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ALDA MERINI

Non tutto forse è lettera. Sono ben disposta a condividerlo. Ma quando mi dicono, ben convinti, e certuni anche in buona fede "io scrivo per me stesso", mi vengon molti dubbi, e le perplessità s’accavallano… forse soltanto perché spesso me lo son detta pur’io: "scrivo per me stessa", o almeno: "per me innanzitutto". Ma, ad ognuno il proprio dubbio sulla veridicità di questa informazione, certo anche questo teorizzato "me", rimane un possibile - e forse il più eletto - destinatario, fra i tanti altri possibili. Ed esistono lettere scritte ad altri, dove il "me" par privilegiato fra i reali lettori; e scritti destinati al cassetto che in realtà promanano l’anelito ad un lettore segreto o desiderato.

Se volessimo ancora a lungo disquisirne, credo non metteremmo punto, persi fra le ipotesi e le teorie (…e si sa che quando entrano in ballo le teorie, veramente s’approda a "di tutto", ed il valzer mette austera maschera, quindi svicoliamo…), ma tutto lascia credere faremmo una montagnola di interrogativi su quel "me stesso" a cui convergono tutte le più intime parole.

Non siamo qui per ingannare, tantomeno disingannare, ed allora, lasciando che ognuno scriva ai suoi amati fantasmi, o trovando il suo punto d’incidenza con la realtà, che sia pur verità, lasciando che parola parola, lettera parola, lettera, cresca la materia del mondo, peschiamo ovunque (ovunque germinino nature) spiccioli lasciati, mandati, ricevuti, nascosti, indirizzati, per la terra.

Raccogliamo lettere e un po’ le inventiamo, sul presupposto che ogni parola possa essere una lettera, se le tagliamo il filo e lasciamo che voli nel nostro spazio (bocca, umori e pensiero).

Spero nessuno si sorprenda se s’è confuso per lettera, allora, tutto quel che ha preso a volare in petto, come un aquilone o un palloncino colorato che lascia il bambino a piangere quando il polso si slega, e la sua vita prosegue altrove, su un’altra bocca ed un’altra nuvola.

Su queste nubi, ramificate come i più insidiosi nodi d’albero, s’imbroglia di tutto, e - come già detto - ci cascano anche il tempo e lo spazio.

Ma stringendo il nodo attorno al piolo: a chiunque sia destinata una parola (siamo generosi e condividiamo pure il "me" fra i plausibili lettori), per mare o per terra che venga buttata, per mano o per occhi, cantata o strillata veramente, par sempre attendere o raggiungere un destinatario. Forse forse, uno in particolare…

Per questo, quando scrivo, se destinatario vi dev’essere, vorrei sempre i suoi occhi illuminati, così da sapere qualcosa (sempre meno, fino a calare) di tutto quel che vien giù. Rispondiamo…

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Non ne è di male se questa donna ha scritto al proprio amore. Forse lo ama, forse lo odia, forse lo dimentica. Pare andare perduto nei vuoti che la poesia spalanca in questa lenta prosa. Alda Merini, in Lettere a un racconto (Lettere a un racconto. Prose lunghe e brevi, Rizzoli, Milano 1998), raccoglie brani di diversa natura, molti dei quali sono lettere immaginarie, credo. Le invia ad individui di cui sappiamo poco, quando non sono personaggi noti, ma comunque, addentrati nelle vicende personali, ne sappiamo sempre poco.

Giuliano è uno di questi uomini a cui la poetessa scrive variamente. Poi la figlia, poi ad un disturbatore telefonico...

Mi sono permessa di accostare, a mio irresponsabile arbitrio, tre di queste lettere, ideandone una continuità, e deliberatamente creando il destinatario Giuliano, forse un amante, forse nessun altro.

È una libera interpretazione, non fosse una libera fantasia. Quindi senz’altro una sincera lettura, e divertita.

Rispondete ad Alda Merini, se desiderate immedesimarvi in Giuliano. L’indirizzo di posta elettronica è lettereparole@tiscali.it

Di seguito alle lettere di Alda Merini, troverete la mia risposta per lei, da parte di un insolito "Giuliano".

