Questa lettera. Per una quantità di motivi. Perché è di Hume, ed in questo caso conta davvero molto, altrimenti forse sarebbe d’un “pazzo”; i pazzi sono soli. Ed allora è di un uomo, e parla per l’umanità.

Dovrei elencare tutti i motivi.

Uno mio personale: in principio snobbai la pagina che segue, come snobbai il professore che me ne indicò l’esistenza. Strano uomo, mi dispiace ora di non avere pazientato a quell’unica sua lezione che seguii, e solo per un mal di ginocchia subentrato per l’insofferenza di quel suo spiegare salottiero. Stava di casa nell’empirismo inglese, e non gli ho perdonato d’aver sprecato così tante parole in un tazza di tè. Ma, lo immagino ora, col suo volto attraente ed una salda e sana costituzione fisica (così poco filosofica, pensavo), ben più meritevole di quanto volli degnarlo allora. Ma gli studenti – si sa – son tutti bifolchi ed è difficile rapirli con la meticolosità quanto è facile stregarli con due parole gettate nella voragine delle loro aspettative. Insomma, c’era quest’insofferenza per i preamboli, le premesse, entrare, togliersi il cappotto… solo una gran smania di filosofia. Quando comincia? dove comincia? Oggi mi tolgo di tasca tutti i foglietti (che se non sono del taccuino di dannato di Rimbaud, sono pagine di vita comune non per questo bianca, e fra le foglie bisogna saper guardare). Su questi foglietti sempre ignorati trovo date, pezzi cancellati di biografie, tutti i margini sgretolati di quei tomi e succhi di senso che son la filosofia. Uno dei nostri grandi filosofi, nella sua vita (pagina bianca comune) raccoglieva proprio questi residui, i margini, e si considerava un collezionista – i collezionisti non conservano mai nulla di eccezionale. Mi riferisco ancora una volta a Benjamin. Non ho mai dato importanza alle tracce delle esistenze. Come potevo capire quell’uomo brezzolato, che se n’entrava in stanza con fare deciso ma lene, poi si sedeva, ci guardava noi e i suoi libri, e mentre già le mie ginocchia cigolavano, ancora non aveva pronunciato quella parole che prometteva d’aprirmi il mondo?

Secondo motivo: come, ancora, potevo non identificarmi (io che studio l’inglese per migliorare l’italiano ed iniziare a scrivere di nuovo, degli oggetti), con le splendide parole di Hume, riguardo al suo disturbo… quanti di voi resistono? «Capii che come vi sono due cose assai nocive per questo disturbo, cioè studio e indolenza, altrettanto vi sono due cose assai salutari, cioè occupazione e divertimento; e che tutto il mio tempo era stato speso tra le prime, con poca o nessuna parte per le seconde. Per questa ragione mi decisi a cercare un tipo di vita più attivo e per qualche tempo misi da parte, sebbene non potessi abbandonarle se non con l’ultimo respiro, le mie esigenze culturali allo scopo di recuperarle in maniera più efficace.»

Questi sono i primi motivi, tutti personali. Se – lo spero tanto – avete avuto la pazienza di arrivare fino a questo rigo, ecco, ora dirò il motivo importante, quello per tutti universalmente.

Non voglio entrare nel merito della discussione – ma spero voi l’alimenterete. Ma, questo filosofo, Hume, nella lettera sotto riportata, scrive ad un medico – che non conosce – per avere un consiglio sulla propria salute, una cura medica. Gli racconta della propria vita, i disturbi, i sintomi, i sogni, gli esercizi, il cibo, i pensieri, il lavoro, la filosofia, gli parla di sé. Non gli racconta di medicine, non nomina – in una lettera di discreta consistenza – un solo farmaco, neppure esami clinici evidentemente. Se non vi pare già abbastanza assurdo sommo la mia opinione: forse si rivolge a un chiromante? uno stregone? un prete? uno psicologo (anche se allora non esisteva) uno psichiatra? un amico? un professore? A chi è possibile rivolgersi in simili termini azzardati? Hume scrive ad un medico. Se non siete turbati, vi suggerisco di adottare il sistema; provate, per la vostra persistente febbre (da tre giorni 37-38… accidenti!), a scrivere ad un medico che stimate ed ignoto, raccontategli della vostra vita, e chiedete la cura. Ma per far questo forse dovremmo pensare la nostra vita in una continuità maggiore di quella che effettivamente riteniamo possibile. Dovremmo pensare la nostra vita ma anche la medicina diversamente. Questo il punto cui volevo arrivare. La medicina.

