Avvisiamo la gentile clientela

(cronaca di una cassa integrazione, narrata da un commesso di supermercato)

Enrico Mattioli

Premio

Atheste 2001

per la satira

 

 

" Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti, rubando? ".

F. De Gregori.

 

Appunti dell’autore

 

 

I nomi sono soltanto lettere unite a caso, figli di un’identità trasfigurata.

La nostra vita è un supermercato. Sorretti dalla frenesia, governati da orari e appuntamenti, pasti veloci e surgelati, ci perdiamo in scaffalature impolverate.

Alla ricerca perenne della roba, questo essere storpio vagabonda senza meta e punta obiettivi deformi, sposa ideali travisati.

Un soprannome, giungerà a restituirgli spiccioli della sua vera natura, evocando un fatto ad essa legata.

 

 

Avevo ventitré anni quando accadde. Ero in sala prove: Zucca, il bassista, arrivò con un telegramma.

" Preghiamola presentarsi lunedì in Via A.P. n.50, per urgenti comunicazioni che la riguardano …"

Un identico telegramma raggiunse anche me: che cosa avevamo fatto di male questa volta?

 

Ognuno nella vita ebbe il suo Vietnam.

 

Formavamo i Fanculo, lo scalcinato gruppo punk del quartiere. Il rock era ciò che volevo, i sogni e l’amplificatore Elpico.

Avevo problemi economici in famiglia, perché mio padre era in pensione da poco. Campavo a scrocco e quelle cose lì.

Trasgressione, solo per trasgredire le nostre leggi, che entrambi - Zucca ed io - spedimmo domande di lavoro.

Sono il chitarrista di un gruppo punk, faccio richiesta d’assunzione presso il vostro fottuto punto vendita …

Questo, il contenuto delle mie domande. Era solo un gioco, insomma, giusto per gettare fumo agli occhi di mio padre.

Era un danno essere giovani?

Suonando, io mi sentivo fuori della mischia, e avevo bisogno di spazio. La mia stanza era stretta come tutta la casa. Non sopportavo i miei genitori, i vicini, come non avrei sopportato una moglie e dei figli. Avevo bisogno di troppo spazio.

Nessuno capiva, soprattutto la gente che vegetava nel lavoro ed invadeva lo spazio di cui io necessitavo. Tutti dicevano trovati un’occupazione, metti la testa a posto.

Ci stavano rubando l’anima e la verità. La gente era frustrata, insoddisfatta. Il lavoro ti mangiava le cellule, le membrane, ma nessuno se n'accorgeva. Rompeva le scatole, la gente.

Con la chitarra a tracolla, sparavo il mio rancore contro una società benpensante e ipocrita, che traeva i suoi fondamenti nei luoghi comuni, nelle griffe e nelle tendenze. Sparavo alla noia con la quale la gente conduceva la propria esistenza cancerizzandosi la mente.

- … ma forse col tempo ci si abitua - contraddicevo me stesso mentre leggevo il telegramma. Zucca aveva già accettato.

Ah! La gente …

 

 

Spesso mi nascondo ed osservo i clienti. Passano veloci per un acquisto e diffidano di me. Noi del settore generiamo un incantesimo sulla natura umana. Le aziende studiano il bisogno di possesso: piazzare un articolo futile e appariscente all’entrata, fa scattare nell’individuo la febbre dell’avere, ma anche lo stipendio di un dipendente finisce nelle casse dell’azienda per la quale lavora.

Nel freddo meccanismo del business, è difficile intrecciare un rapporto profondo. Ricordo che appena assunto, incontrai una ragazza. Era sabato mattina e venne con la madre.

Sorrise nel salutarmi, e io notai le sue fossette sulle guance. Era bella, con i capelli lunghi e mossi, di colore castano che sfumava sul biondo. Aveva gli occhi neri e vispi e vivi …la pelle chiara. Il suo sguardo mi rapiva. Longilinea nel fisico asciutto e ben definito. Era distinta, e non aveva l’aria di una che ascoltava rock, ma faceva lo stesso. L’età era intorno ai vent’anni. Non la vidi per settimane, ma mi rimase in mente.