"Una lettera è per sé e per nessun altro.

E non partirà mai.

Ma la gente continua a scrivere.

Perché sulla persona china sul foglio

vibra l’animo di un angelo

che comunque è amore sempre e soltanto amore."

Alda Merini

A Giuliano, alla figlia, e al disturbatore telefonico, 1995.

«Caro Giuliano,

sono mesi che non ti vedo, scomparso tra i lumi del manicomio. Un orgasmo qualsiasi ti ha dato alla testa. Proprio stamani parlavo con Serantes del fattaccio di Paolo e Francesca, dove il libro galeotto funzionò da accendino. Anche per te, Giuliano, è stata la stessa cosa. Oppure pensavi che il libro non avrebbe potuto essere galeotto? Invece lo è: le poesie d’amore incendiano il cuore, perché si vorrebbe provare, conoscere quel tipo d’amore, non quello che ci viene elargito dalle pareti domestiche ormai stanche di tirare a campare con la sola bella figura.

Non volevi che lo dicessi a tua moglie. Hai scarnificato l’arte, al modo feroce di Leonarda Cianciulli. Hai ucciso la verità di Atene, hai detto che il fatto non era vero perché avevi paura dell’amore.

Lascia allora che ti spieghi la differenza che c’è tra amore comune e amore immortale. L’amore immortale è quello di cui ha avuto pietà anche Dante. Più feroce del peccato è infatti colui che uccide i due amanti, perché il peccato non va solo compiuto, va compreso; perché un libro non va solo letto, va anche capito; e perché quando un libro non è capito e un amore non è concluso, si ha il più grande tradimento della storia.

Tu mi hai tagliato i viveri, vale a dire il rapporto sessuale, il che equivale a una libera condanna al manicomio, che si traduce con la parola "ripudio". E tutto perché ti stava a cuore la castità morale. Ma l’uomo, per diventare casto, deve imparare a morire, e si può morire soltanto nella passione.

Se tutti avessero fatto come te, oggi non avremmo avuto Shakespeare.»

«Cara Simona,

è da qualche giorno che una persona inattesa e stupida mi minaccia per telefono. Lo fa con voce afona, soffocata, come se fosse prossima ad esalare l’ultimo respiro. Più che una voce minacciosa, è la voce di un malato che si strazia il cuore: mi fa venire in mente quelle povere donne che morivano nei letticcioli dell’ospedale psichiatrico dicendo ai passanti: "Datemi un goccio d’acqua". È una voce così, e chissà perché mi è venuto in mente che qualche volta quelle bocche io non riuscivo a dissetarle tutte. Erano poveri uccellini in gabbia, un cumulo di ossa stravecchie, con una camicia di lino che lasciava vedere orrende piaghe che nessuno curava.

Erano state madri, e ora erano abbandonate dai figli. Io stessa, Simona, qualche volta ho rubato qualche moneta dai loro poveri comodini per venirti a telefonare. Tanto - mi dicevo - ne avranno per poco. Figli come i loro non sono mai stati puniti, e neppure certi genitori. Ma io penso che la persona che mi molesta in continuazione possa essere annoverata tra coloro che ammazzano i vecchi e sputano loro in faccia, anche se sono poeti.

Ricordati, amor mio, che l’educazione è la prima cosa, che la riverenza ai vecchi e il rispetto è tutto ciò che i giovani possano cavare da questa vita fredda dove noi vecchi non abbiamo più potere. Non possiamo certo correre dietro ai ladri, riacciuffare i malfattori! Chi manca di rispetto ai vecchi, ha già un piede nel delitto. Io lo so e dovrei dirlo ai giornali che cosa hanno detto di te quando eri nell’asilo che mi tenevano nascosto: hanno detto che eri una bambina tarata, figlia di una madre tarata.

La madre tarata sarei io, che oggi figuro tra i più bei nomi d’Italia: la madre tarata è il grande poeta, che aveva messo al mondo una bambina che suonava meravigliosamente il pianoforte.

