvatico. Eppure (me ne accorgo oggi), ho rischiato una volta o due di essere felice in piena innocenza. (…)

Le cose, nella vita, non sono mai troppo precise; ed è mentire dipingerle nude, poiché non le vediamo mai se non in una nube di desiderio. (…)

La sofferenza è una. (…) Ho potuto soffrire di più, non ho sofferto diversamente; e del resto ogni volta che si soffre si ha l’impressione di soffrire di più. Ma il dolore non ci rischiara affatto sulla sua causa. Se avessi creduto qualcosa, avrei creduto di essere innamorato di una donna. Ma non sapevo quale. (…)

Mi ammalai. O per meglio dire mi ammalai di più, perché lo ero sempre un poco.

Non fu una malattia molto grave. Fu la mia malattia, quella che avrei conosciuto a più riprese e che avevo già conosciuto; perché ognuno di noi ha la sua malattia particolare come ha la sua igiene e la sua salute, ed è difficile determinarla con esattezza. (…)

Lentamente, come una forma di risposta che davo a me stesso, una musica saliva in me. (…) Non ero più un ragazzetto malaticcio, spaventato di se stesso: credevo di essere diventato ciò che ero veramente, poiché tutti noi ci trasformeremmo se avessimo il coraggio di essere ciò che siamo. (…)

Tu pensi che il mio ritorno sia stato triste; al contrario, ero felice. Mi sentivo salvo. (…)

I miei pensieri non avevano doppiofondo; e pensavo il meno possibile. Ricordo, con un po’ d’ironia, che mi rallegravo di darmi anima e corpo allo studio. Ero come un febbricitante che non trova spiacevole il proprio torpore, ma che teme di muoversi perché il minimo gesto potrebbe dargli dei fremiti. Era ciò che io chiamavo calma. Ho imparato in seguito a temere quella calma in cui ci si addormenta quando si è sull’orlo di certi eventi. Ci si crede tranquilli, forse perché qualcosa, a nostra insaputa, si è già deciso in noi. (…)

E fu allora che la cosa accadde, un mattino simile agli altri… In questo momento, in cui sembro allontanarmi dalla natura, lascia che io la lodi per quel suo essere presente dappertutto, sotto forma di necessità. Il frutto cade soltanto alla sua ora, quando il peso vince la lunga resistenza e riesce a tirarlo verso terra: non c’è altra fatalità che quell’intima maturazione. Non oso raccontarti tutto ciò che in maniera molto vaga; camminavo, non avevo meta; non fu colpa mia se, quel mattino, incontrai la bellezza…

Rincasai. Non voglio drammatizzare le cose: ti accorgeresti subito che sto forzando la verità. Ciò che provavo non era vergogna, era ancor meno rimorso, era piuttosto stupore. Non avevo immaginato tanta semplicità in ciò che ancora poco prima mi ispirava terrore: la facilità del peccato sconcertava il pentimento. Quella semplicità che il piacere mi insegnava, l’ho ritrovata più tardi nella grande povertà, nel dolore, nella malattia, nella morte, voglio dire nella morte degli altri, e spero davvero di ritrovarla un giorno nella mia. È la nostra immaginazione che si sforza di rivestire le cose, ma le cose sono divinamente nude. (…) Per tutta la vita avevo confuso desiderio e paura; non sentivo più né l’uno né l’altra. Non dico che fossi felice: non ero abbastanza abituato alla felicità; ero soltanto stupito di essere così poco sconvolto.

Ogni felicità è un’innocenza. Bisogna, anche se ti scandalizzo, ripetere questa parola che pare sempre meschina, perché nulla prova maggiormente la nostra miseria che l’importanza della felicità. (…) L’emozione del mattino si prolungava nelle frasi musicali della sera; - una certa sfumatura delle stagioni, un certo odore, una certa melodia antica di cui mi invaghii allora sono restati per me degli eterni tentatori, perché mi parlano di un altro. Poi, un mattino, egli non venne più. (…)

Mi promisi soltanto che non sarebbe più capitato; lo giurai a Dio, come se Dio accettasse i giuramenti. (…)