 

Nel periodo in cui suonavo insieme ai Fanculo, imparai a comprendere me stesso. Ora che sono rispettabile, devo imparare a comprendere gli altri. La nostra, è una società che ti consuma dentro.

Scrissi un brano senza titolo, sono vite un po’ anonime, sono tutte un po’ analoghe ...

I Fanculo erano un sogno, forse, ma un sogno vero.

Il contatto con il pubblico è intrigante e perverso. C’è una donna giovane, sposata ed ha due figli. Fa la spesa di prima mattina. Entra e saluta tutti. Si ferma davanti la specchiera del reparto intimo donna, e si guarda, si sistema, si slaccia il quarto bottone della camicetta per mostrare le tette. Si scoccia però, se la saluti quando viene con il marito.

Sono anni che gli vanno dietro. Dal Canto se la vuol trombare perché il marito gli sta antipatico, mentre il direttore è convinto la giovane rubi trucchi e profumi. Lei fa l’amore con il marito - credo - e pesa la carne già prezzata, alle bilance dell’orto frutta sotto la voce scarola. Io l’ho vista e mi faccio gli affari miei. La chiamo signora scarola. Lei ha capito che mai la tradirò, e mi sorride maliziosa mostrandomi qualche centimetro in più delle sue tette. Un giorno forse la tromberò al posto di Dal Canto.

 

 

Accompagno con lo sguardo i clienti alla scala mobile. Dalla vetrina, vedo un tizio passeggiare con il cane, il dott. Scarola - dentista e marito della signora Scarola - rientrare in studio, le segretarie dell’ufficio assicurazioni uscire dal bar gesticolando divertite. Gli affari vanno a gonfie vele per l’azienda trasporti del Comune, perché i mezzi pubblici sono pieni. Tutto trascorre regolare, fuori.

E’ ora di pausa e vagabondo per strada. I colleghi tornano a casa per il pranzo, mentre io entro al bar e fisso i calendari della Pirelli, costatando che un anno è veramente composto di dodici mesi. Donna Boccione, la nostra cliente più odiosa, si lamenta col barista perché l’espresso che le ha servito è bollente. Solidarizzo col pover’uomo, conoscendo la Boccione.

Le parole sono inutili come le mie azioni, ho l’impressione di far trascorrere il tempo. Chi sostiene che un dipendente di supermarket sia popolare nella zona in cui opera?

Nessuno mi riconosce. Tutti vanno di corsa …

 

All’improvviso, qualcosa mi rapisce. E’ talmente veloce che non riesco a far mente locale … ma sì, è lei, proprio lei: la ragazza con le fossette sulle guance!

Sono le tre e si dirige con passo veloce alla fermata dell’autobus. Non riesco a seguire il suo zigzagare tra le auto ferme al semaforo, e quando decido di pedinarla, scatta il verde. Potrei considerarlo un segno del destino, ma decido di non abusarne perché se la ragazza sta andando al lavoro, quello sarà il suo tragitto abituale tutti i giorni.

Mi allontano e penso a lei. Belinda, assomiglia a Belinda Carlisle, la cantante californiana. Belinda dunque, l’aspetterò domani.

Io la musica della Carlisle non la seguivo, sia chiaro. Io seguo la Carlisle che è in lei, in Belinda. Insomma, cosa posso dire?

 

Torno a lavorare. Entra la Gatta, anziché Belinda. La compagna deve essere tornata dal centro estetico, perché mi saluta senza muovere le labbra, infatti, pronuncia solo C-I-O, anziché un solare e aperto ciao. Conoscendola, se sapesse che la chiamo compagna, mi farebbe gambizzare dal suo ragazzo, il camerata Zanna. La Gatta ripete sempre che non si sente collega di un minorato come me. Lei è iscritta al Fronte ed il suo cameratismo è al di sopra d’ogni sospetto: per coerenza politica, sostiene di non aver mai fumato uno spinello, a suo dire residuato della sinistra.

- Residuato è lo spinello o la sinistra?