So che sei intelligente. Te lo dico perché il giorno in cui hai tentato di morire io ho sentito bruciare le mie viscere come le hai sentito bruciare tu. Ho rischiato di morire anch’io. Malgrado tutto il mio corpo ti reclama, le mie viscere ti reclamano. Arrivata alla soglia del Duemila, tempo di miscredenza, disumanità e raccapricciante violenza sui bambini, spiego a te, bambina, bambina madre, giovane donna madre con una figlia di nome Giuliana, perché ho amato quell’uomo: perché si chiama come tua figlia e perché, come te, ha tentato di morire.»

«Caro disturbatore telefonico,

non ti chiederò di smettere di minacciarmi. Se io fossi più giovane, tu mi diresti frasi lascive. Ma è proprio per questo che mi insospettisci, perché di solito queste frasi si dicono anche agli anziani. Perché non mi fai mai un complimento erotico? Mi dici solo di tacere, ma su che cosa? Visto che le tue telefonate ormai sono molte, mi vuoi almeno spiegare di che cosa vuoi che io non parli? Di me hanno parlato tutti, quindi arrabbiati con i giornalisti. Ma di te, mio sordido innamorato, ho parlato soltanto io, e in tono cattivo perché un giorno tu mi hai lasciato. Non sei proprio tu quello che mi tormenta con voce afona da mezzo alcolizzato negandomi anche i sospiri?

Perché penso a te? Te lo spiego subito. Dopo avermi intensamente amata, sei venuto da me per dirmi: guai a te se parli. Quindi mi viene naturale riconoscere la tua voce. Speri che io abbia vergogna di dire che sono stata la tua amante? No, perché considero la donna una libertà assoluta e perché io sono virtualmente una donna libera.

D’altra parte ho troppo fiducia nella misericordia di Dio per non peccare con una certa allegria. L’amore, anche se tu me ne presenti la faccia più pesante, è libertà e felicità naturale.

Quindi, caro, ti saluto. Mi riprendo la mia immagine che tu hai distorta e ti posso assicurare una cosa: sebbene tutti i miei amanti mi abbiano ispirato versi meravigliosi, tu non me ne hai ispirato nemmeno uno, proprio a causa della tua minaccia di non parlare.

Dunque di te non parlerò mai più.»

(Alda Merini)

«Cara Alda, cara Alda Merini,

riconosci il silenzio ed il mio sospiro muto, ma hai mai riconosciuto l’uomo che t’è stato davanti? Quest’uomo ora ti parla, come tu non hai saputo fare.                                                                                                                                        

Quest’uomo ha avuto la pazienza di ritagliare come un maniaco le lettere dal giornale, le tue parole dal libricciolo da un milione di copie. Credo avran capito tutte le mattonelle del bagno, rosa colorate, bagnate ed asciutte, col cencio o meno, avrà capito il pollo sgozzato sulla tavolozza del tuo cucinino, i posteri avran capito, ma loro saranno dopo di me, e non torneranno indietro a dirmelo che cazzo significano le tue allusioni dette a nessuno. Chi sono io, dove sono io, dove m’hai messo? Per quale lettera ai morti occhi d’un pubblico vago ed anonimo m’hai imbarcato? Ti sei scordata di me che non m’avevi ancora incontrato. Hai parlato verso di me che ero uno sconosciuto, hai preso a maltrattarmi l’ombra che io non c’ero, hai assalito le tigri, liberato gli elefanti, ed io ero l’ammutinato spettatore nella più buia delle file di questo ridicolo circo. Ti lamenti che ero sparito, quando le scimmie han smesso di farti giocare. Ed ora mi trovo a leggere ancora i tuoi scritti, che faccio pena, mentre ti maltratto e mi sciupo la bocca (potessi piangere scomporrei la mia faccia in una morsa dorata), e aspetto, sono impaziente, di trovarvi una domanda per me. Il mio nome chiesto. Caro Giuliano – grazie – grazie, solo per questo, questo e nient’altro. Perché sai sciupare tutto così bene? Perché non m’hai detto caro giuliano e nient’altro? Poi hai fatto confusione sai? Forse non lo sai.