Mentre pazientemente ricopiavo la lettera, mia nonna – accanto a me seduta – mi ha ficcanasato nel computer chiedendomi che facessi. Io, sorridendo: “nonna – scrivo al medico” “A chi?” “Non lo conosco, ma è molto bravo, un medico famoso” “E che gli scrivi?” “Gli chiedo la cura per i miei problemi ormonali (ultimamente ho dei leggeri disturbi a cui capita le donne siano soggette)” “Ma se non ti visita come fa a curarti?!”. Mia nonna con questa frase in bocca è saltata in aria. Ed è anche il motivo per cui non ne voglio sapere d’andar in mano di esami ed esamini, provette e risonanze, raggi x e tutte le altre tecnologiche diavolerie degli stregoni in auge nei primi anni del terzo milennio. “Nonna, glieli dico io i miei sintomi, io so come sto”.

Ecco, vorrei aprire il dibattito: medicina, fra lettere (come scrive Hume) e spezzatino chirurgico. Dove inizia la psicosomatizzazione? Quali malattie davvero esistono? Contagio – esiste? La malattia determina gli stati dell’anima, o gli stati dell’anima procurano la malattia? Esistono malattie non psicosomatiche? O meglio: esiste davvero la malattia?

           

            Un richiamo, ed un possibile confronto. La “malattia di Kafka”, che porta il suo nome. Milena Jesenská ne parla con Max Brod. Riporto stralci di lettere.

            «Lei chiede come mai Frank abbia paura dell’amore e non abbia paura della vita. Io penso invece che non sia così. La vita è per lui qualcosa di ben diverso che per tutti gli altri uomini. (…) Per lui l’ufficio – anche il suo – è una cosa così enigmatica, così ammirevole come la locomotiva per un bambino. Non riesce a capire le cose più semplici di questo mondo. È stato qualche volta con lui in un ufficio postale? (…) Sì, tutto questo mondo è e rimane enigmatico per lui. Un enigma mistico. (…) Un uomo che scrive velocemente a macchina e uno che ha quattro amanti gli riescono altrettanto incomprensibili quanto la corona all’ufficio postale e quella della mendica, incomprensibili perché sono vive. Frank invece non può vivere. Frank non ha la capacità di vivere. Frank non guarirà mai. Frank morirà presto.

            Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti. E non è neanche tutta verità ciò che dice, ciò che è e che vive. È un determinato essere in sé e per sé, sgombro di qualsiasi sovrastruttura che possa aiutarlo a trasfigurare la vita, in bellezza o in miseria non importa. E il suo ascetismo non è affatto eroico; certo, appunto per ciò tanto più grande e più elevato. Ogni eroismo è menzogna e viltà. Non è uomo che si costruisca la sua ascesi come mezzo per un fine, è un uomo costretto all’ascesi dalla sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi. Ci sono uomini molto intelligenti che non ammettono compromessi: ma questi inforcano occhiali meravigliosi coi quali vedono tutto diverso. Perciò non hanno bisogno di compromessi, e allora sanno scrivere velocemente a macchina e avere amanti. Lui li guarda meravigliato, guarda tutto, anche quella macchina per scrivere e quelle donne, ma non capirà mai. (…)

            So fino all’ultimo nervo in che consista la sua angoscia. Questa c’era anche prima di me, quando egli ancora non mi conosceva. Ho conosciuto la sua angoscia prima di conoscere lui. Comprendendola mi sono corazzata contro di essa. Nei quattro giorni nei quali fu con me Frank l’aveva perduta. Ne abbiamo riso. So con certezza che nessun sanatorio riuscirà a guarirlo. Egli non sarà mai sano, Max, fintanto che avrà quest’angoscia. E nessun corroborante psichico può superarla poiché l’angoscia ostacola l’azione del corroborante. Quest’angoscia non si riferisce soltanto a me ma a tutto ciò che vive spudoratamente, anche, per esempio, alla carne. (…)