Al mio interrogativo un giorno, mi si avventò contro insieme con il Barone, sindacalista UIL, che urlava:

- Noi siamo sempre quelli di Allora …

Io credevo che Allora fosse un paese in provincia di Avellino, il Barone è originario della zona. E’ da anni che il collega ogni mattina festeggia il decreto sulle trentacinque ore settimanali, rinfacciando agli iscritti le vecchie, le nuove, le future e le eventuali vittorie, pretendendo i complimenti di ognuno.

 

 

Io, invece, bloccato in cassa, festeggio il ritardo del cambio per il turno di pausa. La pausa è l’unica cosa buona di questo lavoro.

Ho problemi alla vista perché la luce al neon ha fuso la mia retina come una sottiletta. Uno come me, inoltre, deve subire la misera selezione musicale della filodiffusione. Ho tentato una lotta sindacale per causa di questa problematica, con scarsi risultati.

La Gatta è ancora al trucco. Esasperato, urlo al microfono: - Una persona in cassa!

Il direttore mi rimprovera. - Si dice cassiera per la cassa, segretaria per l’ufficio e così via. Devo insegnarle tutto? - Scuote la testa. - C’è sempre uno che non vuole crescere. Coccia, cerchi di essere più positivo …

Un cliente urta una bottiglia d’olio. La sostanza si spande sul pavimento. Facendo tesoro dell’insegnamento del mio superiore, riformulo l’annuncio: - Un segaiolo con la segatura al reparto olio!

Il direttore, dall’ufficio, mi mostra il pollice. - Ora va bene, bravo. Positivo …

 

 

La giornata termina. Vado al bar con Pomodoro. Lui è rapito da un romanzo che sta leggendo. - Il bar - esclama - come i letterati dell’ottocento che s’incontravano al Café Chantant o al Moulin Rouge…

Pomodoro immerso nelle nebbie del locale, sorseggia con dubbio gusto un campari soda. Io mi volto e scorgo il direttore che legge il Lord Tribune. Alza lo sguardo e mi saluta. Rimango interdetto, ma poi accetto la concussione. S’avvicina. - Coccia, lei malgrado abbia superato trent’anni, rimane agli estremi del nostro ambiente. Perché?

- Sono estremo io - replico - o una società che vuole l’abrogazione della legge trecento per i diritti dei lavoratori e …

Lui m’interrompe. - Lei Coccia, sempre lei!

Pomodoro mi trascina fuori. La temperatura è rigida. Sciarpe e cappotti tirano dritti verso le rispettive destinazioni. Pomodoro spensierato, parla ad alta voce. - Odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso …

Urrrrr! Dopo un rutto di commento, mi pone davanti alla mia mediocrità: - E’ lo Jacopo Ortis. Conosci?

Arriviamo alle automobili e ci salutiamo. Ci guardiamo seriosi dai nostri rispettivi abitacoli e partiamo sgommando, come se questo conferisse maggior credenziale.

 

 

 

Credenziali? Soddisfazioni? L’unica soddisfazione è scrivere nel bagno del personale ogni nefandezza possibile. Io e Pomodoro demmo il via ad una gara di epiteti ed insulti senza firma. All’entrata si rimane colpiti da una mostra di schizzi e messaggi obliqui che ognuno invia all’altro. In alto, al centro, con pennello rosso, l’omaggio al direttore: Benvenuti a Cutazzopoli (all’anagrafe Giovanni Cutazza).

GERENTE FAI DA TE?

NO, CUTAZZA.

AHI, AHI, AHI …

GERENTE SEGRETO CON LICENZA D’USCIRE! ( ma per uscire deve prima entrare).

Sul coperchio del water un adesivo con la scritta ENTRATA, supporta un analogo segnale collocato all’interno, con la scritta USCITA.

Tutto il personale ci ha seguito, a dimostrazione del livello di frustrazione raggiunto da ognuno.

