R-esistenze

di Silvio Cinque

Il confronto tra questi due libri non è casuale, ma non vuole avere caratteristiche di competitività. É un confronto nel quale si cercano ragioni e ragioni differenti, ci cercano valori sui quali riflettere bene e a lungo per poi obbligarsi a scelte. Perché un primo aspetto fondante che unisce questi due libri è l'obbligo della scelta: rimanere neutrali significa scegliere comunque.

Perché due recensioni di libri su fascismo e la Resistenza in un momento in cui l'attenzione del mondo è concentrata sulla tragedia americana e l’umanità, mia figlia in testa, si interroga sul proprio destino e sulla eventualità della Terza Guerra Mondiale? Perché dunque due libri che parlano di donne, quando il mondo ha urgenze più preoccupanti che sono bin Laden, ma anche Bush; il fondamentalismo, ma anche il militarismo; l’America, ma anche l’Europa e l’Asia e il MediOriente e l’Africa; la Nato, ma anche lo scudo spaziale e questa Giustizia infinita che però esclude popoli e popolazioni e persone: il popolo afgano e Silvia Baraldini. Insomma perché due libri così lontani dalle impellenze di oggi?

1) Perché sono libri che parlano di donne. Scritto l’uno da una intellettuale impegnata nelle istanze del pacifismo e del femminismo, sostenitrice insieme ad altre della Fondazione Rosa Luxemburg nella quale si studia il femminismo in chiave pacifista e si ricercano i modi per una pratica pacifista di genere e per la risoluzione non violenta dei conflitti; l’altro sulle testimonianze di donne sul fascismo visto però dall’altra parte, dalla parte delle donne di Salò, dei Servizi Ausiliari Fascisti.

2) Perché oggi il mondo  ha uomini che ne guidano le sorti: uomini armati, uomini in divisa, uomini determinati,sfuggenti, disperati, suicidi, uomini “giusti” e illuminati dalla luce di Dio-uomo. Uomini. Maschi, guerrieri, militari, martiri e soldati, sempre e comunque soltanto uomini.

3) Perché oggi tutto ciò che è legato a visione altre e diverse: il pacifismo praticato e praticante,  l’attività politica quotidiana e locale, il linguaggio differenziato e di genere, l’ascolto, la compassione, la solidarietà, tutto ciò è silenzio, è donna.

Tutto questo dire è possibile ritrovarlo nel libricino di LIDIA MENAPACE: Resistè, scritto per la collana “Le scelte delle Donne”, edizioni Il Dito e la Luna,2001. Si compone di due parti: una è quella propria e ne dà il titolo, l’altra è Memorie Clandestine del 1965, più articolata di fatti, uomini e considerazioni. Tra queste due parti corre un filo che le unisce e questo filo è la dolcezza, la delicatezza, ma anche la coerenza e la fermezza con cui Lidia racconta della sua vita e dei fatti che  coinvolsero e sconvolsero lei e l’Italia e di come il caso, gli eventi, le scelte la spinsero verso la Resistenza come staffetta, rischiando la vita, la deportazione, la tortura. Nei suoi ricordi  c’è una vena che un po’ sconcerta perché conoscendo il suo impegno continuo e infaticabile, la sua capacità di scrivere e parlare, stupisce di queste pagine così scarne ed essenziali e queste parole semplici e nette. Quasi un libro di appunti che prepari pubblicazioni (ci auguriamo) successive sull’argomento. Malgrado la brevità, questo non ne fa un libro superficiale o autoreferenziale. Nel numero di Marzo 2000 di Namir, in una intervista Lidia parlava della sua giovinezza, dell’iscrizione alla FUCI, vista come un momento alto di aggregazione e presa di coscienza antifascista universitaria. Perché Lidia non nega la sua religiosità, collocandola tuttavia nella dimensione del genere. È in questo senso la piccola e recente dissertazione polemica su “Il Papa chiede perdono” (sempre della ed. Il Dito e la Luna).   

