ANTI-IMPERIALISMO E QUESTIONI NAZIONALITARIE (anche) negli Stati a capitalismo avanzato. Costruire la resistenza, progettare la liberazione: alcuni nodi

Preliminarmente alle riflessioni che seguono, merita riportare la dichiarazione che il movimento di resistenza libanese Hezbollah ha diffuso, solidarizzando con i parenti delle vittime negli Stati Uniti: "Ci dispiace per gli innocenti che vengono uccisi in qualunque parte del mondo. Il nostro popolo libanese, che ha conosciuto i massacri sionisti a Qana e altri massacri che il governo americano ha rifiutato di condannare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sente più di chiunque altro il dolore di chi ha perso i propri cari". Un messaggio, per chi lo sa leggere con attenzione, che esprime, in sintesi, quella dignità umana e politica che, da tempo, e per l’impatto massmediatico di questi giorni, non vanno assolutamente per la maggiore.

Gli attacchi suicidi contro obiettivi finanziari e militari negli States stanno producendo due effetti: 1. una straordinaria riaffermazione egemonica degli Stati Uniti, che pretendono ed ottengono un riconoscimento mondiale di leadership, mai così platealmente visto, da parte di classi dominanti, particolarmente europee, servili ed assolutamente subalterne; 2. una rincorsa frenetica dei vassalli, valvassori e valvassini, cioè il codazzo gerarchizzato degli Stati subalterni con annessa grancassa massmediatica internazionale di riferimento (cosiddetta pubblica e privata), in (quasi) competizione per chi omaggia e si prostra di più all’imperialismo dominante, giù giù sino allo ‘spaesamento’ di non pochi organismi sedicenti rivoluzionari, antagonisti, eccetera, che intimiditi balbettano, annaspano, confessano (esplicitamente o implicitamente) il loro disagio d’intervento politico.

A tutt’oggi, nonostante non sia giunta alcuna rivendicazione di alcuno Stato su quanto accaduto, il giudice e gendarme del mondo ha già emesso la sua sentenza di morte e distruzione. Con la scusa del terrorismo e come se non lo praticassero essi stessi da tempo, gli USA puntano a colpire Stati non (o non del tutto) allineati alle proprie posizioni, a normalizzare ed occupare aree in posizione strategica in vista di possibili e ben più complessi scontri futuri contro "nemici" più seri ed attrezzati. Gli Stati Uniti, alcuni anni fa, hanno conosciuto attentati simili. Ad Oklahoma City un palazzo dell’FBI saltò in aria provocando centinaia di morti. Un’organizzazione di estrema destra, radicata negli USA stessi, particolarmente in uno dei suoi Stati, intendeva così colpire il centralismo federale statunitense giudicato oppressivo. Come mai, in nome della lotta al terrorismo, non si è deciso di attaccare e bombardare quello Stato dove risiede(va) quell’organizzazione di estrema destra? Ovviamente non auspichiamo bombardamenti su nessuno. Rileviamo come, in presenza di casi simili, questa diversità di approccio sia solo strumentale e sintomo di precisi interessi.

Chi si batte per una trasformazione radicale degli assetti sociali dominanti, ed ha come proprio orizzonte ideale e di senso esistenziale una prospettiva di liberazione individuale e collettiva, non può ovviamente restare insensibile per le sofferenze umane in ogni dove del pianeta e per le modalità di certi atti. Ma qui si è innescato qualcosa di diverso ed il nostro cervello non intendiamo portarlo all'ammasso. Quel che indigna è l’indifferenza per i morti che l’imperialismo USA ha disseminato per il pianeta. Quel che lascia sconcertati sono i fiumi di retorica e di ipocrisia, come se quel che è avvenuto sia frutto dell’assurdo, dell’inspiegabile. I tragici fatti di New York e del Pentagono non sono frutto della follia, ma probabilmente, dandola cioè per buona in assenza di elementi certi, della disperazione e della vendetta messa in atto da un qualche gruppo del radicalismo islamico. Lo ripetiamo: assumiamo solo come ipotesi la possibilità di questa matrice, per essere più netti e chiari nel ragionamento e nella posizione che assumiamo. Non ci stupiremmo, infatti, se dovesse risultare che si è trattato dell’ennesima operazione con regia o ‘avallo’ CIA, la cui maestria nel costruire o nel ‘consentire’ operazioni sporche anche di una certa "raffinatezza" è nella storia e nell’oggi. Si tratterebbe di una "verità" di cui, forse, saremo a conoscenza tra cinquant’anni. Intanto, a trarre benefici da questi atti, questo ci pare evidente, sono gli USA stessi ed il suo alleato strategico regionale che è Israele.