Terapia, attraverso un annuncio ebbe una relazione con un camionista bergamasco. Il direttore capì dove andare quando ci rompeva le palle. La collega Saltalafune scoprì il perché dagli anni settanta nessuno le scriveva più messaggi osé. Terremoto si rese conto che dopo aver usato il bagno era necessario tirare la catena, mentre Dal Canto, seguendo le frecce imparò a pisciare dentro la tazza.

 

 

 

Questo nostro libidinoso gioco, ha avuto il suo fine stamattina. Il capo del personale, infatti, ha dato mandato di togliere la porta e non sostituirla. Pomodoro l’ultima volta, ha esagerato.

 

DIRETTORE TORMENTATO.

ME SA QUASI CHE T’HA FUSO,

QUELLA SEDIA CHE C’HAI SOTTO AR DERETANO, TANTO Più CHE ER TEMPO PASSA,

E Più TE CREDI IMPAREGGIABILE SOVRANO.

SULLA PORTA, AR VESPASIANO, M’ALLIETAVO COR PENNELLO E CREAVO IMMAGINI DE SORTA,

FINCHé ‘N GIORNO, CASUARMENTE, HO DIPINTO ‘N SOMARELLO.

ORA IO ME SONO CHIESTO, PERCHé MAI S’è RISENTITO QUER GRAND’OMO DER GERENTE?

S’ARICCONTA CHE DA SEMPRE, PE N’ATTORE O ‘N GRAN SIGNORE, RIMANERE IMMORTALATO è COMUNQUE UN BELL’ONORE: VUOLE DIRE PUR CHE UN SEGNO L’HA LASCIATO.

QUESTO TU NUN L’HAI CAPITO, DIRETTORE TORMENTATO. cosicché, PURE SE NUN SE DIREBBE, è DA TEMPO CHE CE PROVO INUTIRMENTE:

SU DE TE, NUN ME Viè Più DA SCRIVE ‘GNENTE!

Osservo gli operai che caricano la porta sul furgone e mi rode. Il capo del personale non ha il senso dell’umorismo. La nostra è una società che non sa più ridere. Sono richiamato in cassa.

 

 

Ho davanti l’opulenta società dei consumi. E' complicato schierarmi dalla parte dei clienti, che odio, o dalla parte dell’azienda, che non amo.

Il supermercato è pieno, le file interminabili. I carrelli sono occupati. Cedo la mia sedia ad un anziano signore, il quale mi offre la propria solidarietà.

- Sono stanco di stare in coda. Se le file sono lunghe, la colpa è vostra: quando lavoravo io …

- Non c’è la cassa veloce - mi chiede una signora.

Il vecchio gli risponde. - Signora mia, i cassieri veloci ci vorrebbero …

- Avete solo ‘sta maionese? - Lamenta donna Boccione. - Guardi - faccio io - c’è anche l’altra in basso.

- Ma questa è light … vuole insinuare che sono grassa?

- Vada dal direttore, signora, si faccia rispettare - conclude il vecchio accanto a me.

Un altro, al momento di pagare mi porge la carta d’identità. - Oggi è il mio compleanno!

- Auguri - dico io.

- Non faccia lo spiritoso. Oggi è il mio compleanno ed ho diritto allo sconto!

- Che cosa?

- Guardi che lo ha detto la televisione. Lo chieda al suo direttore. Si informi.

Il vecchio seduto, ridacchia. - La verità, è che non capite più in cazzo!

 

 

 

Arriva il turno della signora Scarola. - Osservi il mio carrello - dice mentre si scopre le tette. - E’ così pieno! Ero venuta solo per prendere lo sfilatino. Secondo me è la pubblicità che ci frega. Oppure siete voi che piazzate la merce in quel certo modo. E’ incedibile: non dovevo prendere niente ... ma non potevo rinunciare al Mastrovaldo per piatti alla banana, o alla patata surgelata col prezzemolo. Mio marito quando ha visto la pubblicità, gli è venuta l’acquolina. E per il mio piccino? Non potevo lasciare lo yogurt tedesco con la novità della vaschetta di mousse! Ma dov’è lo sfilatino? Vuoi vedere che ho dimenticato proprio quello di cui avevo bisogno? - Mi fissa negli occhi con voce sensuale. - Non è per caso, che lei, gentilmente, mi porterebbe lo sfilatino mentre io dispongo la merce sulla cassa?