Una sera, a Presburgo, poco tempo dopo la morte di mia sorella, rientrai più smarrito del solito. Avevo amato molto mia sorella. Non voglio dire che la morte mi avesse addolorato eccessivamente; ero troppo tormentato per essere molto commosso. La sofferenza ci rende egoisti, perché ci assorbe completamente… (…)

Mia madre credeva al mio avvenire. Se ho mai desiderato un po’ di gloria, è perché sapevo che ne sarebbe stata felice. Così, via via che scompaiono coloro che abbiamo amato, diminuiscono le ragioni di conquistare una felicità che non possiamo più gustare insieme. (…)

Passai la notte nella mia camera, davanti alla finestra aperta, a immaginare il mio avvenire. Era una notte immensa e chiara… viandanti attardati passavano in silenzio… Può darsi che quella povera gente non pensasse, non soffrisse se non oscuramente, come le cose. (…) Non è difficile nutrire pensieri ammirevoli quando ci sono le stelle. Più difficile è conservarli intatti nella meschinità di ogni giorno; più difficile è essere dinanzi agli altri quel che siamo davanti a Dio. (…)

Ero assolutamente solo. Ho taciuto, fino ad ora, sui visi umani in cui si è incarnato il mio desiderio; non ho interposto, fra te e me, che anonimi fantasmi. (…)

Non li amavo: non desideravo imprigionare fra le mani quel poco di felicità che mi veniva data; non attendevo da loro comprensione e nemmeno la durata di una tenerezza: semplicemente, ascoltavo la loro vita. La vita è il mistero di ogni essere: è così mirabile che la si può sempre amare. (…)

Non soffriamo dei nostri vizi, soffriamo soltanto di non saperli accettare con rassegnazione. (…)

Vinsi. A forza di pietose cadute e di più pietose vittorie, giunsi a vivere un intero anno come avrei desiderato vivere tutta la vita. (…) Feci dei sogni. Conobbi il pericolo delle acque stagnanti. Sembra che agire ci dissolva. (…)

Fu così, amica mia, che imparai a suonare quasi sempre in sordina, come se avessi paura di svegliare qualcosa. Il silenzio non compensa solamente l’impotenza delle parole umane, esso compensa anche, per i musicisti mediocri, la povertà degli accordi. Ho sempre pensato che la musica dovrebbe essere soltanto silenzio, il mistero del silenzio che cerca di esprimersi. Guarda, per esempio, una fontana. L’acqua muta riempie i condotti, vi si raccoglie, trabocca, e la perla che casca è sonora. Mi è sempre sembrato che la musica non dovrebbe essere che l’eccedenza di un grande silenzio. (…)

Temevo di ricader malato, peggio che malato; finii per lamentarmi, ad alta voce, che l’estate venisse così presto. La principessa di Mainau la passava a Wand, in una sua antica proprietà di famiglia. Wand era per me un nome vago, come tutti quei luoghi in cui crediamo di non dover mai vivere: mi ci volle un po’ di tempo per capire che la principessa mi invitava. (…)

Ero andato a Wand per trascorrervi soltanto tre settimane: vi rimasi parecchi mesi. (…)

Poi sei arrivata tu. (…)

Fosse dipeso da me, sarei partito prima del tuo arrivo, ma non mi fu possibile. Capisco, ora, con quale intenzione il principe e la principessa mi trattennero: disgraziatamente avevo, intorno a me, due vecchi preoccupati della mia felicità.

Bisogna, amica mia, che tu perdoni alla principessa Caterina. (…)

Il tuo arrivo mi parve semplicemente un po’ meno sgradevole di quanto avevo temuto in principio. Vedi bene, amica mia, che dico la verità.