Nell’ipotesi di una ‘autonoma’ o ‘consentita’ azione di un qualche gruppo del radicalismo islamico, chi ha colpito le due Torri ed il Pentagono, dirottando aerei e trasformandosi in kamikaze, avrebbe inteso colpire dei simboli finanziari e militari dell’imperialismo statunitense. Facendolo non si è preoccupato di uccidere se stesso e delle persone qualunque e, forse, si sarà anche compiaciuto di colpire sia chi era attivo in alcuni dei centri più significativi della speculazione finanziaria negli States, sia chi lavorava negli uffici del Pentagono che notoriamente attiva e coordina le guerre (ad alta, media e bassa intensità) di aggressione USA in giro per il mondo. Si saranno compiaciuti di colpire quel "capitale umano" (espressione non nostra, ma di commentatori televisivi!) la cui perdita è stata lamentata più grave di quella infrastrutturale perché, per rimpiazzarla, ci vorrà tempo.

Come non vedere, allora, in questa operazione speculativa imperialista sui morti, che fanno più notizia i morti "americani" (e poi tutti gli altri...) mentre è da decenni calato il sipario sui morti (solo "civili", per carità, per restare a questa categoria ora tanto in voga dall’ideologia dominante…) ammazzati in Iraq, in Jugoslavia, in Kurdistan, in Palestina e via elencando nel tempo e nello spazio? Ora, se gli USA, l'unico Stato che esercita in pieno le proprie funzioni di Stato, l'unico a muoversi "liberamente" in termini imperialistici sul pianeta (perlomeno in questa fase), se questo imperialismo, il più spietato che si sia visto sulla faccia della terra, impone lutto ed esecrazione (e non solo...) per le proprie convenienze, e, per le stesse ragioni, cioè le proprie convenienze, impone indifferenza e normalità alle morti, alle stragi, ai genocidi che direttamente o tramite suoi alleati-subalterni (Israele e Turchia, ad esempio) provoca altrove, è evidente che si tratta di un gioco sporco, oltre che di un neanche tanto velato "razzismo umanitario" che non si possono accettare. Giacché la nostra coscienza non si accende ad intermittenza, cioè a comando diretto o indotto, giacché esprimere solidarietà ed esecrazione è oggi, in questa situazione, una scelta politica ipocrita ed indotta dal "politicamente corretto", giacché si chiede questo per "avere l’anima", ebbene, noi riteniamo che allora non si debba concedere niente. E diciamo, sempre nel quadro della suddetta ipotesi: quei morti sono vostri morti. Vostri perché prodotto della vostra arroganza imperiale, vostri perché l’odio che da decenni seminate nel mondo vi sta tornando in casa, vostri perché quegli uomini bomba che si scagliano in casa vostra non hanno altro che la disperazione e l’odio che voi avete sparso e nutrito, con la morte e l’oppressione, in ogni dove e da molto tempo, direttamente, o tramite vostri alleati ‘tattici’ e ‘strategici’. Quei kamikaze sono un vostro prodotto, "cosa vostra". Voi, da decenni, praticate con disinvoltura e senza scrupolo il massacro fisico e civile, culturale e psichico, anche di intere popolazioni. Ora con clamore, ora discretamente. Le vostre "bombe intelligenti", i vostri "effetti collaterali" (scuole, ospedali, treni, abitazioni…) comunque giustificati per rovesciare il "cattivo" di turno (deciso esclusivamente da voi, governi –di destra e di sinistra– degli Stati Uniti) sono solo la parziale espressione del vostro dominio. A quei kamikaze, a quel vostro prodotto, un minimo di riconoscimento glielo dovete. Non hanno fatto saltare le vostre scuole, i vostri ospedali, i vostri treni, le vostre abitazioni, come fate voi in casa degli altri, non hanno reso radioattivo il vostro territorio, come fate voi in casa degli altri, ma si sono limitati a colpire le vostre istituzioni di oppressione imperialista, finanziarie e militari. Tutto questo è per noi orribile ed indigna le nostre coscienze. Non perché ci stiano a cuore quelle vostre istituzioni o perché noi si stimi coloro che ci lavorano, sulla cui "innocente" consapevolezza od inconsapevolezza di quel che fanno, a prescindere dalle bombe e quant’altro, bisognerebbe pur discutere. Inorridiamo del mondo che da tempo ci imponete, inorridiamo del fatto che degli uomini debbano uccidere sé ed altri per conquistarsi dignità e libertà effettive, inorridiamo perché (poco importa quanti) avete spinto dell’umanità di questo pianeta a gioire per le strade o nel segreto della propria coscienza, a sentirsi forse più vigliacca di quei kamikaze. Inorridiamo perché non ci stupiremmo di ritrovare qualche vostro apparato ‘riservato’ dietro queste stragi. Da qui nasce la nostra rabbia, la nostra indignazione, la nostra comprensione per chi soffre. Il nostro impegno, oggi come ieri, a contrastare la barbarie che da tempo state producendo. A tal fine, pacatamente, sinteticamente, parzialmente apriamo un ragionamento, rivolto principalmente al pluriverso di organismi ed individualità che si ritengono anti-sistemici (cioè anticapitalisti ed antimperialisti) o anche solo parzialmente critici, per attrezzarsi al meglio (innanzitutto culturalmente e teoricamente) nello scenario nazionale e mondiale che si preannunciano ancora più pesanti e soffocanti di quel che già sono.