Rimango a guardarle le tette. Balbetto, e poi corro al banco del pane.

 

 

 

La verità è che ormai io sono integrato nel sistema che mi divertivo a dileggiare.

Sono nato in un centro commerciale, con la convinzione che Babbo Natale abitasse un supermercato!

Piani rialzati e scale mobili, sotterranei e parcheggi, annunci pubblicitari e una voce sensuale.

Avvisiamo la gentile clientela che quest’esercizio rimarrà aperto anche la domenica con orario non stop. Tornate a visitarci.

Canzoni di facile ascolto conciliano con gli acquisti. Al piano terra un uomo indossa una tunica rossa e regala buoni sconto. Da una fontana di polistirolo zampillano fiocchi di zucchero filato, e subito dopo si trova un camino finto, acceso per davvero.

Dietro i saluti spacciati per educazione, i cenni di benvenuto, i cartelli di Buon Natale e Santa Pasqua, c’è uno studio e una scienza, una scuola accademica e una compagnia teatrale: niente è lasciato al caso. La sensazione che sia vera festa, è impacchettata con i fiocchi fosforescenti e la carta da regalo.

Dietro i sorrisi ed i gesti gentili, per me, per quelli come me, è solo il sollievo per il posto occupato.

 

 

 

I ragazzi allineano le proprie pose a quelle dei modelli sui manifesti e lasciano epitaffi ovunque, quasi a rivendicare un’esistenza anonima.

Chicco ama Lella.

Lella & Chicco.

Chicco è presente.

Chicco regna.

Chicco è passato di qua.

Donna Boccione, madre di Chicco, parcheggiato il carrello sedici valvole, intrattiene un’amica; sembra irritata dai clochard.

- La miseria rappresenta una stonatura alla civiltà industrializzata, e va combattuta alla radice. Bisogna cacciarli via! E poi, credono forse di farmi sentire in colpa con le loro facce da morti di fame?

- Hai ragione Maria - fa l’altra. - E il personale? E’ troppo lento, troppo maleducato. Io non dovrei fare neanche la fila, con tutti i soldi che spendo. Non è che ci sia poi, tutta questa convenienza, ma dopotutto, potrei fare a meno degli sconti, perché se l’importo è eccessivo sta ad indicare un discreto tenore di vita. O no?

 

 

 

 

Rimango imbottigliato nell’ennesima discussione sugli extracomunitari. Abdullà spende ventiquattromilasettecento venti lire. Paga in moneta spiccia. Devo contare e la fila si blocca. Donna Boccione inizia il suo soliloquio.

- Ecco. Lo sapevo io. Ci si mette anche lei, adesso? A noi italiani voi cassieri le monete non le contate mai. -Quindi si volta verso gli altri clienti a cercare conforto. - Io pago con carta di credito e il bancomat qui è sempre guasto. Ce l’avete con me che vi porto un sacco di soldi? Invece di ringraziarci, che noi gli facciamo fare la vita da signori a questi … quei razzisti della lega nord, li avrebbero già cacciati a pedate!

- Ma signora, io …

- Stia zitto! Come si permette di offendermi? Ce ne sta tanta di gente che ha bisogno di lavorare, mentre voi che lavorate fate solo gli scioperi. Io vi caccerei via tutti! Acc … se c’era mio marito! Lui sì che si fa un culo così dalla mattina alla sera …

Riprende fiato. - E lei gli conta pure le monete a questi? Ma lo sa, caro lei, che la figlia di un’amica mia, a furia di frequentare questi tipi strani, è diventata pure vegetale?

- Vegetale?

- Vegetale. Insomma … non mangia più la carne.