Questa religiosità, questa fede, che costituiscono il terreno spirituale e culturale della sua formazione politica, la porteranno successivamente ad una visione “marxista” ed a una interpretazione della realtà in chiave femminista. Perché femminismo, marxismo, pacifismo e cristianesimo caratterizzano il suo essere ed agire politico in un tutto unico e complesso. Le pagine descrivono questi momenti di presa di coscienza descrivono questi momenti di presa di coscienza come lo sciopero alla Fonderia Sant’Andrea di Novara dove alla solidarietà con i lavoratori si accompagna la convinzione che “…le armi non erano tutto e che persone  inermi potevano farcela”. Senza togliere nulla alla consapevolezza che la reazione nazista, superata la sorpresa, si sarebbe organizzata violentemente e crudelmente con deportazioni e decimazioni, non efficaci abbastanza da impedire agli operai di sabotare la produzione ed impedire che le fabbriche andassero in Germania. Padre ferroviere, laico e  mazziniano, madre di cultura ed educazione anarchica, vive con la sorella, che spesso l’accompagna in bicicletta, ed un fratellino molto sveglio e sagace, per i quali ha una protettiva e premurosa predilezione. La presa di coscienza antifascista avviene gradatamente, grazie anche ai giornali francesi che il padre ferroviere procura e nei quali appare un’altra realtà rispetto a quella censurata e controllata dal regime. Mi piace anche pensare che artefice della sua formazione sia stato anche il sciur Rizzi  della civica biblioteca di Novara che vedo ammirato e commosso nella sua funzione discreta e responsabile di educatore e bibliotecario. E poi la figura di don Gerolamo Giacobini che dall'università diventerà successivamente cappellano partigiano e che la introduce alle letture di Marx ed Engels, ed alla conoscenza di figure antifasciste come Matteotti e Pertini e Terracini. Questo è il retroterra culturale nel quale Lidia Resistè, ma è anche quello unito e amoroso della sua famiglia che sopporta con dignità l'offesa del regime e l'invasione nazista. E quando con la sorella si imbatte in una pattuglia di "ragazzi malvestiti e con il  fucile in spalla" diventa spontaneo far parte della pattuglia partigiana. Così comincia la pericolosa, esaltante, adrenalinica e coraggiosa esperienza (non avventurista!) di staffetta partigiana. Qui i ricordi e la narrazione tornano indietro risucchiate dal tempo e non è più la splendida "ragazzaccia del '25", ma una giovane ragazza che pedala in bicicletta e osserva e porta informazioni evitando pericoli e posti di blocco con "l'audacia e l'astuzia della disperazione" e con qualche ingenuità che la paura induce a confondere  le stanghe di una carriola per le canne di due machinen.

        Tuttavia in queste pagine emerge il pensiero fortemente pacifista che distingue, p. 31, la resistenza con il suo carattere spontaneo e non prevalentemente militare ed il suo timbro certo antimilitarista. Lidia è infatti convinta che fascismo e nazismo siano stati vinti politicamente dai popoli prima e ancor più che dagli eserciti [ p. 35] e che la Resistenza fu un momento di gioia, avventura, vitalità, capacità di reagire.... l'approfondimento al pacifismo pacifista si fa più maturo e preciso rispetto ad allora. Il ripudio della guerra come soluzione dei conflitti diventa una convinzione sempre più articolata e consapevole e comincia con la spedizione italiana nel Libano, allora capo del governo era Spadolini, e continua poi per la guerra del Golfo Persico, la tragedia incompiuta della Yugoslavia, il conflitto israelo.palestinese....

                          Di impostazione completamente diversa è il libro di Ulderico Munzi: Le donne di Salò, le ausiliarie della SAF, per la collana "i Saggi" della Sperling & Kupfer, 1999. Le premesse al libro sono già un tentativo di legittimazione di questo aspetto della storia e lo colloca pericolosamente nel solco del Revisionismo Storico e di quella interpretazione tanto cara a Storace ed a chi vuole legittimare in nome di principi confusi e volutamente confusionari, un po'  vittimistici, un po' patetici, le cause che portarono alla tragedia dell'Europa e del mondo negli anni '40. Nella prima di copertina l'autore si stupisce, per esempio che "nessuna ausiliaria abbia la pensione di guerra". Prosegue domandandosi se sia giusto "scacciare dalla memoria le ausiliare della Repubblica Sociale solo perché fasciste". Nell'introduzione si arriva infine all'omologazione, anzi a diverse omologazioni, per le quali alcune aberranti recenti dichiarazioni di Veltroni ed alla canzone di De Gregori, "Il cuoco di Salò" portano a dichiarare che in fondo tutte "le morti sono uguali". Nell'introduzione si parla oltre che di "femminismo fascista" (Edda Ciano), anche di alcune caratteristiche di "guerra civile, la quale espresse da entrambe le parti, fascisti o partigiani che fossero, gli ingredienti della sua specificità storica: onore, coraggio, viltà, tradimento, sadismo e ferocia. La guerra civile è un calderone in cui si muovono disordinatamente i migliori e i peggiori istinti dell'uomo". E qui mi sembra che il libro di Lidia Menapace dia già una risposta 1) nel ripudio della guerra come "disinfettante del mondo"; 2) nella distinzione netta e precisa dei valori che contrapposero gli uni/e, agli altri/e. Per esempio il pittore che piangeva perché aveva paura di non resistere all'interrogatorio. Lidia scrive: "mi fece una profonda impressione quell'ammettere la paura del male, l'avversione per il dolore, il riconoscimento per la debolezza fisica e capii nello stesso tempo che nessuna educazione al coraggio fisico poteva essere più vera di quel coraggio morale, che nessuna ostentata affermazione di violenza, di gusto del rischio avrebbero mai potuto avere la bellezza di quel pianto e la nobiltà di quella paura". Altro che audacia e sadismo! Fra l'altro non si chiedevano gesti così eroici e "prometeici". Anche in altri libri (Pratolini, Silone, Calvino ed altri) si riporta la raccomandazione per la quale era sufficiente resistere solo un giorno alle torture, in modo da permettere alle cellule di smantellarsi e riorganizzarsi altrimenti. E poi andiamo a vedere questo "femminismo fascista" che tanto piaceva ad Edda Ciano. Se vediamo le foto tratte dall'Archivio Pisanò e ne leggiamo i commenti didascalici ci possiamo rendere conto di che tipo di femminismo si tratta. Oggi questo "femminismo" si concretizza nella omologazione al modello militare maschile. Donne soldato, poliziotto, comunque in divisa, in questa pericolosa dispersione dei valori originari del femminismo, sembrano considerare emancipata e femminista la donna che imita e scimmiotta l'uomo. Là dove non venga inserita come elemento femminile per dare un tocco di tenerezza alla guerra. Donne che rammendano le divise, donne che battono a macchina "sottoposte a corsi severissimi", donne infermiere che rappresentano il punto più alto del femminismo fascista. Dov'è il femminismo in questo utilizzo cinico e retorico della donna? Vi si trova scritto: "Il fascismo non vuole che si dimentichi completamente il ruolo della donna di casa".