            Se allora fossi venuta con lui a Praga, sarei rimasta per lui quella che ero. Io invece avevo i piedi ancorati saldissimamente in questa terra, non ero in grado di abbandonare mio marito e forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi a una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più rigorosa ascesi fino alla morte. Dentro di me c’è però un invincibile desiderio, un desiderio folle di una vita tutta diversa da quella che faccio e che forse non farò mai, di una vita con un figlio, di una vita che sia molto vicina alla terra. Questo dunque ha vinto su ogni altra cosa, sull’amore, sull’amore del volo, sull’ammirazione e ancora sull’amore. Qualunque cosa del resto se ne dica, ne viene sempre una menzogna. Questa è forse ancora la più piccola. E poi era già troppo tardi. Questa lotta dentro di me era diventata troppo visibile e ciò lo ha spaventato. Contro di ciò appunto ha lottato tutta la vita venendo dall’altra parte. Presso di me ha potuto riposare ma poi ha incominciato a sentirsi perseguitato anche accanto a me. Contro la mia volontà. Sapevo benissimo che era accaduto qualcosa che non si poteva più eliminare. Ero troppo debole per poter fare e compiere ciò che, lo sapevo, unicamente lo avrebbe soccorso. Questa è la mia colpa. Lo sa anche lei che è la mia colpa. Ciò che si attribuisce all’anormalità di Frank è precisamente il suo pregio. Le donne che lo hanno incontrato erano donne comuni che non sapevano vivere se non appunto come donne. Credo piuttosto che tutti noi, tutto il mondo e tutti gli uomini siamo malati e lui solo è sano, lui solo sente e afferra giustamente ed è l’unico uomo puro. So che egli non si oppone alla vita, ma soltanto a cotesta specie di vita. Se fossi riuscita ad andare con lui, avrebbe potuto vivere felice con me. Ma questo lo so soltanto oggi. Allora ero una donna comune come tutte le donne del mondo, una piccola femmina istintiva. Di qui è nata la sua angoscia. Ed era giusta. È mai possibile che quest’uomo senta una cosa che non sia giusta? Del mondo egli sa diecimila volte più che tutti gli uomini. Quella sua angoscia era giusta. E lei sbaglia, Frank non mi scriverà di sua iniziativa. Nulla esiste che egli mi possa scrivere. Infatti non c’è una parola che possa dirmi in quest’angoscia. Che mi ama, questo lo so. È troppo buono e pudico per poter cessare di amarmi. Ci vedrebbe una colpa. Sempre infatti si considera colpevole e debole. E dire che in tutto il mondo non c’è altro che abbia la sua immensa energia: quell’assoluta incrollabile necessità di arrivare alla perfezione, alla purezza e alla verità. Così è. So fino all’ultima goccia di sangue che è così. Salvo che non me ne posso rendere conto interamente. Quando ci arriverò sarà un momento terribile. Corro per le vie, sto notti intere seduta alla finestra, talvolta i miei pensieri sprizzano come le faville quando si arrota un coltello e il mio cuore pende come dell’uncino di un amo, sa, un uncinetto sottili sottile e questo strappa con un dolore sottile sottile, terribilmente lancinante. (…)

            A Frank non scriverò, non una riga…» Milena Jesenská, Milena di Praga. Lettere di Milena Jesenká – 1912-1940.

           

Sarei felice se – innanzitutto – sopportando il dolore alle ginocchia, leggeste interamente la lettera di David Hume, e poi se gli rispondeste, fingendovi medici. Od inviate le vostre lettere (con tutte le vostre “malattie”, le vostre esistenze) – e magari, fra balordi lettori e promessi scrittori, ci potremmo rispondere e curare, un poco, le ferite.

Pazienti e medici! Scrivete!

L’indirizzo cui far riferimento è lettereparole@tiscali.it

Le lettere che invierete potranno essere qui pubblicate.

 

Se decideste (cosa che vi invito a fare) di scrivere davvero a qualche medico… raccontate tutto – ve ne prego!

 

Visto che la medicina non ci salva… proviamo noi a salvarla!

 

 

 

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David Hume, La lettera al medico Scozzese

Al Dottor George Cheyne. O, più attendibilmente, al Dottor John Arbuthnot

 

«marzo-aprile 1734

Signore

            non essendo a conoscenza di questa calligrafia, probabilmente andrete a cercare in fondo la firma, e non trovandola, certamente vi meraviglierete di questo strano metodo di rivolgermi a voi. Devo qui, all’inizio, chiedervene scusa, e persuadervi a leggere ciò che segue con una certa attenzione aggiungendo che esso vi dà l’opportunità di fare una buona azione, la qual cosa, credo, costituisce l’argomento di gran lunga più efficace che io possa usare. Non ho bisogno di dirvi che sono un vostro compaesano, uno scozzese, dal momento che, anche senza un tale legame, oso fare assegnamento sulla vostra umanità anche verso uno che vi è perfettamente sconosciuto come io sono. Poiché, per fornirmi una risposta soddisfacente, bisogna essere un abile medico, un uomo di lettere, di ingegno vivace, di buon senso e di grande umanità, vorrei che la fama mi avesse indicato un numero maggiore di persone in possesso di queste qualità allo scopo di essere tenuto per qualche tempo nell’incertezza. Dico questo in piena sincerità e senza alcuna intenzione di fare un complimento, in quanto, sebbene possa apparire necessario che all’inizio di una così insolita lettera, io dica qualcosa di gentile per cattivarmi la vostra buona opinione e rimuovere in proposito ogni vostro pregiudizio, un tale sforzo di apparire brillante non si adatterebbe se non malamente al mio presente stato d’animo che, devo confessarlo, non è senza ansietà riguardo al giudizio che vi formerete di me. Confidando comunque nella vostra franchezza e generosità procederò, senza ulteriori preamboli, a mettervi al corrente di questo stato d’animo, sforzandomi di offrirvi, quanto più efficacemente possibile, una sorta di storia della mia vita, da cui comprenderete facilmente perché tengo nascosto il mio nome.

