DA LA REPUBBLICA

Iraq, Giuliano Ferrara stizzito
abbandona la diretta tv
E dei pacifisti aveva detto: "Sono più di tre milioni
sono tanti quanti gli iraniani al ritorno di Komehini"

ROMA - "E' una bella manifestazione, pienamente legittima di cui non condivido la natura politica. Quindi, visto che la mia presenza è piuttosto ingombrante, lascio lo studio e torno a casa". Giuliano Ferrara abbandona la diretta televisiva del corteo della pace in onda su La7. Visibilmente stizzito, il giornalista, che dall'inizio della trasmissione aveva avuto scontri polemici con gli organizzatori dell'iniziativa, si è tolto il microfono, si è alzato e se ne è andato.

Prima Ferrara aveva avuto uno scambio di opinioni vivace con Sergio Cofferati, intervistato da La 7 durante la manifestazione contro la guerra, sul presidente della Repubblica Ciampi. "Oggi Ciampi ha scritto una lettera di plauso a Berlusconi - ha affermato Ferrara - ringraziandolo per aver fatto di tutto perché l'Italia si adoperasse per tenere la crisi dentro l'ambito delle Nazioni Unite. Ciampi è rimbecillito?". Questo, ha risposto Cofferati, "lo dice lei, lo dica al presidente della Repubblica. Posso avere tranquillamente una posizione diversa da quella del presidente - ha aggiunto - e prospetterò questa diversità senza l'ironia un po' corrosiva che lei utilizza di solito, e che può diventare sgradevole per il presidente stesso".

Stessa lite anche con il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. "Nel messaggio di Ciampi - ha detto Epifani - c'è anche un richiamo affinché l'azione del governo non si muova fuori dalle deliberazioni dell'Onu". "Forse vuol dire - ha replicato Ferrara - che Ciampi ha dato un plauso al governo per fargli invece cambiare linea?". "Lei è molto acuto e intelligente - ha risposto il leader della Cgil - dunque penso che capisca che cosa voglio dire". "Se continuate a essere faziosi come al solito - gli ha risposto Ferrara dallo studio - costringete anche me ad essere fazioso e a strumentalizzare le parole di Ciampi".

Il direttore del
Foglio aveva anche criticato gli organizzatori del corteo secondo i quali i partecipnati sarebbero tre milioni. "Solo tre milioni? - ha ironizzato Ferrara - Ma sono molti di più: almeno cinque-sei, come quando Kohmeini tornò in Iran...". Visibilmente nervoso, Ferrara si è divertito a punzacchiare un po' tutti. Rivolto ai pacifisti che ballavano, per esempio, ha detto: "Ma che si ballano? Che sono le prove per la discoteca del sabato sera?"

Così, intorno alle 16, dopo l'ennesimo collegamento con il corteo, Ferrara ha chiesto la parola e ha ribadito la sua linea: "Se l'11 settembre fosse avvenuto a Roma, Parigi o Berlino e se i kamikaze si facessero saltare in aria anziché sui bus di Tel Aviv in quelli italiani, questa manifestazione oggi non ci sarebbero". Quando Gad Lerner, anch'egli ospite della trasmissione, ha cercato di interromperlo per fargli notare che cortei pacifisti sono in corso anche in Israele, e gli ha chiesto: "Ti posso fare una domanda politica? ". "Falla a Massimo Teodori", gli ha risposto il direttore del Foglio, alzandosi e imboccando l'uscita. Poi Lerner è tornato sulla "diserzione" di Ferrara: "Ringrazio Gustavo Selva restato fino alla fine in studio a sostenere le ragioni della guerra a Saddam - ha detto - a differenza di Ferrara che invece 's'è dato'".

Più tardi il direttore del Foglio dirà: "Sono andato via sulla base di un ragionamento. Siccome arrivano sempre molte telefonate che dicono 'fateci vedere la manifestazione', ho detto che questo è come un reality show, come il Grande Fratello: vogliono vedere se stessi. E allora, siccome io sono grande, grosso, troppo ingombrante, mi sono tolto di mezzo...". Poi, più preciso, risponde all'accusa di Lerner: "Macchè diserzione: sono andato via perché non mi volevo sentire nelle condizioni del petulante che occupa troppo a lungo lo schermo". E ammette: "E' vero, ho fatto un pò lo spiritoso", scegliendo il ruolo del "controcanto ironico". Infine, liquidando quella sul Grande Fratello come una "battuta", conclude: "Sono favorevolissimo a iniziative di questo genere, ma mi piaceva che la trasmissione fosse un po' puntuta".

