Oggi, una selezione molto strana. Contrariamente a come ogni quindici giorni propongo, non ho cercato una lettera. Ma pensare nei giorni trascorsi ad Ulisse, ed a quanti silenzi ognuno di noi cela più o meno dolorosamente, e per alcuni è la fede, per altri la speranza, poi la rabbia… mi ha spinto a proporvi il silenzio, il vostro, a cui rispondere, reagire, o abbracciare, non so. Perché se ognuno ha le proprie idee, ancora più ognuno nasconde il proprio silenzio, nel quale sta solo, del quale spesso è geloso, ed alcuni cercano di condividerlo, altri lo difendono come se stessi.

Sì, perché io ho il mio Ulisse, il mio Pinocchio, ed è la mia gioia, ma calano i momenti in cui sentirmi lontana ed in pericolo, mi lascia col fazzoletto sul viso, a lamentare e piangere, perché in questo fazzoletto non so più dove sono. E mentre vivo e viaggio, c’è chi dentro di me attende, soffre, vibra, muore infinitamente, il mio pozzo di fondo, e guarda senza riconoscere.

La pelle che soffre mentre mi scollo, la lontananza. È colei che guarda, dove fissare lo sguardo è pericoloso, dove la follia arriva a confondersi col mare.

Propongo oggi di rispondere al mare, ad Ulisse che non ritorna.

Non so cosa significhi, forse ognuno lo sa.

Baricco riprende "la voce del mare" nel suo Novecento, ma per molti spettatori ormai la sua voce è in dialetto veneto dagli splendidi occhi verdi, così come appare la ragazza di La leggenda del pianista sull’oceano, Tornatore.

Chiedo di rispondere ognuno al proprio silenzio, ognuno al proprio mare, inviando le vostre lettere - potranno essere pubblicate on-line - a: lettereparole@tiscali.it

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« …. Mare…. »

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«Ti attendo. Ho provato le strade, sfinendole senza ombra e senza desideri. Mi affaccio, ora, al piatto vento, oltre l’orma, per confinare l’azzurro perduto, caduto, scaduto venduto dato. Raccolgo il mio occhio, sfuso, apertosi in perdita, che da ieri restituisce aria di vuoto e galle e bolle che mi han allentato l’anima.

A furia di niente ti ho portato le vele, la mia barca, e grossi legni. Era un gran turbine di nulla, ma le fibre del torcicollo che mi avvitacchiava e lacrimava. Era nulla, ma tutto quello che potevo; solo un lavoro di anima a muoversi in uno stagno di aria. Una fatica d’anima, uno strano e lento pianto d’anima. Era tutto il giorno che sento, pesare sulla pelle, nel grigio compatto e impenetrabile, era tutta l’aria. Era una fatica incollata, da una bocca appesa all’orologio. Tante parole, rotolanti ed enormi che cadevano ammassando sui miei polmoni la materia del mondo. Era tutto quello che volevo, pesantemente apparso, vivo. Immobile. Perduto in indelebile ritorno, abitudine ai fianchi, vomito al fiato, tamburo. Erano gli indigeni dell’anima mia, che cantavano lamenti, ed erano sogni. Io il malumore della fatica, il corpo spossato, le mani allentate, con tutta la forza, satolle di potere, voltate a nubifragio, la palpebra grande cui capita la mattina e la pesantezza del mondo da aprire, dopo che il tuo mostro mi ha danzato l’anima. Come poté giove alzare la mano, se questo poco di forza non mi lascia d’andare? Vorrei cantare e gocciolare e inventare il sonno alle balene, da caderne; da soffrirne, da correre tutta la mia pelle da fuggire lontano e addormentarmi su questa pelle dei miei occhi e del mio corpo. Vorrei potesse non finire, da farmi prima lasciare, stremare, stridere silenzio e gioia nell’ultima goccia, l’ultima lacrima. Vorrei un occhio per questo silenzio, vorrei un cristallo per mani di sabbia, una parola di carta, quel cartello piegato, blu, arrugginito lungo la base della freccia, soltanto un ricordo, qualche frammento, il tuo bacio. Bacio le tue mani, mi stendo sui tuoi pugni, sul tuo crescere e salirmi incontro, chiedo più forza, toccami forte, attendi senza sosta, proseguo il tuo deserto, spazza di onda. Solo avessi tempo, giusto, da incessantemente baciarti, prima rimarrei silenzio.

Penelope»

(elisa santucci)