            Dovete dunque sapere che fin dalla primissima infanzia provai sempre una forte inclinazione per i libri e le lettere. Poiché, in Scozia, la nostra educazione nei Colleges, prolungandosi appena più in là dell’apprendimento delle lingue, termina di solito quando noi abbiamo circa 14 o 15 anni, fu dopo questo periodo che mi affidai alla mia propria scelta nel campo della lettura e trovai che vi era in me quasi la stessa inclinazione per le opere di logica e di filosofia che per quelle di poesia e di autori eleganti. Chiunque abbia conoscenza dei filosofi e dei critici sa che finora non vi è nulla di stabilito nell’ambito di queste due scienze e che esse contengono poco più di interminabili dispute perfino nei loro punti fondamentali. Procedendo nell’analisi di quest’ultimi, sentii crescere in me una certa baldanza di carattere che mi faceva restio a sottomettermi, su questi argomenti, a qualsiasi autorità e mi spingeva piuttosto a trovare un qualche mezzo con cui si potesse stabilire la verità. Dopo molto studio e riflessione al riguardo, quando avevo circa 18 anni, parve che si aprisse di fronte a me una nuova scena del pensiero, la quale mi entusiasmò oltremodo e mi fece, con un ardore naturale in un giovane, rinunciare a ogni altro piacere o occupazione per dedicarmi interamente ad essa. La professione legale, che era l’occupazione che io avevo deciso di seguire, mi risultò disgustosa e riuscii a convincermi che in nessun altro modo avrei perseguito la mia fortuna nel mondo se non come studioso e filosofo. Fui infinitamente felice in questo corso della mia vita per alcuni mesi, finché, poi, verso l’inizio di settembre del 1729, tutto il mio ardore sembrò improvvisamente estinguersi e non riuscii più ad innalzare il mio pensiero a quell’altezza che precedentemente mi aveva fornito un così intenso piacere. Non mi sentii inquieto o privo di forze quando misi da parte i miei libri, per cui non pensai che, in questa faccenda, si dovesse trattare di un’indisposizione fisica, ma che la mia apatia derivasse da un’indolenza che poteva essere superata raddoppiando la mia applicazione. Rimasi in questa condizione per nove mesi, molto a disagio con me stesso, come potete ben immaginare, ma senza, per fortuna, che capitasse nulla di peggio.

            Ci fu un altro particolare che più di ogni altra cosa contribuì a logorare le mie forze e a procurarmi questa indisposizione e cioè il fatto che, avendo letto molti autori di opere morali, quali Cicerone, Seneca e Plutarco, ed essendo stato colpito dalle loro magnifiche esposizioni della virtù e della filosofia, mi accinsi a migliorare il mio carattere e la mia volontà insieme con la ragione e l’intelletto. Venivo rafforzandomi continuamente con riflessioni contro la morte, la povertà, la vergogna, la sofferenza e tutte le altre calamità della vita. Senza dubbio questi mali sono oltremodo utili quando sono uniti con una vita attiva, giacché l’occasione, congiunta con la riflessione, penetra nell’anima e fa in modo da procurare una profonda impressione, ma nella solitudine essi non servono ad altro scopo che a logorare lo spirito e la forza della mente che, non incontrando resistenza, si perde nell’aria come il nostro braccio che fende il vuoto. Comunque ciò non lo appresi se non dall’esperienza, e non prima che avessi già rovinato, pur senza esserne consapevole, la mia salute.

            All’inizio dell’inverno, per alcune macchie di scorbuto scoppiate sulle mie dita, mi ammalai e fui costretto a consultare un valente medico, il quale mi prescrisse delle medicine che allontanarono questi sintomi e mi diede anche un consiglio contro l’isterismo che, sebbene a quel tempo costituisse per me una sofferenza, mi ero a tal punto convinto di poter dominare unitamente, in verità, a qualsiasi altra malattia, ad eccezione di un banale scorbuto, che non tenni in nessun conto il suo consiglio. Infine verso aprile del 1730, quando avevo 19 anni, cominciò a svilupparsi in maniera considerevole un sintomo che già avevo un po’ dall’inizio notato, tanto che, sebbene non ne provassi disagio, fui costretto per il suo carattere insolito a chiederne informazione. Si trattava di ciò che comunemente viene chiamato ptialismo o aumento della secrezione salivare. Nel riferire la faccenda al mio medico, egli si burlò di me e aggiunse che ora potevo considerarmi un collega dal momento che avevo contratto in pieno la tipica malattia dello studioso. Provai grande difficoltà a persuadermi di questa diagnosi in quanto non trovai in me nulla di quell’abbattimento dello spirito che tanto affligge coloro che ne soffrono. Comunque mi uniformai alle prescrizioni e iniziai una cura a base di pillole amarognole e antisteriche. Inoltre bevvi ogni giorno una pinta inglese di vino chiaretto e percorsi a cavallo dalle otto alle dieci miglia scozzesi. Seguii questa cura per circa sette mesi di seguito.