Tu non devi parlare, mai, perché non sai quello che dici, e non le dici tu le parole che dici, e parli di me e te ne dimentichi, mi tocchi e mi capovolgi come fossi etereo, ma mentre poesia vola, la mia carne duole, perde lacrime, perdo speranza. E non sono più io quella scatola dorata, quella carezza dove mi sarei chiuso per un letargo del cuore, imbambolato, vi scopro l’estraneo. Spargi veleno per topi, a distrarre i tuoi ladri, vetri lungo tutto il bordo, per il nemico, sassini che fanno male, bruciano col sole, i tuoi denti stretti e la paura che mi sovrasta, ed io sto scomodo, torvo, accigliato, nel mio cuore che ha preso una brutta piega. Basta con queste parole, riponi la poesia, per cortesia. Infili un ago sottilissimo, acino, filo blu che viola, per tutte le parole, nel tenero del sacco posto lì per me, e stiri il braccio, e tutto s’alza, la collanina delle figure di carte s’erge ritta e trema tutto l’arco del Naviglio, da sponda a sponda, coi tuoi giochi di estro che tintinnano, e la tua maga privata che infibula le stelle. E io passo, oscuro e ombratile, sul marciapiede di panno. E guardo in cielo, e so di pazzo, mentre la tua risata trema fra una pioggia di denti.

         Ho preso il libricciolo, con su scritto Alda Merini, esattamente per lo stesso motivo che mi proibisce di resistere a telefonarti, e varco il telefono, come fosse una brioches con panna per eterni bulimici. Ma cosa ti dico? Amore non sono io. “Datemi una goccia d’acqua” e tu non me la dai. Lo sai non va chiesta, l’acqua. Ma che muoio lo senti, ma niente. Che sono condannato.

Tu non devi dire nulla. Tu non sai nulla. Non hai mai saputo nulla, e la confessione che ti distorce ogni giorno ed ogni alba il cielo non lascia che tu mi citi in tribunale, non mi porta con te, se non come quell’uomo che Meursault ha abbattuto – perché? – sulla spiaggia d’una sera d’indifferenza. Tu mi ami, e parli al cielo. Ma io sto qui e ti piango all’orecchio sordo. Io sto qui. Buono. Davanti. E tu parli al cielo. Ho aspettato tu mi chiamassi, per ogni rigo della tua sterile persona, ho dilaniato il mio silenzio invadendo la tua rabbia, per la vena blu d’un cavo telefonico allucinato, o marcio di frigo, ma tu non hai fatto il mio nome. Tu non hai fatto il mio nome.

Il mio sesso è un verme, e non sa ballare con la tua gioia e allegria, è malato d’amore e nostalgia. E mi bruci al fuoco, se vuoi danzar in cerchio con gli spettri assenti, se inviti ospiti al nostro amore. Il tuo panno danzante è poco diverso da questo telo bianco della lettiga, ed incatena uguale. E tradisce dal desiderio uguale, che manca a se stesso e dà freddo. Tu mi hai fatto morire con l’amore che sei.

Un orgasmo qualsiasi mi ha dato alla testa. Ma tu eri la femmina, inconsapevole, che ha lasciato toccassi i suoi seni persi nel nero d’una qualsiasi parola, sono infinite e non so a quale mi sono arreso. Ma non ero in nessun luogo, tu mi ci hai lasciato.

Forse è il mio, forse di qualcun altro il nome della figlia di tua figlia. Ma non è abbastanza, solo un inganno, un sortilegio, di cui dovrà sbarazzarsi appena potrà, se potrà. Perché le hai fatto questo? Col nome di nessuno. La mia vita sul suo volto, mi fa piangere, tu non lo sai.

So bene che non ti aspettavi una lettera da me, una risposta da me. Una frase compiuta da me. La tua dolcezza, non dà posto. Non hai fatto nessuna domanda tu, e sarebbe illogico del tutto che così non facendo, tu avessi toccato qualcuno. Tu ti getti e basta, tu urli o fai falò, o dimeni le tette al vento e fai ingorghi di fuoco. Canti urli tiri alle stelle. Le guardi le stelle?

Ma, ma depongo i miei occhi grandi, e i mugugni sordi, e ti seppellisco di sotto a queste parole. Non ho scelta; qui ti rendo, rabbia, e tradisco.

 

Giuliano»

 

(elisa santucci)