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Via ai cortei per la pace: il primo è a Melbourne

Manifestazioni anche a Wellington, in Nuova Zelanda: slogan contro la «guerra di Bush» anche in Giappone e Filippine

LONDRA - La prima imponente manifestazione di questa giornata mondiale contro la guerra, per via del fuso orario, si è svolta a Melbourne, nell'Australia meridionale, dove 150mila persone sono scese in strada: per gli organizzatori si è trattato della più grande dimostrazione che si sia svolta nel paese dai grandi raduni contro la guerra del Vietnam. Nelle stesso ore, anche in Nuova Zelanda migliaia di persone riempivano le strade di Wellington scandendo slogan contro il «conflitto di Bush» in Iraq. Stesse scene nelle strade delle maggiori città del Giappone e delle Filippine.

NEL MONDO - Saranno milioni e milioni le persone che oggi scenderanno in piazza, da una parte all'altra del pianeta per dire no alla guerra in Iraq e chiedere la pace. Manifestazioni, cortei, happening ed eventi sono previsti in almeno 603 città, dagli Usa all’Iraq. Le principali manifestazioni sono attese in alcune città importanti come Roma, Londra, Barcellona, Berlino, Parigi, Città del Capo ma anche a New York, dove lungo la quinta avenue e sino alla 49esima strada è attesa la più grande protesta politica degli ultimi anni. Per ragioni di fuso orario, hanno cominciato i pacifisti di Oceania e Asia a dar voce a quanti pensano che la crisi irachena debba essere risolta senza fare ricorso alle armi.

FINALE - In Nuova Zelanda si è approfittato dell’avvio della finale fra New Zealand e Alinghi per dare risonanza alla protesta. Un aereo con uno striscione con la scritta «No guerra, pace subito» ha sorvolato il campo di regata a Auckland prima della sfida fra le due imbarcazioni. Intanto, migliaia di manifestanti organizzavano marce e sit in in tutte le principali città del Paese. In Australia, 150mila persone si sono reversate nelle strade di Melbourne per condannare l’adesione del governo australiano alla spedizione militare. Migliaia di persone sono scese in piazza in diverse città asiatiche, da Tokyo in Giappone a Manila nelle Filippine, dove hanno marciato sull’ambasciata Usa.

IN ORIENTE - Manifestazioni anche a Seul la capitale della Corea del Sud e a Taiwan. Anche nello stato più recente del mondo, Timor Est, centinaia di pacifisti hanno marciato per le strade della capitale, Dili. In Europa, circa 500 manifestanti hanno già marciato ieri per le strade di Sarajevo in Bosnia, con cartelli e striscioni anti-Usa. Una manifestazione imponente è prevista a Londra, dove gli organizzatori contano di radunare una folla mai vista prima, cinquecentomila persone, superando l’affluenza della marcia pacifista dell’autunno scorso, che raccolse 400mila manifestanti.

IN FRANCIA - A Parigi, si prevede che almeno 25 mila pacifisti marceranno dalla piazza Denfert-Rochereau a quella della Bastiglia. Marce e sit-in anche a Berlino. Oltre un milione di persone, secondo le previsioni degli organizzatori, scenderà in piazza a Roma. Si prevede l’arrivo di 1300 bus e 26 treni speciali da tutt’Italia, secondo i dati della prefettura che fa una stima di «400-600 mila arrivi di manifestanti». Le manifestazioni poi si sposteranno in Canada e negli Stati Uniti.

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DA - LA STAMPA

In piazza a Roma TRE MILIONI per la pace

15 febbraio 2003



ROMA . Ci sono tutti i colori del mondo per le strade di Roma. Arrivano dai vicoli, colorano le piazze, si affacciano dai balconi e a volte osano colorare perfino le statue, il marmo, i monumenti della capitale. Sono le mille bandiere che oggi, nel giorno dell' arcobaleno e della pace, stanno sfilando nell' immenso, enorme corteo per dire no alla guerra, no al conflitto in Iraq. Ci sono le bandiere rosse della Cgil, dei Ds, di Rifondazione comunista.