            Sebbene fossi dispiaciuto di trovarmi bloccato da un’indisposizione così fastidiosa, tuttavia la sua scoperta mi tranquillizzò moltissimo in quanto mi convinse che la mia precedente apatia non procedeva da un’imperfezione del carattere o dell’ingegno, ma da una malattia a cui chiunque poteva essere soggetto. Cominciai ora ad essere più indulgente con me stesso studiando moderatamente e soltanto quando sentivo le mie forze al massimo delle possibilità, badando di smettere prima che fossi stanco e di sprecare il resto del tempo nel miglior modo possibile. Vissi in questa maniere abbastanza soddisfatto, e al mio ritorno in città, nell’inverno successivo, trovai le mie forze completamente rinvigorite tanto che, sebbene sentissi il mio ingegno lanciato in una fortissima tensione, riuscii comunque a conseguire progressi considerevoli circa i miei propositi precedentemente fissati. Mantenni, fin dall’inizio, una dieta e una condotta di vita regolarissime, e per tutto l’inverno assunsi come regola inderogabile di cavalcare due o tre volte la settimana e di camminare tutti i giorni. Per queste ragioni, quando ritornai in campagna, aspettai che fossi perfettamente ristabilito per poter riprendere i miei esercizi con minore interruzione. Ma su questo punto mi sbagliai di molto. Difatti l’estate seguente, verso maggio del 1731, si sviluppò un vorace appetito, ed una digestione altrettanto veloce, che ritenni all’inizio un buon sintomo, per cui fui assai sorpreso di scoprire che la cosa mi rinnovava una palpitazione di cuore che prima avevo avvertito molto poco. Questo appetito, comunque, ebbe un effetto molto insolito, quello cioè di nutrirmi in maniera eccessiva, sicché in sei settimane passai da un estremo all’altro, ed essendo prima alto, magro e ossuto, divenni all’improvviso la persona più forte, robusta e sana che voi abbiate visto, con una carnagione rosea e un’espressione allegra. Per giustificare le mie cavalcate e la cura per la mia salute, ho sempre adottato il motivo della paura di una tisi, che in effetti appariva dal mio aspetto; ma ora tutti si congratularono con me per la mia completa guarigione. Questo insolito appetito si consumò gradualmente, ma mi lasciò in eredità la stessa palpitazione di cuore in una misura leggera e molta aria nello stomaco che andò via facilmente e senza, come è normale, provocare un senso di fastidio. Tuttavia questi sintomi non costituiscono quasi nessun disagio per me. Mangio e dormo bene; non sento alcun abbattimento degli spiriti, almeno non più di quanto possa sentirlo un individuo di ottima salute, che però si riempie troppo di cibo, e se ne sta troppo vicino al fuoco, tuttavia anche questo stato non l’avverto che molto raramente e quasi mai comunque di mattina o pomeriggio. Quelli che vivono con me nella stessa famiglia e mi vedono continuamente non sono in grado di scorgere il minimo cambiamento nel mio umore, e ritengono piuttosto che io sia ora una compagnia migliore di quanto non lo sia stato prima dal momento che preferisco passare la maggior parte del mio tempo con loro. La cosa mi confortò a tal punto che quasi mai lasciai perdere un solo giorno di andare a cavallo, tranne durante il periodo invernale; e l’estate scorsa mi imposi un compito assai faticoso, cioè quello di percorrere otto miglia ogni mattina e altrettante nel pomeriggio andando avanti e indietro da una fonte di acqua minerale abbastanza nota. In primavera poi ripresi la cura delle pillole amare e antisteriche per due volte al giorno insieme con bevande antiscorbutiche, ma senza conseguire alcuno effetto considerevole tranne quello di ridurre per qualche tempo i sintomi.