 

 

Alle casse i nostri contegni sono vuoti, uguali a quelli dei clienti. Distinguere un viso è impossibile. I clienti sembrano persone - sandwich, firmate da cima a piedi. Le griffe ne penetrano l’immaginario fino a strozzarli. Pensandoci bene, anche io suonavo una chitarra firmata: e allora? Boh?! Era così per dire …

Ogni giorno mille signore Boccione entrano e ti assaltano: una davanti, l’altra alle spalle, altre due ancora ai lati. Tutto questo mentre stai dando il resto al quinto cliente. S’arrabbiano se non gli dedichi attenzione, e chiedono perché non siamo come indicano gli opuscoli spediti loro dall’azienda: operativi, solleciti e scattanti. Perché rispondiamo quando ci criticano e perché non replichiamo quando c’insultano. Forse li sottovalutiamo?

Alcune persone non sanno cosa comprare, altre sono indecise. Dagli altoparlanti lo spot della Gandolfi sulle alici marinate: ora so cosa comprare - dice una voce persuasiva, ma se il prodotto è terminato, c’è chi chiede il numero verde dell’azienda e mentre gli indichi il cartello, ti rispondono che deve leggermelo lei. E’ pagato anche per questo. Il cliente ha sempre ragione.

Minacciano che faranno il tuo nome al direttore se continuerai a guardarli storto, ma la direzione non è tenuta ad indicare la nostra identità alla clientela. Noi non abbiamo più un’identità, questo è l’unico vantaggio.

 

 

A tale proposito io sarei Coccia Leopoldo, anni trentatré, numero di cartellino trentatré, meglio conosciuto dai colleghi come Zabaione.

L’autore di questo vezzeggiativo è il collega Puzzone, avvilito e complessato dal proprio nomignolo coniato per lui dal sottoscritto. Inutile specificare le ragioni che mi spinsero a battezzarlo in quel modo. Puzzone è un tipo che crede d’essere divertente, non conoscendo qual è il confine tra simpatia e invadenza.

Anni prima, finito il turno, mi recavo a casa. Puzzone percorreva il medesimo tragitto e facevamo il viaggio insieme. Salii sul bus ed incontrai Samanta, una vecchia compagna di scuola. Samanta s’era sposata. Parlavamo delle rispettive situazioni, quando lei mi chiese di Arianna.

- … e dimmi, com’è andata con Arianna?

- Male. Ci vedevamo di rado, non si vive di solo pane.

- Come ti capisco. Non lo dire a me …

 

 

Samanta sarebbe scesa alla fermata successiva, ma il suo eloquio era straripante, come se alzare la voce gli conferisse brillantezza.

- Quando ero fidanzata, mio marito era molto più appassionato. Adesso, invece …

L’autobus si fermò. Samanta sulla porta, urlò a squarciagola verso di me. - Ti pare giusto che io a venticinque anni, devo scopare solo una volta la settimana? Ciao, io scendo qua.

Lei scese. Io rimasi. Puzzone era poco distante, e con suo disappunto non riusciva ad ascoltare la conversazione, ma come tutti i passeggeri aveva udito bene l’ultima battuta. La gente mi fissava sghignazzando. Uno aveva le lacrime agli occhi. Scesi alla fermata successiva per la vergogna, con Puzzone che mi urlava soddisfatto falla felice la tua ragazza. Lo vuoi uno zabaione?

L’indomani, i colleghi rimasero impalati davanti a me e comunicarono che da oggi in poi, sarai Zabaione.

Era la gogna. Puzzone ebbe finalmente la sua vendetta.

 

 

I miei colleghi sembrano andare d’amore e d’accordo, fin quando un soffio di vento li scaglierà l’uno contro l’altro.

L’ambiente ricorda un presepio. Le viuzze sono animate da artigiani che perfezionano i lavori, in un risuonare d’incudini e martelli. Venditori di nulla adescano il cliente mostrando stoffe pregiate e signorotti rispettabili simulano deferenza al gerente, a dimostrazione dell’operosità dell’esercizio da lui magistralmente diretto.

Il mito della roba in questo presepe pagano, trova la sua massima espressione. Noi stessi siamo roba, merce, articoli, numeri.