Poi i tanti vessilli dei sindacati di base e dei Cobas. Indietro poche, ma assolutamente significative, le bandiere bianche di Emergency, le bandiere di Gino Strada, il medico che della sua vita ha fatto una testimonianza contro la guerra. E poi ci sono gli stendardi a lutto delle «Donne in nero», le donne di tutte le nazionalità che da sempre si battono contro la barbarie delle armi e della guerra. C' è anche la bandiera bellissima, raffinata, ricamata a mano con fili di seta del Tibet, che viene brandita da un gruppo di monaci, in ricordo dell' oppressione cinese, di un' altra guerra che ora vogliono ricordare con quei delicati colori. Poi vedi spuntare le bandiere di altri popoli che della guerra purtroppo ne hanno fatto vita quotidiana: i colori della Palestina, i colori dei curdi. Qualcuno si trascina dietro bandiere consunte buone per tutte le manifestazioni: quelle di Che Guevara.

C' è perfino chi osa una bandiera delle bandiere, un immenso vessillo fatto come un puzzle dai colori di altri stendardi. Poi ci sono le bandiere dei partiti, quelle gialle di Legambiente, ancora quelle gialle degli «Iracheni in Italia», l' immenso striscione rosa della «Casa internazionale delle donne» che dice «Noi osiamo la pace», la loro ultima provocazione femminista. Ma su tutte queste bandiere una oggi ha prevalso, e le ha unificate in tutti i suoi colori: lo stendardo della pace con i colori dell' arcobaleno, quei colori che i manifestanti hanno declinato in mille maniere.

Non solo sulle bandiere, ma anche sulle sciarpe, i cappelli, calze e guanti, in improbabili cappelli di gommapiuma ideati da un gruppo di volontari di Spino D' Adda (Cremona), in incredibili foulard rigorosamente «fatti in casa». Perchè oggi è questa la bandiera di tutte le bandiere, quella che va a ruba dei banchetti degli abusivi soddisfatti degli affari, quella che i manifestanti di ogni età, di ogni colore indossano a dimostrazione della loro volontà di pace.

«Oggi c' è il sole, ma credo che la luce più intensa venga da queste bandiere, dai volti di uomini, donne e ragazzi su cui si legge il desiderio della pace». La parlamentare Rosy Bindi (Margherita) commenta così, lungo il corteo al quale partecipa accanto alla deputata del Pdci Maura Cossutta, la manifestazione di oggi. «Questa - spiega - non è una manifestazione contro nessuno, se non contro il terrorismo e la guerra. È una manifestazione affinchè coloro che devono prendere decisioni sappiano interpretare il desiderio dei loro popoli». Ai cronisti che le chiedevano un commento sulla mancata diretta della Rai, Bindi ha risposto: «Si commenta da sola. Un servizio pubblico che non vuole far conoscere l' opinione di milioni di persone si commenta da sè ».