            Fin qui vi ho dato un dettagliato resoconto delle condizioni del mio corpo, e senza fermarmi per chiedervi scusa, come dovrei fare, per una storia così noiosa, vi chiarirò quale fosse lo stato, in tutto questo tempo, della mia mente, che ha sempre, in ogni occasione, e specialmente in questa indisposizione, uno strettissimo legame. Avendo ora tempo e agio per raffreddare la mia infiammata immaginazione, cominciai a considerare in qual modo avrei potuto procedere nella mia ricerca filosofica. Trovai che la filosofia morale trasmessa a noi dagli antichi soffriva dello stesso inconveniente che era stato riscontrato nella filosofia naturale, di essere cioè interamente ipotetica e di dipendere più dall’invenzione che dall’esperienza. Ognuno si affidava alla propria fantasia nell’erigere schemi di virtù o di felicità, senza considerare la natura umana da cui deve dipendere ogni conclusione morale. Decisi, pertanto, di fare di quest’ultima l’oggetto principale del mio studio e la fonte da cui avrei derivato qualsiasi verità sia nel campo della critica che in quello della morale. Credo che sia un fatto certo che la maggior parte dei filosofi che ci hanno preceduto siano stati travolti dalla grandezza del loro ingegno, e che si richiede molto meno per fare un uomo di successo in questo studio che liberarsi da tutti i pregiudizi dovuti alle sue opinioni o a quelle degli altri. Questo almeno è tutto ciò che devo tener presente per la verità dei miei ragionamenti, che ho sviluppato a tal punto che in questi tre anni mi sono ritrovato con molti quinterni di carta scribacchiati, in cui non c’è nulla se non le mie stesse invenzioni. Si può ritenere che questo, insieme con molti appunti tratti dai più celebri libri in latino, francese e inglese, nonché dalla conoscenza dell’italiano, sia un’occupazione adeguata a un individuo in perfetta salute; e tale sarebbe stata, se fosse stata indirizzata a qualche scopo; ma la mia malattia fu per me un terribile peso. Mi resi conto che non riuscivo a portare a termine nessun corso del pensiero mantenendolo costante nella sua tensione, se non attraverso ripetute interruzioni e riposando lo sguardo di tanto in tanto su altre cose. Tuttavia, malgrado questo inconveniente, sono riuscito a mettere insieme materiale grezzo per molti volumi; ma dare una sistemazione organica a questo materiale quando bisogna accostarsi di più all’idea che si è afferrata nel suo insieme, in modo da contemplarne le parti più minute e imprimerle fermamente negli occhi, così da riscrivere queste parti in ordine, questo fu impossibile per me, né le mie forze erano all’altezza di un così severo compito. Appare qui il mio guaio più grosso. Non avevo nessuna speranza di trasmettere le mie opinioni con una eleganza e chiarezza tali da attirare su di me l’attenzione del mondo, e preferirei vivere e morire nella oscurità piuttosto che presentarle monche e imperfette. Di una tale infelice delusione raramente ricordo di aver mai sentito parlare. La più insignificante distanza tra me e un perfetto stato di salute è causa del più grande disagio nella mia attuale situazione. Ciò che mi procura fastidio è una debolezza piuttosto che un abbattimento degli spiriti, e sembra esservi tanta enorme differenza tra la mia indisposizione e i comuni isterismi, quanta tra quest’ultimi e la pazzia.

            Mi è capitato di notare nelle opere dei mistici francesi, e qui da noi in quelle dei nostri fanatici, che, quando essi presentano una storia dello stato della loro anima, accennano a una freddezza e a un abbandono dello spirito, che frequentemente ritorna, e alcuni di essi, fin dall’inizio ne sono stati tormentati. Poiché questo genere di devozione dipende interamente dalla forza della passione, e di conseguenza dagli spiriti animali, ho spesso pensato che il loro caso e il mio fossero abbastanza paralleli, e che i loro estatici stupori potessero scompigliare la struttura dei nervi e del cervello, tanto quanto profonde riflessioni, e quanto quell’ardore ed entusiasmo che si ritrovano inseparabilmente in esse. Comunque stia la faccenda, non sono riuscito a superare lo stato di abbattimento così come di solito ci dicono che sia loro capitato, o piuttosto fin dall’inizio cominciai a disperare di poter mai guarire. Per salvaguardare me stesso da uno stato di melanconia in una così triste aspettativa, la mia sola salvezza fu nel produrre pungenti riflessioni sulla vanità del mondo e della gloria del genere umano, che, quantunque possano essere stimati sentimenti giusti, non ho mai trovato che possano essere sinceri se non in quelli che ne sono pienamente convinti. Essendo consapevole che tutta la mia filosofia non mi avrebbe mai reso soddisfatto nel mio stato attuale, cominciai a scuotermi; ed essendo incoraggiato da esempi di guarigioni di casi peggiori di questo disturbo, come anche dall’assicurazione dei miei medici, cominciai a pensare a qualcosa di più pratico di quanto finora avessi tentato. Capii che come vi sono due cose assai nocive per questo disturbo, cioè studio e indolenza, altrettanto vi sono due cose assai salutari, cioè occupazione e divertimento; e che tutto il mio tempo era stato speso tra le prime, con poca o nessuna parte per le seconde. Per questa ragione mi decisi a cercare un tipo di vita più attivo e per qualche tempo misi da parte, sebbene non potessi abbandonarle se non con l’ultimo respiro, le mie esigenze culturali allo scopo di recuperarle in maniera più efficace. Da un attento esame, trovai che la mia scelta era limitata a due generi di vita: quello di un dirigente-viaggiatore (travelling Governor) e quello di un mercante. Il primo, oltre al fatto che, sotto certi aspetti, costituisce una vita futile, non era, ritenni, adatto alla mia persona; e ciò perché sono stato sia per un tipo di vita sedentario e ritirato, sia per un carattere timido e per una striminzita fortuna, poco abituato a frequentare ambienti pubblici, e non ho avuto confidenza e conoscenza sufficiente del mondo per perseguire la mia fortuna ed essere utile in questo genere di vita. Pertanto fissai la mia scelta sul mercante; e avendo una raccomandazione per un eminente commerciante di Bristol, sto appunto ora affrettandomi ad andarvi deciso a dimenticare me stesso e ogni cosa che riguarda il passato, per impegnarmi, per quanto sia possibile, in questo corso della vita, e girare il mondo da un polo all’altro finché non mi lasci alle spalle questo disturbo.