Lungi quindi da espressioni roboanti che abbiamo sentito (tipo "niente sarà più come prima") importa fissare quelli che, secondo noi, sono dei punti fermi per orientarsi nella apparentemente confusa situazione attuale. Portiamo il nostro contributo filtrandolo attraverso l’analisi critica delle caratterizzazioni dominanti nel movimento antiglobalizzazione. Gli scenari di guerra e l’imperialismo USA sono ancora una volta, ed in modo ancor più evidente, un banco di prova formidabile (della serie: globalizzazione o imperialismo?). Dopo l’implosione dell’URSS, prima la guerra contro l’Irak, poi l’aggressione ad ondate nei Balcani e adesso la reazione che si preannuncia al "bombardamento" su New York e Pentagono stanno sancendo la supremazia indiscussa degli USA. Come non vederlo? Analisi teorica e (conseguente ed intelligente) intervento attivo ("teoria e prassi", direbbero gli ‘anziani’) non vanno disgiunti se si vuol dare una direzione di senso al proprio agire.

È importante capire che non si tratta di ozioso lavoro concettuale ed intellettuale, mentre adesso importerebbe discutere dello striscione di testa del corteo prossimo venturo. Il "come si opera" è frutto di orientamenti, di analisi politica (sommaria o approfondita che sia) cui, consapevolmente o inconsapevolmente, si aderisce.