E’ una visione occulta, quella aziendale, basata sulla competizione tra reparti, tra il personale, come le corse dei cani e dei cavalli. Di là dei manifesti appesi sull’armonia tra il personale e la direzione, è fondamentale domare le bestie. I cavalli selvaggi corrono in piccole riserve e non sono abbattuti: servono da esempio da mostrare, affinché il resto del personale non li imiti. Il direttore, quando apre la loro stalla, fa annusarne solo le puzze.

Un cavallo selvaggio, invece, corre orgoglioso, senza sella, e non si lascia domare: preferisce morire lontano.

 

 

Vacca preferisce morire in sala pausa, piuttosto che lontano, e non intende rinunciare alla riduzione d’orario sbandierata dal Barone. I suoi dubbi appaiono lontani dall’essere fugati, anche dopo mezz’ora di confronto con Terapia ed il Barone appunto, i delegati CGIL e UIL.

- … io ancora non ho capito bene - chiede Vacca - ma trentacinque ore, al mese?

Terapia ripercorre tutta l’analisi marxiana della società capitalista. - I rapporti tra le persone sono mediati attraverso le merci, quindi, non autentici …

Il Barone gli fa eco. - Sì. Sì. E’ così Vacca. Capisci?

Vacca è perplesso e ricomincia. - Insomma, allora vorresti farmi credere che questo Carlo Marx si occupava anche di politica? Io lo preferivo pasticcere, perché quella cioccolata con lo strato di caramella al mou mi faceva impazzire!

Silenzio imbarazzante. Il Barone riprende. - OK Vacca, come vuoi tu. Però, te la fai la tessera sì o no?

- No. Così non vale - s’intromette Terapia - Il tuo è un gioco sporco, Barone. Per tesserare c’ero prima io.

 

 

 

Cominciano a litigare tra loro mentre Vacca se ne esce. Un dubbio: Vacca ci fa o ci è?

Il direttore mi sorprende mentre rifletto sulla questione. - Zabaione, lei sta sempre senza fare niente. Cerchi di essere positivo …

Colto in fragrante, faccio la vittima. - Come si permette di chiamarmi Zabaione? Non sono mica suo fratello?

- Appunto. Vogliamo andare a lavorare sì o no?

- No.

- Ed io le faccio una contestazione.

- Allora sì.

- Bene Coccia. Vada.

 

 

Sto andando in cassa e vedo Gigliola, il vigilante, che acciuffa Nico il tossico, fuggito dal reparto libreria. Nico ha le saccocce piene di libri, tra cui una biografia del maresciallo Badoglio.

- Sai leggere? - Gli fa sarcastico la guardia.

- Io non ho fatto niente - risponde Nico. - Sul cartello c’era scritto tascabili …

Nella confusione, approfitto per un giretto. Al reparto intimo donna una signora è ferma con la figlia davanti allo specchio. La ragazza si guarda, si gira su se stessa alla maniera delle modelle. La madre la sta a guardare con aria soddisfatta.

Rimango a vederle, non sono niente male. Il direttore, mi avvicina per l’ennesimo cicchetto, ma si blocca anche lui, comprensivo. La signora s’accorge e s’inasprisce. - Cosa avete da guardare, deviati inservienti …

I due inservienti diventano uno, quando la signora riconosce nell’altro il direttore.

 

L’ambiente all’apertura è ordinato e pulito, gli scaffali in ordine, e le offerte fuori banco sembrano tasselli di un intarsio: le pile d’articoli a legare tra loro con la base di quattro pacchi posti orizzontalmente, sotto altri quattro pacchi verticali e così via. La frutteria è un orticello rigoglioso e la salumeria è una cantina di campagna. I profumi del pane appena caldo di forno si spandono per i corridoi.

Alla fine della giornata il chiasso dell’ora di punta non sparisce, si sposta dentro la tua testa. Dall’esterno avverti i clacson delle macchine al semaforo, mentre dentro sembra un paese demolito dal terremoto. I cartelli delle offerte sono scambiati e le pile in disordine. Il fuori banco è stato assalito e bombardato. Una bottiglia di passata rustica è disintegrata sul pavimento, un’altra d’olio più in là. Carte e depliant sono in terra, confezioni di carne e prodotti deperibili sono abbandonate sugli scaffali dei detersivi. All’uscita ci sono delle buste piene che qualcuno non ha avuto il tempo di nascondere. Le casse risuonano col tipico ritmo computerizzato dei nostri conti di fine giornata.