            Poiché sono arrivato a Londra per raggiungere Bristol, ho deciso, se fosse possibile, di ottenere il vostro consiglio, malgrado la scelta di questo assurdo metodo di procurarmelo. Tutti i medici che ho consultato, sebbene di grandi capacità, non sono mai riusciti a capire la mia indisposizione in quanto, non essendo persone di grande cultura oltre la loro professione, non hanno mai avuto familiarità con questi moti della mente. La vostra fama vi ha segnalato come la persona più adatta a risolvere i miei dubbi, ed ho preso la decisione di ottenere alcuni essenziali pareri su cui fondare tutta la varietà delle mie paure e speranze che di solito accompagnano una malattia così lenta. Mi auguro di essere stato sufficientemente accurato nella descrizione dei sintomi in modo da permettervi di formarvi un giudizio, o forse, piuttosto, di esserlo stato fin troppo. Ma voi sapete che è un sintomo di questa malattia compiacersi di lamentarsi e parlare di se stessa.

            Le questioni che umilmente vi proporrei sono: tra tutti quegli studiosi che avete conosciuto, ce n’è mai stato qualcuno affetto in questa maniera? potrò mai sperare in una guarigione? devo per questo aspettare a lungo? sarà mai la mia guarigione perfetta, e riacquisteranno le mie forze il loro primitivo slancio e vigore, in modo da sopportare la fatica di pensieri profondi e sottili? Ho scelto la strada giusta per guarire? Credo che tutte le medicine opportune siano state usate, e pertanto non ho affatto bisogno di farne menzione.»

 

(David Hume)

 

 

«25-26 dicembre 2002

Gentile compagno,

di studi, di paese, di condanna.

            Le confesso d’aver letto non privo di stupore la sua del mese scorso. Le rispondo con ritardo, benché questa non sia che l’ultimo, ennesimo tentativo di ubbidire al suo richiamo nonché al mio desiderio di venirle incontro, non come usa dire – per voglia di far del bene – ma per trovare un amico misterioso compagno di questa profonda fede.

            Mi perdoni per questo molesto ritardo, ma solo ora ho saputo frenare l’impeto. Lei mi chiama ad un compito illuminato, e la responsabilità che incontro è grande, la paura di suggerirle fandonie ancora tanto, e saper il mio uso di penna ben meno abituato del suo, anco più mi tradisce. Lei, da letterato qual è, forse avrà già pensato e sentito che più morde il desiderio, più è facile l’inciampo lungo la via, e fa da sirene la distanza quando sappiamo la salvezza ben riposta nella struggente meta tanto di far d’una lunga e schietta dirittura d’ardore, il preambolo circolare alla nostra vita, ben muta amata anima.

            Sono stato allora peregrino per giorni, a pensare, a festeggiare lei, intorno al mio compito e solo ora lo stringo con parole che le sono chiare, chiaro richiamo a lei.

            Quindi mi tolgo il cappello, lo cospargo di cenere, e da uomo a uomo, ora le dirò la mia cura.

            Ma mi permetta ancora un poco di danzare in quest’occasione, e senza gettare gli ultimi spiccioli miei in pasticche, di ringraziarla profondamente e – sinceramente – della volontà, l’ha spinta a raccontare.

