IL MALE

 

di - Donato Meli

Il termine "Male", nell’uso comune, tende spesso ad indicare semplicemente ciò che non è bene. Sul concetto di "Male", invece, si sono soffermate le migliori menti che l’umanità ha conosciuto nell’ambito della filosofia. Il problema del male non è solo qualcosa che nasce dalla speculazione più o meno recente e più o meno inutile di qualche filosofo strampalato, o uno strumento utile nelle mani di qualche religione per inculcare il timore della disobbedienza. È un problema connaturato nell’uomo, spontaneo quanto spontanea è la tendenza all’autoconservazione e alla felicità, ed è un problema che, quindi, nasce con l’uomo stesso. Spinoza, asseriva che in ogni affermazione è implicita una negazione: alla luce di questo concetto appare chiaro come l’uomo, nel suo slancio verso la felicità, nel suo slancio verso l’autoconservazione, non possa essere pervaso dal timore del loro contrario. Ad esempio, il Manicheismo vede la vita come una continua lotta tra il bene e il male; ma non occorre ricorrere a paragoni con una corrente religiosa poco diffusa per far notare come il problema del male abbia tormentato e tormenti l’uomo in quanto tale: fin dall’antichità egli ha antropomorfizzato gli elementi naturali, per esorcizzare così le sue paure; le divinità non erano però tutte divinità "in positivo", ma vi erano anche divinità malvagie, gelose, invidiose, dalla cui volontà nascevano, poi, i mali che l’uomo, altrimenti, non avrebbe saputo spiegharsi in un’ottica di natura = bontà. L’uomo ha quindi individuato già immanente nella natura il lato negativo di tutto, la possibilità (per dirla in maniera Kierkegaardiana) del male intrinseco in essa. Il male si configura, allora, come un qualcosa di imprescindibile nell’esistenza dell’uomo. Le grandi religioni monoteiste hanno pagato (e tutt’ora pagano) il prezzo di questa contraddizione: identificando Dio come Bene assoluto, come creatore del mondo migliore possibile, non riescono a spiegare in modo soddisfacente l’esistenza del male. Per secoli, infatti, teologi, filosofi e intellettuali si son "combattuti" a colpi di teorie, di rivisitazioni, di interpretazioni, ma il male è sempre rimasto come problema pressoché insoluto. Anche sull’ontologia del Male si è spesso dibattuto: c’è chi crede che il male sia solo una mancanza o un affievolirsi del bene (S. Agostino) e che quindi non abbia valore ontologico; c’è invece chi crede il contrario, che cioè il bene sia solo una momentanea assenza del male (Schopenauer) e quindi qualcosa di fugace, di passeggero e comunque privo di qualsiasi consistenza ontologica.

Il male, poi, ha valenza assoluta? Ciò che è male, è male sempre e comunque? I sofisti, già al loro tempo si erano posti questo problema: per essi né il bene, né il male erano qualcosa di assoluto, non si poteva cioè dire di una cosa che fosse male senza dire male per chi. Essi affermavano non esistere niente che fosse male di per sé, ma solo male per qualcuno. Infatti per essi il male e il bene non avevano carattere assoluto; infatti instaurarono il relativismo conoscitivo e morale secondo cui non esiste una verità teoretica o morale assoluta o sciolta dalla soggettività, ma solo relativa ad un determinato punto di vista del mondo.