Entriamo nel merito. Sono tre i filoni politico/culturali, sostanzialmente interagenti e comunicanti tra loro, che vanno per la maggiore nell'area anti-sistemica, con tesi che riteniamo basate su presupposti infondati e quindi fuorvianti. Primo filone. I fautori dell'"Impero senza Imperialismo", un "Impero" pullulante di "transnazionali" diffuse in ogni dove ed in conflitto tra loro, cui contrapporre un "soggetto" contestativo e disobbediente, globale e con/fuso. Antonio Negri detto Tony è il più noto teorizzatore di queste tesi cui si richiamano settori consistenti del movimento "no-global". Non esisterebbe più imperialismo, quello statunitense dominante in questa fase non si sa bene cosa sia, la NATO sarebbe il braccio armato delle transnazionali che vengono viste come il "vero nemico". Gli Stati, in via di irreversibile declino, non conterebbero più niente e starebbero per uscire dalla Storia lasciando spazio a quest’entità iperuranica e metagalattica dell’"Impero" senza uno Stato di riferimento. Secondo filone. I fautori del riformismo interno al capitalismo (da Rifondazione a Le Monde Diplomatique, passando per settori di movimentismo sociale e 'cattolico', ecc.): modello cosiddetto keynesiano con proiezioni sovra-statuali i cui punti ‘di forza’ sono la Tobin Tax, cioè la tassazione sulle transazioni del capitale "cattivo" (quello speculativo/finanziario), che per essere attuabile richiede un’autorità mondiale così legittimata, ed il governo mondiale dell’ONU, etereo e paradisiaco luogo dell’armonia e della fratellanza universali. Terzo filone. Terzomondismo elemosiniero verso i "poveri" dei Sud del pianeta (riduzione/annullamento del debito, scolarizzazione –capitalistica?- da Nord a Sud, lotta all’AIDS, ecc.). Questi tre filoni principali sono tra loro molto più simili e comunicanti, diremmo anche complementari, di quel che una lettura superficiale delle polemiche ‘interne’ su questo o quell’aspetto potrebbe far ritenere. Questi filoni o ignorano o non si pongono il nodo del modo della produzione della ricchezza, cioè a dire della struttura dei rapporti sociali che fondano il modo di produzione capitalistico. L’esito è duplice: o si rifluisce in un ribellismo movimentistico fine a se stesso, o si finisce con l’accodarsi (consapevolmente o inconsapevolmente) come satellitare truppa di complemento, anche rumorosa e violenta, di Rifondazione, che si inscrive a sua volta, con il suo neokeynesismo, nell’orbita gravitazionale del neoliberismo del centro-sinistra, che è, in ultima istanza, una frazione non omogenea di rappresentanza degli interessi strategici del blocco economico/finanziario dominante. Ciò che è fuori da questo quadro, è larghissima minoranza rispetto alla stessa minoranza gravitazionale. Quei tre filoni, ma anche parte della suddetta larghissima minoranza, piaccia o non piaccia, sono la cassa di risonanza di un pauroso vuoto di comprensione sulle effettive dinamiche di funzionamento del sistema, denotano l’assenza di ogni credibile prospettiva progettuale anche di fase, producono quel disorientamento e annaspare a lume di naso (evidente da Seattle ad oggi, al di là delle potenzialità e le positività di mobilitazione emerse) che si ripropongono anche adesso, in relazione agli attuali eventi negli Stati Uniti. Aggiungiamo che questo è in gran parte riflesso del mancato, a tutt’oggi, bilancio teorico sull’esito fallimentare del comunismo, più decisivo e significativo del suo pur importante bilancio storico (legittimo ed in grandissima parte –non totalmente– positivo: antifascismo, decolonizzazione, sostegno a movimenti di liberazione nazionale anche nei paesi a capitalismo avanzato, pressione sui paesi capitalisti a concedere misure cosiddette keynesiane da "stato sociale", ecc.). Bilancio per ora limitato al confronto di confraternite ed intellettualità, ignorate, oppure guardate con sospetto o con benevolenza, un po’ come si fa per le specie in via di estinzione. Eppure si tratta di questioni ineludibili perché trattasi (il "comunismo storico novecentesco") dell’unico serio tentativo (fallito e contraddittorio) di superamento del capitalismo. Nodi teorici, insomma, la cui elusione o evasione conferisce garanzia di lunga vita ai modi di produzione capitalistici, alle società che conforma, all’imperialismo che attualmente li sovrintende. Ragioni di spazio ci impongono solo una parziale messa a fuoco dei punti più essenziali e di superficie dei tre suddetti filoni, rinviando al tempo, alla pazienza e all’interesse di chi ci legge l’affrontare più ampiamente le questioni su indicate. Per gli impazienti, interessati ad agili e scorrevoli immersioni catacombali in una produzione letteraria già esistente, basta contattarci e daremo delle indicazioni.