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DA - LA STAMPA

DALLA COLOMBA DI PICASSO ALLA BANDIERA ARCOBALENO

Pacifisti ieri e oggi Una lunga storia di simboli e idee di Filippo Ceccarelli ROMA. Come cambia tutto, e come tutto - nel turbine della storia - si disperde e si dimentica. Quanti, dei manifestanti pacifisti che sfileranno oggi per le vie di Roma, sanno ad esempio chi era Aldo Capitini? E quanti «Papa-boys» giunti nella capitale saprebbero dare un volto a Giorgio La Pira? Nel settembre scorso, sempre a Roma, chiudendo una manifestazione contro la guerra Fausto Bertinotti ha detto testualmente: «Vogliamo costruire un nuovo movimento di partigiani per la pace». E sebbene quel «nuovo» stesse lì a indicare, implicitamente, l’esistenza di un vecchio movimento, l’espressione bertinottiana è caduta lì come un generico proposito. La pace di quei primi Partigiani era una pace eminentemente sovietica. Quindi a suo modo imperiale e famigerata, ma anche anti-colonialista. Tante parole, tante immagini si sono dedicate in questi giorni alla bandiera arcobaleno. Ma nessuno, o pochissimi hanno ricordato la colomba di Picasso che Matisse ed Eluard proposero come simbolo, appunto, dei Partigiani della Pace. Movimento incoraggiato da Stalin negli Anni Cinquanta. Sfilava compatto contro la proliferazione nucleare. Classica cinghia di trasmissione, qui in Italia, tra il Pci e gli «indipendenti». Ma si sa: la storia è complicata, e ancora di più quella dell’idea pacifista e del popolo che l’ha seguita da un cinquantennio ormai a questa parte. Comunque Capitini era un bel personaggio. Umbro, simpatico, attivissimo e doverosamente strampalato. Uomo «di incurabile bontà» l’ha definito Guido Ceronetti, che gli fu amico, prima che flirtasse con il Pci. Ma Capitini, sulla pace, non è che stesse lì tanto a sottilizzare. Associava e si associava. Filosofo e professore universitario, negli Anni Trenta. Antifascista, ebbe diverse rogne dal regime. Fu lui a far conoscere in Italia il pensiero di Gandhi, che peraltro Mussolini sosteneva, sia pure in funzione antibritannica. Credeva nella persuasione, nel lavoro pedagogico, nell’animazione dal basso. Coltivava una specie di religione aperta. Fu anche uno dei primi vegetariani, per una scelta dietetica di vita. Teorico della nonviolenza, non fece la Resistenza. In compenso s’inventò la marcia per la pace. La prima, sembra, nel 1952: lui e qualche amico; in pratica, non se ne accorse nessuno. La prima «vera» marcia dieci anni dopo. Morì nel 1968, prima che il filone del pacifismo laico e radicaleggiante (si pensi al Pannella-Amleto in maglione nero e ciondolo «Make love, not war») si incrociasse con i beatnik e l’anti-autoritarismo degli Anni Settanta. Se oggi Roma è strapiena di pacifisti, lo si deve comunque anche ad Aldo Capitini. Anche La Pira, fra i «dimenticati», meriterebbe oggi una qualche attenzione, e non solo perché - sia detto con la massima simpatia - assomigliava un po’ a un personaggio dei cartoni animati, o a un videogame pacifista. Per Firenze, anche quando era sindaco, girava spesso con i sandali. La gente rideva, e lui con un sorriso da bambino: «In sandali, cari figlioli, si va in Paradiso». Siciliano di Pozzallo, deputato democristiano alla Costituente, professore di diritto romano, fu l’alfiere ispiratissimo della pace cattolica. Pregava, mediava, costruiva incessantemente ponti tra Est e Ovest, utilizzando ambasciatori e suore di clausura. Si agitava, organizzava convegni, scriveva in latino a Nixon e a Kruscev. Diceva: «Io qui a Firenze con una lettera e un francobollo faccio quello che a Roma neppure si sognano». Vero. Viaggiava pure. Ai tempi del Viet Nam si presentò da Ho Ci Min con un ritratto della Santissima Annunziata. Quello gli rispose: «E dove lo metto?». «Lo metta dove le pare - fu la risposta di La Pira - basta che se lo tenga». Un pazzo di Dio, un po’ confusionario, ma instancabile. I nemici dicevano che era un «comunistello da sacrestia». Si trova appuntato sul diario di Leo Longanesi: «Un dubbio atroce. E se La Pira fosse veramente santo?». E tuttavia l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) ha tutta l’aria di essere uno degli anelli di quella sua unica catena di luce e - per chi ci crede - di grazia. Oggi, per la pace, c’è Papa Wojtyla. E tuttavia i Gino Strada, gli Alex Zanotelli, i ragazzi della Rete Lilliput devono molto a La Pira e alle sue folgorazioni. Decolonizzazione, disarmo atomico, Viet Nam, obiezione di coscienza. Poi Medio Oriente, Comiso, il Golfo, i Balcani. Il pacifismo italiano ha davvero una storia ricca, ma se pensi al presente con la memoria del passato i fili non sai bene se si sono intrecciati, o impicciati, o interrotti. Danilo Dolci, ad esempio. Fu agitatore missionario, educatore di coscienze, utopista, poeta, sociologo, maestro di maieutica. Mise in pratica la nonviolenza nella Sicilia più violenta degli Anni Cinquanta. Fu il primo a sperimentare l’arma potentissima del digiuno. Triestino, aveva abbandonato una bella fidanzata, una famiglia borghese e la carriera da architetto per «buttarsi fra i poveri, vivere la loro vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio», riconoscere il volto di Dio nel viso sofferente degli ultimi. Era un pacifismo appassionato e fattivo, il suo. Premiato dai sovietici (Premio Lenin), certo, ma studiato anche dalle università scandinave e americane, accolto con entusiasmo dalla scuola di Francoforte, difeso da Bobbio, Carlo Levi, Salvemini, La Malfa, Nenni, Di Vittorio, Jemolo, Silone, Zevi. Un impegno in contatto con grandi nomi della cultura occidentale, da Fromm a Russell, a Sartre, Huxley, Piaget, Chomsky. Chissà se sarebbe in piazza, oggi, Danilo Dolci. E soprattutto: chissà come la vivrebbe, questa piazza pacifista di oggi. Ogni confronto - va da sé - è azzardato. Però alcune differenze sono abbaglianti. Un tempo i filoni erano più netti. Veri e propri steccati ideologici separavano le varie tradizioni. C’erano i cristiani (a loro volta divisi tra cattolici e protestanti), c’erano i comunisti (sovietici), c’erano i laici-gandhiani. C’era anche, a volte, un certo umanitarismo socialista, alla Pertini: «Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai». Non sempre le occasioni di impegno erano le stesse, non sempre si mescolavano le carte. Oggi, al contrario, i confini tra i vari pacifismi è come se fossero spariti; e il movimento sembra piuttosto un magma indistinto, pur nella sua variegata articolazione. Pragmatico quanto il precedente era utopistico. E di massa, quanto quello di un tempo era segnato dalla personalità dei suoi protagonisti, eretici, addirittura profeti. Un’altra grande differenza sta nelle forme, nello stile di lotta, nel contrasto tra l’antica sobrietà e le più vistose rappresentazioni che segnano l’attuale movimento. Non è solo questione di Jovanotti e di artisti impegnati. A consultare le utili schede dell’archivio visivo dell’Istituto Luce si resta colpiti dal fatto che quarant’anni fa i manifestanti non avevano alcuna voglia di farsi riprendere. C’è un presepio pacifista, ad esempio, allestito dai boy-scout nel 1966 a Perugia come se fosse stato il primo Natale dell’umanità dopo una paventata distruzione atomica. Ma il parroco Monsignor Tentori, si legge, «si copre il viso con il berretto per non farsi riprendere dalle cineprese». Ecco, ieri, a Campo de’ Fiori le Iene di Italia1, tra cui Enrico Lucci, il Trio Medusa e Andrea Pellizzari si sono messi a distribuire le bandiere arcobaleno ai residenti. Solo due persone hanno rifiutato il dono. «Speriamo che il tempo ci assista - ha detto Lucci - e che pioggia e vento non stacchino le bandiere». Ciò nonostante, Auschwitz e Hiroshima sono irrimediabilmente lontane. E allora forse la guerra, per combatterla, bisogna averla conosciuta, e sofferta. Al tempo degli antichi pacifisti, d’altra parte, non c’era la tv. E soffrire davanti al video è pur sempre soffrire, ma poi basta spegnere il video, e tutto si dimentica fin troppo facilmente