Cerco di rivivere, il più esattamente possibile, le settimane che ci condussero al fidanzamento. Monique, non è facile. Devo evitare le parole felicità o amore, perché insomma io non ti ho amata. Ma mi sei diventata cara. (…)

Che dovevo fare? Non si osa dire tutto a una fanciulla, anche se la sua anima è già l’anima di una donna. Mi sarebbero mancati i termini; avrei dato dei miei atti un’immagine più scialba, o forse eccessiva. Significava perderti, insomma… Avevo bisogno di quella fiducia per obbligarmi, in qualche modo, a non tradirla. Mi credevo in diritto (o piuttosto in dovere) di non respingere l’unica possibilità di salvezza che mi offriva la vita. Mi sentivo giunto al limite del coraggio: comprendevo che da solo non sarei più guarito. E volevo guarire, a quell’epoca. Ci si stanca di vivere esclusivamente degli aspetti furtivi, disprezzati della felicità umana. Avrei potuto, con una sola parola, rompere quel tacito fidanzamento: avrei trovato qualche scusa; bastava dire che non ti amavo. Mi astenni, non perché la principessa, mia unica protettrice, non mi avrebbe mai perdonato; mi astenni perché speravo in te. Mi lasciai scivolare, non dico verso questa felicità (amica mia, noi non siamo felici), ma piuttosto verso questo crimine. (…)

Ci sposammo a Wand un giorno molto piovoso di ottobre. Forse, Monique, io avrei preferito che il nostro fidanzamento fosse stato più lungo; mi piace che il tempo ci porti, non che ci trascini. (…)

Era, ricordo, uno di quei giorni misti di sole e di pioggia, che cambiano facilmente espressione, come un viso umano. Sembrava che si sforzasse di far bello, e che io mi sforzassi di essere felice. Mio Dio, ero felice. Ero timidamente felice. (…)

Ti circondavo di un’atmosfera di tenerezza snervante; ti domandavo venti volte di seguito se mi volevi bene; sapevo troppo bene che era impossibile.

Ci costringevamo alle pratiche di una devozione esaltata, che non corrispondeva più alle nostre vere credenze: coloro cui tutto vien meno si appoggiano a Dio, ed è a questo punto che anche Dio li abbandona. (…)

Ogni sera esitavamo ad accendere la lampada; la sua luce ci intimidiva, ma non osavamo più spegnerla. Mi trovavi pallido; non lo eri di meno, tu; temevo che avessi preso freddo; tu mi rimproveravi con dolcezza di essermi affaticato in preghiere troppo lunghe: eravamo, uno per l’altra, di una disperante bontà. A quell’epoca avevi delle insopportabili insonnie; anch’io trovavo difficoltà ad addormentarmi; simulavamo la presenza del sonno, per non essere costretti a compiangerci l’un l’altra. Oppure tu piangevi. Piangevi il più silenziosamente possibile perché io non me ne accorgessi, ed io fingevo allora di non sentire. È forse meglio non accorgersi delle lacrime, quando non possiamo consolarle. (…)

Avevo completamente abbandonato la musica. La musica faceva parte di un mondo in cui mi ero rassegnato a non vivere mai più. (…)

Un quadro, una statua, persino una poesia, ci presentano idee precise, che di solito non ci conducono più in là, ma la musica ci parla di possibilità sconfinate. È pericoloso esporsi alle emozioni dell’arte, quando si è deciso di astenersene nella vita. (…)

L’inverno, poi la primavera passò… Mi sforzavo di credere che sarei stato, a Vienna, meno infelice che altrove; ero soprattutto meno libero. (…)

Non ho ancora detto quanto tu desiderassi un figlio. Io pure lo desideravo appassionatamente. Eppure, quando seppi che avremmo avuto un bambino, sentii ben poca gioia. Il matrimonio senza figli certo non è che un vizio permesso; se l’amore della donna è degno di un rispetto che l’altro amore non merita, è forse unicamente perché esso contiene l’avvenire. Ma non è nel momento in cui la vita sembra assurda e priva di scopo che ci si può rallegrare di perpetuarla. Quel bambino, che sognavamo insieme, stava per venire al mondo fra due estranei: non era né la prova né il completamento della felicità, ma un compenso. (…)

Mi si fece entrare nella tua camera per mostrarmi il bambino. (…)