Il problema "male" è quindi tra i più antichi e onnipresenti all’interno del processo storico: non è esistita, infatti, società all’interno della quale non ci siano state discriminazioni, rendendo la speranza di una società, imperniato sulla libertà e sull’uguaglianza, un’utopia lontana a realizzarsi e mai effettivamente realizzata nella lunga e complessa storia dell’uomo. Sotto questo punto di vista già Kant aveva cercato di smentire l’ideale di una storia sempre progressiva, vedendola alternarsi con fasi stazionarie o addirittura regressive, al contrario dell’ottimistica visione Hegeliana della storia come processo in cui il male viene continuamente vinto e continuamente risorge. Ma, storia alla mano, non possiamo non guardare con scetticismo a questo ottimismo. La storia, infatti, ci insegna come la coesistenza degli uomini sia stata tutt’altro che egualitaria: già nell’antica Grecia, culla della civiltà, tempio di cultura, esistevano gli schiavi, che, a differenza di quelli romani, erano trattati come familiari, ma erano sempre visti come "diversi", non come uomini normali, bensì come uomini minori. Ma quello dell’antica Grecia non fu uno dei casi di schiavitù unici nella storia dell’uomo, fu solamente uno tra i primi: l’uomo, infatti, conserverà nel tempo l’idea di essere superiore ad altri e perderà quella della pacifica convivenza con i sottomessi. Classico esempio di storia regressiva. Se infatti all’interno della polis lo schiavo conservava comunque una certa dignità, il concetto di dignità per questi uomini "inferiori" tenderà a scomparire. Quale dignità potevano avere i neri che dall’Africa venivano caricati a migliaia sulle navi dei "paesi sviluppati" per essere portati a lavorare (quelli che sopravvivevano al viaggio) nei campi dei coloni americani che si arricchivano sulla loro pelle? Quale dignità potevano avere gli indiani americani rinchiusi dall’inarrestabile sete di possesso dei conquistadores? Quale dignità potevano avere gli abitanti delle Americhe non più padroni delle terre che sempre erano state dei loro padri? L’uomo quindi ha pian piano sempre più denigrato l’uomo stesso negandone la dignità. Il culmine di questo processo credo sia stato toccato durante la seconda Guerra Mondiale con i campi di concentramento, nei quali l’uomo veniva annullato nella sua dignità, azzerato come singolarità e gli venivano derubate le peculiari caratteristiche di uomo. ma il male non è solo nei gesti eclatanti e nelle imposizioni palesemente autoritarie, ma spesso è più subdolo e strisciante: male è l’alienazione che porta l’uomo a sentirsi niente, alienazione nata dai così belli e luccicanti processi di tecnologizzazione in cui il profitto è tutelato molto più di quanto lo sia l’uomo. Le nuove tecnologie stanno sgretolando gli apparati critici delle persone dando tutto già per ragionato e risolto. Il male non ha stesse valenze e manifestazioni. Oggi si parla tanto di assenza di valori, di gioventù senza mete, i bambini vanno a scuola con le pistole e uccidono altri bambini, i giovani bastonano i barboni solo per passare una serata diversa, adulti non esitano ad approfittare di bambini solo per placare insane voglie. Più che descrivere il male, però, è interessante capire come discernerlo dal bene, poiché la linea di demarcazione tra bene e male (che non sempre è individuabile) è appena accennata. Siamo in grado di discernere ciò che è male? Quali sono i parametri che adottiamo? Mi lasciò perplesso, tempo fa, una notizia del telegiornale: in un paese dell’est (non ricordo con precisione quale) un uomo aveva ucciso cento bambini, era stato catturato e le autorità avevano disposto che fosse impiccato in piazza e che, una volta morto, il suo corpo fosse tagliato in cento pezzi, che sarebbero poi stati dati da mangiare ai cani. Questo sfogo di crudeltà su un uomo che era stato tanto crudele potrebbe sembrare, ai più cinici, quasi giustificato. Ma il telecronista che tanto si era soffermato sulle crudeltà compiute da costui, alla fine del servizio accennò velocemente che l’uomo era stato arrestato e trattenuto per due mesi per un crimine che non aveva commesso e torturato affinché confessasse ciò che non aveva fatto. L’uomo, allora, rilasciato ma ormai segnato psicologicamente, in preda alla pazzia e al rancore verso la società, aveva fatto strage di una scolaresca che passava. Dov’è il male in questo caso? La società, si sa, in molti casi ha bisogno di un capro espiatorio su cui proiettare tutto il male ricevuto e tutte le proprie angosce: le madri di quei bambini non potevano credere che il colpevole fosse il meccanismo perverso della legge, quindi non una singolarità punibile; era più facile e, bisogna dire, anche necessario, per la disperazione dei familiari, avere un individuo singolo pienamente colpevole. Il male, infatti, non sempre è qualcosa di evidente ed eclatante e non sempre (anzi quasi mai) è imputabile ad uno solo, ma è la società nella sua organicità e complessità a fornire al singolo quelle esperienze e quelle situazioni che lo spingeranno prevalentemente al bene o al male. Kant dice che se l’uomo è colpevole lo è infinitamente e non può non esserlo altrimenti perirebbe la sua libertà: ma Kant, nonostante la sua grandezza, non può semplicemente concentrare la colpa sul soggetto scagionando la società, poiché la libertà è frutto di scelte operate dall’individuo, scelte che Kant non colloca nel tempo affermando che tutte le scelte libere sono fuori dal susseguirsi temporale altrimenti sarebbero l’effetto di una causa. Ma in realtà non è così, le scelte libere cadono sempre all’interno del tempo e sono scelte contestualizzate, anzi non si può decontestualizzarle altrimenti perderebbero la loro validità e logicità.Estrapolando l’uomo dalla realtà lo si trasforma in un essere atemporale e aspaziale: la libertà, quindi, cade nel tempo, non