Poniamo adesso (solo) 4 nodi, sui quali sarebbe importante che individualità e collettività, da sé e nel proprio circondario, attivassero una riflessione:

1) regna un equivoco di fondo nell’assunzione acritica del concetto ideologico/massmediatico di "globalizzazione", attivato non casualmente "dall’alto" perché più innocuo, evasivo ed etereo, dell’ancor attuale e più descrittivo concetto di "imperialismo". Concetto che va senz’altro rilanciato, riprendendo le cinque caratterizzazioni che ne dava Lenin e ridefinendole (come qualcuno ha già iniziato a fare) alla luce del (quasi) secolo che è passato dalla loro teorizzazione. Comunque la rimozione del concetto di "imperialismo", tendenzialmente generalizzata, per il più rassicurante e imperativo concetto (imperialistico) di globalizzazione determina tre conseguenze: a) nonostante l’uso del prefisso "anti", come dimostrabile in innumerevoli esempi ‘pratici’, è implicita l’accettazione del terreno culturale imposto dall’ideologia dominante la cui critica, infatti, verte pressochè esclusivamente sulla questione redistributiva delle ricchezze; b) smaterializzando l’imperialismo in globalizzazione si finisce con il prendere abbagli colossali sia sulla natura delle conflittualità nazionali e delle aggressioni imperialiste nello scenario internazionale, sia sull’alterità conflittuale dei diversi e plurali interessi di classe tra dominanti/dominati e intercorrenti al loro stesso interno; c) si ignorano o si misconoscono le pluralità e le valenze delle questioni nazionali nel loro effettivo radicalismo di liberazione, che sono la negazione di tutti gli imperialismi, di tutti i colonialismi, di tutti i razzismi. La questione dell’indipendenza nazionale, delle (inter-)indipendenze nazionali, è il terreno prioritario dell’accumulazione di forze ed intelligenze per una possibile e necessaria insorgenza e resistenza antimperialista. Questa terza conseguenza è la più importante e si porta appresso le altre due. Stato e nazione sono concetti "vivi" e diversi, e la strumentalizzazione imperialista di talune questioni nazionali, per il tramite di formazioni sedicenti di liberazione nazionale, deve essere denunciata e contrastata sullo stesso terreno nazionalitario e, quindi, antimperialistico. Senza indipendenza nazionale c’è la dipendenza coloniale o imperialistica, l’esatto contrario di ogni sana, auspicabile e libera inter-dipendenza tra pari. E perché un’indipendenza nazionale sia effettiva, la lotta di liberazione va condotta anche nella propria nazione, perché si materializzi un modello di società liberato per tutti e per ciascuno, per chi già risieda nella nazione e per chi, da qualunque parte del pianeta, decida di venirvi ad abitare. Nessuna concessione, quindi, a verniciature ‘nazionali’ per operazioni da potenza anche velleitaria di qualsivoglia Stato o di blocchi ‘geopolitici’ imperialistici comunque aggettivati.

2) L’idea, anch’essa attivata "dall’alto", dello svuotamento e fine delle funzioni essenziali degli Stati cosiddetti nazionali è frutto dell’idea di "globalizzazione" che è l’ideologia dominante dell’imperialismo statunitense. Tutti gli Stati meno uno (cioè gli USA) mantengono certe funzioni sul piano interno (al servizio delle proprie classi dirigenti politico/economiche poco competitive), mentre sono fortemente ridimensionati nello svolgere i loro ‘compiti’ sul piano esterno. Il che non è un fatto nuovo, ma specifico della fase liberistica del capitalismo (si ricordi la Gran Bretagna tra metà Ottocento e primi del Novecento). Il fatto che lo Stato USA sia l’unico ad agire da vero Stato in tutte le sue funzioni, lo si vede eccome –ad esempio– nell’autorità con cui dispone l’uso della NATO (cioè di forze militari anche non proprie) per le sue funzioni "esterne" di salvaguardia e affermazione dei propri interessi, in proiezione planetaria. Già solo questo dovrebbe far riflettere sul dominio incontrastato degli USA. I blocchi dominanti in tutti gli altri Stati non sono in grado, per lo meno attualmente, di contrapporsi a livello "globale" con gli Stati Uniti. Se quindi la loro egemonia è assicurata all’interno dall’intercambiabilità funzionale di forze politiche di destra e di sinistra, non a caso omogenee per politiche neoliberiste e filoamericane, la loro debolezza si esprime in modo palese per certe funzioni (particolarmente "esterne") e diventa manifesta allorché si arriva, in sede di contrattazione, a strappare il massimo possibile –cioè qualche benevolenza– al blocco economico-politico dominante USA.