        Ed allora i tredici racconti personali di ciascuna di loro sono da inserirsi in questo preciso contesto. Tredici racconti che parlano di stati d'animo e situazioni diversissime tra loro, ma tutte riconducibili alla scelta di essere Ausiliarie del fascio. La contessa Piera Gatteschi, fondatrice della SAF, lamentava la perdita a fine guerra di 300 ausiliarie, delle 6000 che avevano aderito nel '45. Lamentava soprattutto, che l'indignazione e l'odio della gente si manifestasse contro le ausiliare anche dopo la fine del conflitto. Il numero esiguo di perdite diventa così altissimo dato il contesto in cui è avvenuto. Mia madre, che aveva 23 anni nel '45, mi dice che nulla si sapeva dei Campi nazisti. Ma lei era una ragazza che aveva fame e paura e ricorda nei portici di Soliera i partigiani impiccati a monito ed esempio. Mia madre ricorda la paura del coprifuoco e dei lupotti della Garfagnana che calavano nelle campagne emiliane bruciando, stuprando, uccidendo. Le ritorsioni, condannabili ma comprensibili, avvenute dopo la guerra nel famigerato triangolo rosso, spesso si commettevano in nome ed a pretesto di cause partigiane. Ma una ausiliaria che aderiva alla Repubblica di Salò sapeva dei Campi, sapeva della ferocia nazista, sapeva dei forni e delle rappresaglie, sapeva delle deportazioni. Pur sapendo si era schierata. Perché allora indignarsi tanto? Una cosa va però detta perché è una delle prime che compare nel libro e sembra morbosamente suggellare, elevare e depurare tutte le scelte fatte dalle ragazze della SAF con una sorta di effetto accattivante e giornalistico: lo stupro da parte "dei partigiani" dell'ausiliaria B., protetta nel suo anonimato da questa sigla che non le renderà mai tuttavia giustizia abbastanza. La testimonianza è dettagliata e perciò credo sia vera. Ma ciò che respingo, in quella ed il altre circostanze, rifiuto e condanno è l'idea che a fare una cosa del genere siano stati i "partigiani". Erano tutto: "ubriachi e traditori, maschi ed anche una giovane partigiana", ma non partigiani. insomma per dirla con le parole della ballata del Pinelli: "un compagno non può averlo fatto". L'idea perciò che essere  partigiani fosse questo è ciò che il fascismo vuole far credere per continuare a riprodurre l'odio e l'indifferenza o peggio la rimozione o l'omologazione. Una cosa invece devo correggere del libricino di Lidia Menapace e riguarda proprio le ausiliarie della SAF. Lidia scrive "Erano ragazze spesso di dubbia virtù, oppure scappate da casa o rimaste senza nessuno per la guerra, e confluite dove potevamo avere un vestito (sia pure un'odiata divisa), una branda con un tetto sopra e rancio assicurato"...[p. 64] Ebbene non tutte erano così e ciò che lei scrive è forse il frutto di una grande amore per le Donne, un amore che la porta generosamente a trovare giustificazioni e spiegazioni. Da questo punto di vista il libro di Ulderico Munzi offre una ottima testimonianza.

            C'è forse qualcosa che unisce questi due libri ed è la conclusione, forse banale, che le donne non solo non devono fare la guerra e questo comunque non è il caso di Lidia, ma devono insegnare agli uomini a non farla. Solo così si potrà smentire la battuta di Hemingway al quale chiesero, dopo la stesura del libro "Addio alle armi", perché gli uomini  facessero la guerra e lui rispose pronto: <perché le donne stanno a guardare>.