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DA - IL MANIFESTO

L'Austria dice no: «Da qui non passeranno»
VIENNA
Non importa se gli americani insistono, non importa se le truppe dirette alla guerra dovranno attraversare tre o quattro paesi per andare dalla Germania all'Italia aggirando l'Austria. Il governo di Vienna ha risposto per la seconda volta «no» alla richiesta di permettere il passaggio di uomini e mezzi militari sul suo territorio, spazio aereo compreso. L'ha ribadito ieri il ministro degli esteri Benita Ferrero-Waldner, confermando le dichiarazioni già rese dal titolare della difesa Herbert Schneider: «La netrualità che l'Austria ha inscritto nella sua Costituzione non permetterà sorvoli né movimento di truppe straniere se queste o il materiale che trasportano sono destinati all'Iraq e non sono stati autorizzati dalle Nazioni Unite. L'Austria - ha aggiunto Ferrero-Waldner - sostiene energicamente tutti gli sforzi volti al disarmo totale dell'Iraq come previsto dalla risoluzioni dell'Onu. Se sarà necessario assumere, come ultima risorsa, misure militari per conseguire questo obiettivo, occorre che questo si faccia nell'ambito dell'Onu e nel rispetto del diritto internazionale. Questa è la linea che l'Austria difende anche in sede di Unione europea». Ciò che vale per la Kfor che opera in Kosovo e la Sfor impegnata in Bosnia, o per l'operazione «Enduring Freedom» in Afghanistan, non c'entra nulla con una guerra decisa unilateralmente senza l'imprimatur dell'Onu. A nulla sono valse, dunque, le pressioni del segretario alla difesa Usa. Donald Rumsfeld, ieri l'altro, aveva lamentato la difficoltà di ridislocare i 100mila soldati in Europa, di cui 70mila in Germania, in previsione di un conflitto. I problemi posti dall'Austria - secondo Washington - obbligheranno gli Usa a far partire i soldati da Rotterdam, in Olanda, o a farli arrivare attraversando 3-4 Stati anziché con la strada più diretta.