Egli discendeva, come me, da antenati di Polonia, di Podolia e di Boemia; avrebbe avuto le loro passioni, i loro improvvisi scoramenti, il loro gusto per tristezze e piaceri bizzarri, e tutte le loro fatalità, alle quali si aggiungevano le mie. Poiché noi siamo di una razza ben strana, in cui follia e malinconia si alternano di secolo in secolo, come gli occhi neri e gli occhi azzurri. Daniele e io avevamo gli occhi azzurri. Il bambino piangeva in quel momento tra le braccia delle domestiche; le lampade, appoggiate sul tavolo, rischiaravano confusamente le cose, e i ritratti di famiglia, che di solito non si guardano più a furia di vederli, cessavano di essere una presenza per divenire un’apparizione. La volontà che quei volti di antenati esprimevano si era dunque realizzata: il nostro matrimonio era approdato al figlio. Grazie a lui questa vecchia razza si sarebbe prolungata nell’avvenire; importava poco, ora, che la mia esistenza continuasse: non interessavo più ai morti, e potevo sparire a mia volta, morire, oppure ricominciare a vivere.

La nascita di Daniele non ci aveva avvicinati: ci aveva delusi, tanto quanto l’amore. (…)

Una sera di settembre, la vigilia del nostro ritorno a Vienna, cedetti all’attrazione del pianoforte, rimasto fino ad allora chiuso. Ero solo nel salone quasi buio; era, te l’ho detto, la mia ultima sera a Woroïno. (…) Sapevo che le mie mani non si sarebbero mai più unite a quei tasti, che mai più quella stanza, per merito mio, si sarebbe riempita di accordi. (…)

La mia anima era penetrata più profondamente nella carne; e ciò che rimpiangevo, mentre risalivo di pensiero in pensiero, in accordo in accordo, verso il mio passato più intimo e meno confessabile, non erano le mie colpe, ma le possibilità di gioia che avevo respinto. Non era di aver ceduto troppo sovente, era di aver troppo a lungo e troppo duramente lottato. (…)

Non ho abbastanza fede, amica mia, per limitarmi ai salmi; e se mi pento, è del mio pentirmi. I suoni, Monique, si dispiegano nel tempo come le forme nello spazio, e finché una musica non tace, ella resta, in parte, immersa nell’avvenire. C’è qualcosa di commovente, per l’improvvisatore, in quell’elezione della nota che sta per seguire. Cominciavo a comprendere questa libertà dell’arte e della vita, che non obbediscono se non alle leggi del loro stesso sviluppo. Il ritmo segue il salire dell’intimo affanno: questa auscultazione è terribile quando il cuore batte troppo in fretta. Ciò che ora nasceva dallo strumento in cui per due anni avevo sequestrato tutto me stesso, non era più il canto del sacrificio, non era nemmeno più quello del desiderio, né della gioia così prossima. Era odio; odio per tutto ciò che mi aveva falsato, schiacciato tanto a lungo. Pensavo, con una specie di crudele piacere, che dalla tua camera tu mi sentivi suonare; mi dicevo che ciò bastava, come confessione e come spiegazione.

E fu a questo punto che le mie mani mi apparvero. (…)

Erano mani sbiadite, pallide come l’avorio al quale si appoggiavano, poiché io le avevo private di sole, di lavoro e di gioia. E tuttavia erano ancelle ben fedeli; mi avevano nutrito quando con la musica mi sfamavo; e cominciavo a comprendere che c’è qualcosa di bello nel vivere della nostra arte, perché così ci liberiamo da tutto quel che ne esula. Le mie mani, Monique, mi avrebbero liberato da te. Avrebbero potuto nuovamente tendesi senza costrizione; esse mi aprivano, le mie mani liberatrici, la via di scampo. Forse è assurdo dire tutto, amica mia, ma quella sera, goffamente, alla maniera con cui si suggella un patto con se stessi, io ho baciato le mie due mani.