E’ paradossale questo mestiere: creare un’esposizione magnifica e che attiri le attenzioni del pubblico, sapendo che il successo sarà determinato dalla sua deturpazione. Tutto il contrario della musica.

 

E’ sabato, sono sull’autobus per recarmi al lavoro. Il sabato di solito, arrivano i volontari della Caritas per la raccolta di scatolame, tipo tonno, legumi ed articoli di quel genere, da destinare a profughi o popolazioni del terzo mondo.

I ragazzi dispongono i propri tavoli all’entrata, per ritirare le buste dei clienti che vogliono partecipare.

Una confezione rovinata per noi del settore è merce da rendere al fornitore, persino un articolo cui si stacca l’etichetta. Quella roba torna al deposito, è merce non vendibile né acquistabile, né, ovviamente, offribile.

Al supermercato si vendono anche prodotti d’agricoltura biologica. Vacca racconta ai clienti che le patate al selene sono patate già spezziate.

La gente è sospettosa. - Guardi questo pollo: non le sembra un po’ troppo gonfio?

- Signora, quella è una faraona.

- Davvero? Non sapevo che importassimo carne dall’Egitto.

 

L’altro giorno mi è tornato in mente mio nonno. Lui mi parlava degli anni della guerra, della miseria, del paese suo, che la miseria è assegno circolare, uguale dappertutto.

C’è un conflitto, adesso, da qualche parte nel mondo. Lo dice la televisione. Partecipa anche l’Occidente.

Il supermercato si riempie di persone suggestionate, anziani che fanno incetta d’ogni genere d’articoli, zucchero, pasta, farina. Sono pazienti in fila, e nessuno si lamenta. La filodiffusione è spenta, per mio sollievo.

Lo scaffale del caffè è vuoto. Ne rimangono granelli depositati da confezioni aperte. Un vecchio si avvicina lento. Si ferma, guarda intorno e con un pennellino lascia cadere un misto di polvere e caffè nella bustina vuota.

E’ l’anziano signor Alfredo Toffolo. Sembra uscito da Sciuscià o Ladri di biciclette, ma lui non ha la bici e le sue scarpe sono scrostate, i lacci rappezzati. Si passa una mano tra i capelli bianchi, tenuti buoni da un filo d’acqua.

Scende al supermercato con lo spirito di un ragazzo e prova a circuire discreto la solita signorina di mezza età, accompagnandola e reggendole le buste. Si fanno compagnia.

 

A volte mi regala le sue poesie. - Devi leggere sempre - mi dice.

"Prati verdi dove crescono papaveri rossi.

E’ là che vorrei dormire, stanco.

Senza targhe e senza marmo".

- Conserva le mie poesie, ed ogni volta vedrai un papavero rosso, chiamalo Alfredo.

Fa l’occhietto con i suoi beffardi, ed esce dal reparto cioccolatini. Pare che abbia preparato il piano per la rapina del secolo, ma cerca solo un’emozione. Quei dolciumi sono per i nipoti.

Finge di trovarsi lì per caso, quando vado a gettare gli scarti del reparto orto frutta. Alfredo tiene una busta accartocciata nella tasca dell’impermeabile.

Il vecchio mi attende dove passa anche Belinda. Io vedo tanta gente il giorno, ma non ti guarda dritto negli occhi. Una distratta visione della persona che hai di fronte, e torni ad eseguire il tuo compito. Lei, invece, fissa quest’ottuso addetto di mercato, smascherandone l’imbarazzo. Seguire Belinda mi tiene aggrappato alla vita. Vorrei parlare con qualcuno perché mi sembra di non farlo più, aprirsi veramente, intendo. Ho l’impressione di essere arrivato all’ombelico della follia. La mia esistenza è un prodotto scongelato, scondito, insapore. Avrei bisogno di un posto dove posare i sogni, lontano dal caotico traffico della materialità.