            Sto nel mio ufficio, asino di stalliera, con foglietti cicatrizzati dove pochi sanno leggere, ed hanno una laurea per questo, ovvero per saper sapientemente disvelare ciò che noi medici enigmaticamente sigilliamo in inchiostro minuzioso, su ettari di libro. Loro riportano alla luce del sole, strappato da coda di topo ali di drago, quel che le nostre lenti spesse d’occhiale han travasato in pochi precisi tratti che come stelle zodiacali dicono la salute e la malattia dell’uomo. Il farmacista sa il segreto e lo protegge.

            Ma forse è passato secoli da questo mio sentire, ed il camice è più bianco di allora. Ma entro e passo dal mio studio con lo stesso numero di braccia che mi si protraggono, ed il rispetto che mi devono è bianco aureola, austero.

            Sa… ora mi temono meno, perché le leggi che i miei antenati han visto in cielo sono più plasmabili dalla mia mano d’uomo, e più che altro s’arrabbiano, se questa mano d’uomo fallisce, sto fra gli ultimi dei. In coda. Perché c’è sempre qualcos’altro che potrei fare, e non ho fatto. Insomma, ai loro occhi, non so più riconoscere nemmeno la morte. Asino, ed un tempo l’annunciavo!

            Sto fra la vita e la morte, un burattino aggiustatutto, purché funzioni… ma non ho niente a che vedere né con la vita né con la morte. Il mio rapporto si ferma al bisturi, martelletto, ed il farmacista spiega di che si tratta, fra la gola ed il naso.

            Studio la tabella pitagorica a mente – che perfezione! che meraviglia! – qui mi fermo nel mio compito ed il testo di “medicina per la famiglia” che la massaia ha sul comò, ne sa più di me, con quei verdetti efferati, quelle cifre che san tutto… e mi guardano, i pazienti poco pazienti, come se non sapessi nemmeno leggere, perdo tempo, cosa cincisco? Sta scritto chiaro! TSH, FT4, ZZboh, globuli rossi e globuli bianchi, e il colesterolo…

            È quasi come se, per ogni numero corrispondesse una lettera, e così per ogni lettera corrispondesse un numero, e se tu conti i numeri, e poi conti i sassi, e poi conti le vene, e le sottrai ai globuli e moltiplichi per i nervetti, e calcoli che insomma l’influenza è già arrivata dalla Cina, ecco… è facile, lo fan tutti e lo fo anch’io.

            Mi perdoni, mi perdoni, se le parlo da uomo a uomo.

            Lei mi ha illuso, ed è il motivo per cui ancora oggi salto dalla contentezza, perché d’un tratto ho pensato di poter trattare le sue belle parole come arie fredde ed arie calde dal nord, ed ha soffiato ancora la morte, lo spiraglio di vita, e mi ha rimesso nel panno d’un uomo che sa seriamente le parole del paziente, o l’altro uomo davanti.

            Ho riportato fuori la tovaglia del medico di campagna, e vi ho disposto il suo malumore e la sua fiducia, i suoi occhi chiari e l’allergia, e la saliva – sa, anch’io ora sbavo, ho freddo e fretta, ho male – e mi sono posato con la mia vita sulla sua. Non è passata svista una formica, ho l’odore dell’erba stretto nelle mie radici. Il mio volto la guarda.

            Poi piano piano mi sono svilito, perché lei è incurabile… Non ha pensato di morire, e se non l’ha pensato, non è abbastanza vicino alla vita, al suo corpo, al suo fuoco. Ed io allora non sono chiamato – medico.

            Mi fa domande, erudito, uomo istruito, che malattia è, che cos’è… guarirò… Ma lei potrebbe morire, lo sa?

            Se non sa questo, forse non morirà, ma certamente non guarirà. Le paio duro? Ma la mia opinione non conta. Me la lasci dire, amico.

            Lo sa lei, lo so io, che qui non salterà su l’apostrofe per la sua vita, non si gioca a carte, e soprattutto non ci si gioca. Ma la accuso – fra parole che dicono e poi ricadono, negano e di nuovo dicono – forse, di non dire fino in fondo che la colpa è della sua anima, la tenga in un calzino, sia uno spiritello animale sempre in fuga. I suoi sono sintomi, ininterrotti sintomi di una malattia che è la sua, e non le trova nome, e chiede a me questo compito ingrato. Ma si è già risposto, segretamente, e me lo nega.

Torno ad essere medico, come lo furono i demiurghi, Empedocle sprofondato col sapere dove muore e sorge – sapere. Ora pronuncerò il nome (ma non occorre)… la malattia, la cura… poche lettere…no, non posso… non riesco a trovarlo, non posso dirglielo…

già! lei non l’ha scritto!… (non ha firmato la lettera…) ma certo già lo sa…

il suo nome… La malattia di? Come si chiama lei? Me lo dica

 

Con stima,

                                                                                    John Arbuthnot»

 

(elisa santucci)