Se sorvolo rapidamente sui giorni che seguirono, è perché le mie sensazioni non riguardano e non commuovono che me solo. Preferisco conservare per me i ricordi intimi, dacché non ne posso parlare, davanti a te, se non con le precauzioni di un pudore che pare vergogna, e dacché mentirei mostrando del pentimento. Nulla eguaglia la dolcezza di una disfatta che si sa definitiva: a Vienna, in quegli ultimi giorni soleggiati di autunno, provai la meraviglia di ritrovare il mio corpo. Il mio corpo, che mi guarì di avere un’anima. (…) Amica mia, vivere è difficile. Ho costruito abbastanza teorie morali per non costruirne altre, e contraddittorie: sono troppo ragionevole per credere che la felicità non stia se non sull’orlo di un peccato, e il vizio, non meno che la virtù, non possa dare la gioia a quelli che non l’hanno già in sé. Ma io preferisco ancora il peccato (se di peccato si tratta) piuttosto che una negazione di sé, così vicina alla demenza. La vita mi ha fatto ciò che sono, prigioniero (se vogliamo) di istinti che non ho scelto, ma ai quali mi rassegno, e questa accettazione, spero, in mancanza di felicità, mi darà la serenità. Amica mia, ti ho sempre creduta capace di capire tutto, e ciò è assai più raro che perdonare tutto.

E ora ti dico addio. Penso, con infinita dolcezza, alla tua bontà femminile, o piuttosto materna: ti lascio con dispiacere, ma invidio il tuo bambino. Eri il solo essere davanti al quale mi ritenessi colpevole ma scrivere la mia vita mi conferma in me stesso; finisco per compiacerti senza condannarmi con severità. Ti ho tradita; non ho voluto ingannarti. Tu sei di quelle che scelgono sempre, per dovere, il cammino più stretto e più difficile: non voglio, implorando la tua pietà, darti un pretesto per sacrificarti di più. Non avendo saputo vivere secondo la morale comune, cerco, almeno, di essere in accordo con la mia: è al momento in cui si respingono tutti i principi, che conviene munirsi di scrupoli. Avevo assunto nei tuoi riguardi impegni imprudenti che la vita avrebbe disdetto: ti chiedo scusa, il più umilmente possibile, non tanto di lasciarti, quanto di essere rimasto così a lungo.

 

Losanna, 31 agosto 1927 – 17 settembre 1928»

 

(Marguerite Yourcenar)

«15 ottobre 2002

Caro amato Alex

         vedi, non ho paura di usare parole che tu temi. Amore mio ho letto tutta la tua lettera, e ne vorrei leggere altre mille, ed avrei voluto sempre tu mi parlassi come su questa pagina. Adesso, spero tu possa dirmelo: “amore”, ora che tutto il male che potevi, lo hai fatto, su questo mio largo petto.

         Monique la tua, Monique che lasciava il suo prodigo corpo accanto sullo stesso letto la sera, Monique che sempre taceva, ed ora vorrebbe aver urlato sul bordo del bicchiere la sua furia, perché tu non le parlavi, e la lasciavi sola, con la tua bocca sulla sua, ed i tuoi fianchi sopra.

         Marito mio, la ciocca dei miei capelli, di un marrone lucido, da anni ormai non sperava più di sedurti, e così lavavo il mio corpo, con la minuzia di chi non trova consolazione. Mentre tu mi portavi per la mano lungo viali alberati sempre identici nei pomeriggi, e restavi ad ore seduto col giornale, la sigaretta lievemente sussurrata fra le labbra, e mi tornavi sugli occhi per chiedermi e donarmi isperate cortesie. Così scivolavano giorni come notti, e la notte che veniva, trovava le nostre anime nascoste in nudi e chiusi corpi. Ma tanto sai cos’è stata la nostra vita. Inutile io ne ripassi i momenti, però forse conviene ti dica cosa pensavo, cosa per tanto mi sono detta.

         Che tu non mi toglievi nulla, perché mi stringevi nelle tue braccia quando il buio veniva, che tu eri adorabile, perché non mi mancava mai assolutamente nulla, ed eri sempre lieto di trovare la tavola apparecchiata e mi accarezzavi di dolci parole sopra il tepore di una tovaglia dispiegata, ed una buona bottiglia di vino. Mi dicevi che ero semplice, e della nostra semplicità vivevamo.