solo, ma le singole scelte libere sono sempre condizionate dalla realtà esistente, poiché con le scelte libere l’uomo decide della sua vita, ed ha un passato che lo influenza e un futuro in cui si proietta. Kant parla di libertà finita in quanto per essere liberi ci si deve comunque attenere ad una legge, la legge morale: si dovrebbe però parlare di una libertà contestualizzata, poiché l’atto libero è sempre libero rispetto ad una situazione ed è sempre influenzato dal vissuto dell’individuo, quindi è effetto di una o più cause. Ma dicendo ciò non si svincola comunque la libertà: l’atto libero è sempre frutto di una scelta razionale dell’uomo, scelta che però cade nel tempo, e l’uomo nel compierla valuta il passato e il passato è a volte causa della scelta. Se Siddharta non avesse incontrato quel vecchio non sarebbe andato per il mondo a predicare, ma ciò non significa che la sua scelta non sia stata libera perché condizionata dall’incontro; l’individuo è artefice di male, ma a volte lo è inconsapevolmente, o perché i condizionamenti che ha ricevuti insieme alla sua indole lo hanno portato a una determinata forma mentis, o semplicemente perché con un equilibrio psichico fragile è più facilmente influenzabile. Significa che l’individuo non è colpevole del male che compie perché è portato al male dalla società? In alcuni casi è così: i bambini che crescono nei regimi totalitari crescono con l’idea inculcatagli che il dittatore sia una specie di padre: in quel caso l’individuo diventa vittima stessa del male della società e gli viene trasmessa una scala di valori, un disprezzo per i nemici che gli faranno vedere come sommo bene le stragi che i suoi connazionali fanno di costoro. Ma non occorre allontanarsi molto da noi per scoprire questi condizionamenti: un individuo psicologicamente fragile riceve dalla televisione e dalle pubblicità l’esempio di un modo di vita che accetta perché in quel momento incapace di difendersi e quindi si comporta in modo anomico, conformista,acquisendo come propri i valori che meglio traspaiono dalla società, ovvero denaro e successo. Questo individuo fragile è vittima o aggressore? Difficile da decidere, sarà un po’ entrambi. Il male non è quindi solo nella singola decisione personale, ma risiede, così com’è strutturata, nella dinamica sociale di cui un uomo fa parte. Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del fatidico muro si auspicava un clima di pace e l’avvento della tanto rincorsa (a parole) uguaglianza. Ma sono bastati pochi anni perché la pace, in realtà troppo fragile, si infrangesse nella guerra del Golfo e in tutta una serie di conflitti etnici nei Balcani, in Africa e in varie parti del mondo, conflitti per lo più taciuti a causa della poca audience che suscitano, ma che mietono lo stesso migliaia di vittime. E il male oggi? Oggi dietro la corruzione di alcuni partiti che pensano a tutto tranne che al bene della nazione, dietro a politici che curano le proprie tasche più che i cittadini, si nasconde un egoismo portato agli estremi, egoismo che anni di politica e di scandali (vedi tangentopoli) ci hanno mostrato e che è rimasto costante nonostante l’alternarsi dei governi e degli schieramenti. Il male sta oggi nel progressivo allontanarsi della gente dal vivere sociale in senso completo, poiché usufruiscono della società solo nel momento del bisogno (divertimento, lavoro…), ma partecipandovi come singolarità interessata non al bene globale del sistema, ma a quello particolare. Ritengo che il male nasca quindi sempre da un rapporto, da un confronto, da una diversità: la diversità è infatti spesso la scintilla del male, ma non può essere confusa con il male stesso. Il male nasce da un rapporto nel quale ci si accorge della diversità e la si assume come discriminante: se, per assurdo, un uomo affetto da gravi handicap fisici si trovasse completamente solo senza nessun altro simile cui paragonarsi, non si sentirebbe diverso da qualcosa o non discriminerebbe chi è diverso da lui. Il male nasce quindi dal rapporto con la società, ma non è un carattere inevitabile di questa: si genera in una società non educata alla convivenza. Si genera dai rapporti tra gli uomini, ma solo dai rapporti tra uomini non educati correttamente a relazionarsi con altri. Quando un uomo si pone verso un altro con l’idea che ha ormai assimilato di essere migliore, oppure quando un uomo si pone verso l’altro con l’unico scopo di far prevalere gli interessi, le inclinazioni e le scelte che portano solo e soltanto al bene personale, allora possiamo parlare di male. Se ciascuno fosse educato alla convivenza, al valore dell’uomo che non è soltanto in se stesso ma in tutti gli altri uomini, allora questo non ci sarebbe. Ma quando la società prende questa piega, quando pone cioè modelli errati che diventano modelli di un vita conformista, allora è difficile tornare indietro e porsi correttamente nei confronti degli altri, perché ormai la società ha dei punti di riferimento (sbagliati), dei valori (anomici), delle mete (egoistiche) che difficilmente possono mutare. Occorrerebbe che la scuola salvaguardasse il bambino e il giovane da questi condizionamenti, ma ciò non può avvenire perché la scuola è un sotto-sistema perfettamente, ormai, inglobato nel sistema. Sono i rapporti sociali che creano il bene e creano il male, poiché questi valori hanno bisogno non solo di un soggetto, ma necessariamente di un oggetto; l’uomo è il prodotto della società in cui vive: l’importante è stimolare il processo autocritico e poi quello critico poiché tutto è nella nostra volontà. Si deve quindi opporsi affinché cessino i condizionamenti che ci fanno perdere la libertà, stimolando la criticità e ricordando che il bene o il male sono fenomeni complessi e che coloro che il senso comune addita a responsabili, sono quasi sempre il classico agnello sacrificale.