3) Non è quindi fondata la tesi per cui le grandi imprese, dette multinazionali, non più controllabili, avrebbero preso il controllo della scena e surclassato le funzioni degli Stati. Ogni grande impresa continua ad avere nell’ambito politico-ideologico dello Stato dove è allocata la casa-madre o comunque il proprio "centro direzionale strategico", la sua referenza principale (e non solo per le lucrose commesse cosiddette pubbliche). Risente, quindi, nella sua proiezione esterna conflittuale inter-capitalistica, e non solo limitatamente agli investimenti produttivi, del posizionamento che il proprio Stato ha rispetto al cuore pulsante dell’imperialismo, cioè gli Stati Uniti. Ed è questo posizionamento che garantisce o consente quei margini di trattativa per contrattare ambiti ed aree di intervento che non confliggano o non siano in troppo grave frizione con gli interessi del blocco politico/economico dominante USA, assolutamente "centrale" nel sistema-mondo attuale.

4) Lo Stato, ogni Stato, poi, non è un blocco monolitico ma un insieme di apparati con diverse funzioni e al contempo un luogo conflittuale di frazioni di capitale che agiscono in intreccio con frazioni politiche di classe dominante. In questo luogo conflittuale, in questa sfera politica, non mancano anche rappresentanti ufficiali (di tipo pubblico) delle classi dominate (ad es. partiti, sindacati, gruppi di pressione, organismi politico-culturali, ecc.) che agiscono in conflittuale cooperazione con quelle dominanti. Per restare in Italia, anche forze che si dicono esterne o estranee alle due polarità di destra e di sinistra, quand’anche espressione di spezzoni di classe dominata (Rifondazione Comunista, sindacati, eccetera), avallano con le loro richieste (contrattate) e con il loro sostegno sul terreno economico-produttivo il riprodursi della struttura di rapporti capitalistici. Detto in estrema sintesi a fini esemplificativi, la contrapposizione tra le polarità di destra e di sinistra (non solo in Italia) sembra netta se percepita attraverso il filtro massmediatico della manipolazione dall’alto dello spazio politico che le vorrebbe portatrici di valori, di identità e di progettualità antitetiche, laddove l’alterità di interessi, che pure esiste, si esplica sempre e soltanto sul terreno della riproduzione del modo di produzione capitalistico, nei limiti e nelle compatibilità poste dalla dipendenza imperialistica verso gli USA.

Tutto questo dovrebbe aprire una riflessione approfondita sulle modalità di intervento sociale e politico di forze che si dicono anticapitaliste ed antimperialiste.

Nello scenario prossimo venturo, si profila solo un appesantimento delle dinamiche, delle modalità, del "clima" stesso del conflitto politico e sociale. L'imperialismo, la Nato, le imposizioni ancora più marcate che, in nome della lotta al "terrorismo globale", si innerveranno in tutti gli Stati subalterni al centro imperialista a seconda del grado di ricettività sinora acquisita rispetto agli USA, ci ricordano che i termini fondamentali del conflitto non si vanno per questo ad alterare. L'assenza di indipendenza nazionale anche nel nostro paese significa molto chiaramente che nessun possibile assetto libero per individui e collettività potrà mai venire se a decidere c'è un qualsiasi "padrone", e nella fattispecie il peggior padrone attualmente esistente, l'imperialismo USA. Significa anche che è per questo necessario spazzare via classi politiche (le "destre" e le "sinistre") espressioni dei blocchi sociali dominanti nei paesi capitalistici avanzati non centrali e sempre più servili verso i dominanti del paese centrale.                                                 Al di là stesso della guerra annunciata prossima ventura, che ne rappresenta solitamente solo la punta ‘alta’, il conflitto rimane attestato lungo il crinale imperialismo / indipendenze nazionali, a sussumere in sé contraddizioni come quella capitale / lavoro, industrialismo / ambiente, eccetera. Organizzare la resistenza attorno alla centralità di quella che è –e non da oggi– la contraddizione principale è lo snodo, che ancora una volta si pone sotto gli occhi di tutti, per costruire credibili presupposti di trasformazione radicale dell’esistente. Continuare ad eluderla ben difficilmente farà fare passi in avanti sulla strada della liberazione e dell’emancipazione sociale. Sarà solo, consapevole o meno che sia, una dichiarazione di resa ai "padroni della terra".