         Cosa avevo diritto di domandarti, tu mi davi tutto, cosa avrei potuto chiederti, tu eri il mio migliore compagno, non eravamo giovani civettuoli, avrei saputo cosa volere, il tuo indirizzo, il primo appuntamento, e tutto sarebbe stato chiaro, che ti volevo; ma stranamente non avevamo appuntamenti ma già ci eravamo promessi l’intera vita, e la tua dimora non era altra che la mia. Si chiede la x, da bambini, e sale consegnato sul palmo il sogno, noi ci eravamo già dati tutto, e non rimaneva altro da chiederti, perché tu potessi così dirmi il sogno. Se avessi potuto chiederti qualsiasi cosa, vedi, questa cosa non avrei potuto chiederti. Perché è il di più della mano, che viene come un movimento, il di più del cielo, che è azzurro. E non sai perché. Sarebbe stato tanto semplice, aspettarti farmi aspettare con una rosa, ma da quando le coltiviamo assieme da sempre, tutto è eterno e nulla più nasce. Così il mio principe sei tu, marito mio. Tu che mi accarezzi, mi sorridi, e non verrai mai più, forse solo per il buon motivo che non sei mai venuto, e sei qui, mio sposo, per questa vita.

         Sarei sì tanto ridicola a chiedere

                                                       chiedere non so cosa, bisogna chiedere sempre qualcosa di particolare, ma quel che io volevo, solo per il fatto che lo volevo, oramai non può più essere chiesto. È qualcosa di un altro tempo, che non so più quale rapporto abbia con questo che sono io adesso.

                                                                  chiedere di non vedermi, fare finta, per una volta, di non sapermi sempre così bene.

                                                                 chiedere lascia stare questa me, che ora non smarrisci neppure nelle lacrime. Non voglio le tue lacrime. Non voglio nulla per Monique

Ogni autunno seguiva all’estate, ed ogni stagione era precisa a destare i nostri sensi e le nostre abitudini. Tu eri nel mio stomaco, amore mio, la tua palude, tu dietro i miei occhi, tanto che a correre non ti allontanavo, tanto che a ballare mi ritrovavo sul tuo petto, tu mi eri dappertutto non appena mi addormentavo. Sì, il mio collo stretto da un nodo d’amore e lo spago corto da non farmi mai perdere. Così rincasavo, così rincasavi.

         Ma eravamo tristi, tristi di non osare, tristi di essere sempre qui, a baciarci le mani finite le une nelle altre, e tristi a sorriderci lievemente in piccoli baci sulla fronte, per deporre a notte i nostri piccoli corpi al sonno, bocca bocca. Così tu mi tenevi, ed io ti tenevo, mentre tu mi promettevi, ed io ti promettevo, che tutto sarebbe stato eterno. La notte attendevo tu tornassi dal salone, seguivo i tuoi passi, e quando lasciavi il pianoforte venivi da me a baciarmi, poi restavamo stretti e paurosi, nel silenzio.

         Non ti ho mai parlato.

         Non sei il solo che deve scrivere lunghe lettere.

         Perché tu hai sposato un’estranea, ed io ho lasciato che tu amassi una donna come tante altre, una delle tante, che non ero io. Monique, si chiama questa donna, ed a lei tu hai scritto la tua commovente lettera, e l’hai forse portata al pianto, lei avrà avuto pena e compassione, che è così caritatevole e ti ha sempre voluto bene ed ascoltato. Tu sai già tutto il suo pensiero, sai che ne ha sofferto, ha perdonato, forse ha davvero capito. Forse, da Penelope qual è, avrà pure rattoppato quella coperta che non tornava ed avrà anche qualche spiegazione per quel matrimonio che non capiva e per il quale tante volte ha pianto. Starà cucendo cupa sotto una fioca candela, colla testa dentro lo scialle colorato, pensando e dimenticando le misure della tutina per il suo bambino, ed avrà già tessuto un abito per una più grande persona. E tu non rientrerai e lei resterà a piangere, nascondendo gli occhi per una pena d’amore, per le quali non ha parole che non siano pure e semplici, di soffocato dolore.