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DA - IL MANIFESTO

Turchia, il Kurdistan contro la guerra
Appello della società civile: no all'attacco all'Iraq. Pietro Ingrao: «Ocalan in pericolo»
O. C.
Sono 215 i firmatari della «dichiarazione di pace» che ieri ha varcato i confini del Kurdistan turco per approdare a Roma alla conferenza stampa convocata dall'ufficio in Italia del Kurdistan per dichiarare il no dei kurdi alla guerra contro l'Iraq. Nella dichiarazione gli esponenti della società civile di venti province kurde di Turchia (sindacalisti, artisti, intellettuali, insegnanti) si sottolinea come aggredire l'Iraq sia «ingiustificata, antigiuridica e illegittima e deve essere considerata in realtà un'avventura motivata da ragioni di mero interesse economico. A questa guerra - proseguono - che porterà solo lutti e distruzione per i popoli mediorientali la Turchia non deve partecipare nè garantire sostegno logistico. Al contrario dovrebbe contrapporle una esplicita scelta di pace. Le autorità turche - si legge ancora - non faranno nulla di più che il loro dovere se ascolteranno le voci di pace e sapranno rispettare pienamente le rivendicazioni di pace che si levano dalla società civile». Sottolineando la necessità di avviare al più presto un dialogo in Turchia che porti attorno al tavolo dei negoziati kurdi e turchi, nel rispetto reciproco e con il fine di portare finalmente la pace nel paese. Alla conferenza stampa romana di ieri ha partecipato anche Pietro Ingrao che si è soffermato soprattutto sulla mancanza di notizie sullo stato del leader del Pkk (oggi Kadek) Abdullah Ocalan, rinchiuso nel carcere di Imrali e di cui non si hanno notizie ormai da undici settimane. «Il dossier Ocalan - ha detto Ingrao - va riaperto. La prigione in genere mi procura orrore e angoscia, ma quattro anni di isolamento in pochi metri quadrati hanno solo un nome: tortura. E l'Italia - ha proseguito Ingrao - non può dimenticare chi venne qui a battersi per la libertà del suo popolo». Come la vicenda di Ocalan e per estensione dei kurdi e la guerra in Iraq siano intrinsecamente legate tra loro è reso ancor più drammaticamente evidente dalla dichiarazione del Kadek che ha annunciato che da oggi ricomincerà la
sherildan, intifada, in tutte le città kurde e turche. Sarà un'intifada contro la guerra e per la liberazione di Ocalan e di tutti i prigionieri politici. I kurdi sono ben consapevoli del fatto che una guerra in Iraq con il sostegno della Turchia significherà per Ankara cercare di «finire il lavoro» di annientamento della resistenza kurda. Oggi dal palco di San Giovanni - oggi per la manifestazione, la Comunità kurda si concentra alle 13,00 all'Ufficio postale di Via Ostiense - tra gli interventi a conclusione della manifestazione contro la guerra è previsto anche quello di una esule kurda: sarà un messaggio di pace. Perché come scrivono i 215 esponenti della società civile kurda, non riaprire una prospettiva di dialogo in Turchia può significare una nuova esplosione di tensione che «potrebbe portare ad un nuovo conflitto». Anche perché «è grande il rischio che la guerra contro l'Iraq venga utilizzata per risolvere la questione kurda manu militari al di qua e al di là del confine turco irakeno».

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