         Questa notte avrà già letto poesie dal libro che scomodava soltanto quando non sapeva più cosa dire, e forse non oserà pronunciare dalla sua bocca né preghiere né confessioni, perché l’anima fedele non chiede.

         Ma tu sai già tutto della tua Monique, la tua sorella, la tua amica, forse un po’ tua madre, a volte la tua timida figliola.

         Ma tu non hai mai saputo nulla di me. Perché non hai conosciuto la passione, che non usa parole, non riesce nei gesti, ma ti divora senza che tu sappia come. Non staremmo qui, uomo davanti a donna, a parlarci, seduti, tu in piedi, lontani e pacati, un po’ doloranti, se ne avessimo conosciuto una sua qualunque forma.

         La passione non lascia interi. Ammala. Non lascia tutto questo fiato e queste forme su pagine finite, guarda queste lettere, queste parole, sono ancora gli stessi baci della buona notte che mi potevano addormentare in una notte sicura. E non sarebbero venuti i ladri, od ombre bianche di assassino a tagliarci nell’oscurità la gola.

         Ma la passione, rovescia la culla, amore mio, e tu saresti morto bambino.

         Ami raccontarmi ora la tua vita, ed io ti ascolto, e la tua amica ti ascolta, la tua Monique, che tu hai sposato. Come se io non sapessi già tutto della tua vita. Come se non fossi abituata alle tue palpebre calate. Ora certo capisco, ora ho qualche motivo in più per credere che ci sono stati buoni motivi se tu con me non hai voluto passare. Ma, amore mio, avrei preferito tu fossi fuggito con la luce, e questa notte non aver saputo più nulla di te, e pensarti guerriero di un tramonto, ad avvincere le tempeste o la tua vita, lontano da qua. Che tu non c’eri, già lo sapevo.

         Non mi meritavo ancora parole, ancora spiegazioni, ancora di dover capire. Pensa se non sapessi più nulla di te, e finalmente potessi strappare con le mie unghie, le mie calze, queste mutandine, la tua prode ombra. Mi faresti conoscere la passione, ed io vorrei morire con questo dolore nel petto. Ed invece, eccoti bambino, sì, con le mani sporche, occhi grandi, vuoi che ti scusi, magari un manrovescio.

         Magari vuoi pure essere perdonato perché tu mi vuoi bene.

         Pensi che voglia dire qualcosa, questo incespicare di tante pagine sulla tua colpa, l’omosessualità, in cerca di un’espressione qualsiasi, come la musica? Io ora come prima non so nulla della tua attrazione per gli uomini, ma sapevo, che non ti sei mai espresso con me, e cosa vuoi che mi significhi sentirti parlare di uomini o di ragazzi? Tu, a me non hai mai guardato, e mi dovrebbe bastare sentirmi dire che tu eri per gli uomini e tutti indistintamente, che tu eri troppo chiuso nei tuoi patti cogli angeli, per aver pensiero di vedere per un attimo la donna che hai sposato. Colei che avrebbe dovuto salvarti, Monique, l’azione più giusta che tu mai avessi fatto, ed io?

         La musica, la rivale, quel silenzio che a lei dedicavi, mentre piangevo io, nel mio letto, nella mia camera, e ti aspettavo. Avessi sentito il tuo ansimare su di una donna più giovane e più bella, avessi… ti avrei voluto cogliere, ora lo dici, con il tuo naso compresso su una ruvida guancia, con i tuoi capelli fradici, imbevuti della sua saliva, avrei voluto qualunque cosa, tu mi avessi permesso di amarti, mi avessi detto questo è l’amore. Ma non lo sapevi. Ed io non avevo accesso oltre la tua dolcezza ed il tuo continuo volermi bene. Nel nostro possibile ci amiamo, come puoi mi ami, me, me, purtroppo me, Monique, e mi lasci con questa me. Sono triste di me, amico mio.

         Non ti odio, se è questo che temi, il mio perdono è dietro l’angolo della sala, percorri le scale, lo hai di fianco, sai trovarlo, come non sono gelosa dei tuoi desideri sensuali, ma ho rammarico, ho stanchezza, ho tanto silenzio, da spalmarmi tutto il cuore d’un miele amaro, che è stato la nostra vita, che ora è passato molto tempo e tante cose buone e giuste abbiamo fatto, realizzando un mondo, e la nostra vita che è stata sana, semplice, vitale, ricolma di affetto e speranza, vedi nostro figlio. Eppure sono qua, con questa tristezza che continua a parlarmi colla mia voce, abituata alla tua, la solita cantilena, che segue il corso del sole. Però non sei qui, ed in fondo fa lo stesso.

         Solo il cane se ne accorge, eppure ho più dolore a guardare lui, che dentro il mio animo. Nulla è cambiato dacché te ne sei andato.

         Il pianoforte mi rende il suo silenzio come se ancora tu piangessi su di lui, ed io non smetto di lamentare.

         Ho questo niente che è come il qualche cosa che tu mi portavi sempre a casa la sera, e se oggi apparecchio per me sola, il mio animo ha lo stesso pasto completo.

         Sì, leggo, ogni tanto la tua lettera, e scrivo, ed è come averti accanto col tuo imperterrito sorriso e manto chiaro.

         Vuoi che ti dica cosa mi è mancato? un motivo per uccidermi se lui non mi avesse amato; una gioia così forte senza nessun motivo, se non il cronos, il cronologico susseguirsi del mio occhio celeste dopo che lui bacia; mi è mancato il tempo, quando un quando prende il posto d’ogni altro pretesto per vivere; e non si vuol morire prima che si sia visto lui, e dopo può tutto; lui mi è mancato lui, tu non c’eri.

         Ed io non c’ero.

         Tu non hai mai sconvolto quella che non sono ed io non sono mai potuta non essere, sempre legata a questa cucina, a questa Monique. Non mi hai mai fraintesa, non ti sei mai messo a sognare e volare qui intorno a me, liberandomi; hai sempre promesso, legato, attorcigliato, questo tuo cuore al mio, io che volevo fuggire. Ed io non potevo lasciarti, od andarmene, come potevo abbandonarti, tu così debole, piccolo, solo. E poi eri così profondamente vicino al mio affetto, così calorosamente raggomitolato a quella quota dove i volti si confondono e restano solo gli abbracci e la bontà, forse dimora iddio, senza che io sapessi che profilo seguire, su quale tua curva d’occhio o sopracciglio lasciare che la vita mi prendesse o abbandonasse a suo piacimento. Tu mi hai impedito di amarti, ma di questo, che non è una colpa, non ti perdonerò mai.

         Mi hai tolto non solo la tua anima, mi hai tirato via ogni preciso punto del tuo volto, parlandomi di cose che io non so, mentre io avrei voluto soltanto un angolo del tuo corpo da sognare.

         Questo chiedo alla vita, un frammento ben inciso, una via.

         E per questo non occorreva tu parlassi, mi spiegassi, mi guidassi, ma che ti lasciassi guardare. Potevi essere bello, una sola volta per me?

         Non si esprime quel che si è, amico mio, come tu credi, ma quel che non si sarà mai, quel che non vediamo, neppure fino in fondo desideriamo, sì, come tu la musica, esprimiamo il silenzio.

         Si esprime la nostra passione, e la passione non vede, perché desidera e non arriva, non sa toccare, o esagera o manca.

         Ma con me non hai mai sbagliato, marito mio, sei stato un buon marito con buona vista, e non mi hai mai pensato più in alto di dove potessi arrivare, o più lontano di dove sapessi desiderare, sei stato tanto preciso, e Monique te ne è grata, l’hai pensata sempre una brava moglie. E di lei hai fatto una brava moglie; ed una pessima amante.  (non mi hai salvata)

         Amore, non essere avaro, usa per me le tue migliori parole, non sarai frainteso, noi non ci siamo mai fraintesi.

 

                                                                                 Monique»

 

(elisa santucci)

 

Chi volesse rispondere ad Alexis

Chi volesse personificare Monique

invii la propria lettera, la propria risposta a: lettereparole@tiscali.it

Potrà essere pubblicata on-line