07.06.2002
"Indebolire il presidente dell'Anp fa solo il gioco degli estremisti"


«L’attacco contro il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese è un’ulteriore prova della guerra totale sferrata da Israele contro il popolo palestinese. Non è distruggendo le infrastrutture dell’Anp e minacciando il suo presidente che Israele avrà la meglio sui gruppi terroristi. Indebolire Arafat fa solo il gioco degli estremisti». A sostenerlo è una delle personalità di primo piano della leadership palestinese: il capo dei negoziatori dell’Anp, Saeb Erekat.


L’esercito israeliano è tornato a colpire il quartier generale di Arafat.


«Questo attacco rappresenta una pericolosa escalation contro il popolo palestinese e l’Anp. Attacchi di questo genere non servono a fermare le operazioni terroristiche ma ottengono l’effetto opposto perché rafforzano le fila dei gruppi estremisti».


L’azione militare israeliana avviene dopo l’atroce carneficina di Megiddo. Israele accusa il presidente Arafat di non fare nulla per contrastare i terroristi.


«Non è così. La nostra condanna nei confronti degli attacchi contro civili israeliani è netta e totale. Chi compie simili azioni è un nemico della causa palestinese. L’Anp non si limita, come sostiene Sharon, alle sole parole di condanna. Stiamo facendo tuto ciò che possiamo per porre fine agli attacchi e in diversi casi abbiamo ottenuto dei risultati. La verità è opposta a quella che vorrebbe imporre Sharon...».


E quale è la «verità» dell’Anp?


«Quella di chi rappresenta un popolo da oltre venti mesi assediato dai carri armati israeliani, costretto a subire umiliazioni quotidiane, impossibilitato a muoversi da città a città, prigioniero nella sua terra. Ed è in questa situazione asfissiante che ci viene chiesto di lottare contro i gruppi terroristi. È un impegno a cui non intendiamo sottrarci. Ma come possiamo agire con efficacia quando siamo sottoposti ad uno stato d’assedio, ad un’aggressione permanente e brutale da parte israeliana? Alle nostre forze di sicurezza non hanno libertà di movimento, le infrastrutture di polizia dell’Anp sono state distrutte nell’offensiva israeliana di aprile, il nostro controllo del territorio cancellato. Israele controlla totalmente la Cisgiordania eppure non è riuscito a fermare le operazioni terroristiche. Ed ora intende rigettare su di noi il suo fallimento. Che è politico, prim’ancora che militare».


In cosa consisterebbe questo fallimento?


«Il modo più efficace per contrastare i gruppi estremisti è quello di rilanciare un processo di pace significativo. Una prospettiva negata da Sharon, come testimonia il suo ostracismo alla convocazione di una conferenza internazionale di pace che riavvii un serio negoziato sulla base delle risoluzioni Onu e degli accordi già sottoscritti».


La ripresa del terrorismo e la reazione militare israeliana avvengono mentre in campo palestinese si discute di riforme ed elezioni. I collaboratori del premier Sharon parlano di riforme-farsa.


«Non sarà Sharon a dettare le nostre priorità, tanto meno a imporci le sue "riforme". Respingiamo ogni ingerenza israeliana nel nostro dibattito interno, mentre siamo aperti ai suggerimenti dell’Europa e degli Usa. Le riforme si faranno, e non saranno di facciata, perché è nell’interesse del popolo palestinese. Riforme che investiranno ogni ambito delle istituzioni palestinesi e riguarderanno anche il ruolo del presidente. Ma tutto ciò, lo ripeto, non ha nulla a che vedere con la pretesa israeliana di identificare le riforme con l’uscita di scena di Arafat. Sarà il popolo palestinese, attraverso libere elezioni, a scegliere i suoi dirigenti, il suo presidente».


In Israele c’è chi sostiene che l’unica strada per porre un freno alla violenza è una separazione unilaterale.


«L’unica separazione che può reggere è quella concordata ad un tavolo negoziale, con la definizione, garantita internazionalmente, dei confini tra due Stati. Ciò che non può reggere è una separazione imposta con muri, reticolati, filo spinato. Una separazione che frantuma i Territori, spezzandoli in otto cantoni come sta avvenendo in Cisgiordania. Questa separazione finisce per realizzare città-carcere nei Territori, gettando le basi per un sistema di apartheid. Non è così che si farà terra bruciata attorno agli estremisti».


Il presidente George W.Bush incontrerà nei prossimo giorni prima il presidente egiziano Mubarak e successivamente il premier israeliano Sharon. Cosa vi attendete da questi incontri?


«La convocazione di una conferenza internazionale di pace. Una conferenza pienamente legittimata ad assumere delle decisioni impegnative per tutti i partecipanti».


Nel frattempo prosegue la missione del direttore della Cia.


«A Tenet abbiamo ribadito il nostro impegno ad attuare l’insieme dei punti del suo piano, e dunque non solo il cessate il fuoco ma anche il ritiro delle forze israeliane dalle aree rioccupate dopo il settembre 2000 (l’inizio della nuova Intifada, ndr.)».


Il rilancio degli attentati suicidi da parte della Jihad islamica e di Hamas non è anche una sfida ad Arafat e all’Anp?


«È una sfida alla stragrande maggioranza dei palestinesi che stanno resistendo all’aggressione israeliana in nome del diritto ad uno Stato indipendente a fianco di Israele. Gli attacchi suicidi allontanano questa speranza».

 

L'annuncio del ministro della Giustizia Usa Ashcroft
L'arresto a Chicago in maggio: l'uomo è un membro di Al Qaeda
Usa, catturato terrorista
con una bomba radioattiva
L'obiettivo, secondo l'Intelligence, era Washington

WASHINGTON - Il ministro della Giustizia americano John Aschroft ha annunciato la cattura di un cittadino americano che stava preparando un attacco di tipo atomico contro gli Stati Uniti, colpendo Washington. L'annuncio è arrivato solo oggi da Mosca, dove Ashcroft è in visita, ma la cattura dell'uomo, definito dal ministro un "noto membro di Al Qaeda", risale a un mese fa quando all'aeroporto di Chicago l'uomo fu fermato mentre tornava negli Usa dal Pakistan. "L'arresto riguarda un cittadino americano che stava esplorando la possibilità di far esplodere un ordigno radioattivo sporco nel nostro paese", ha detto il ministro della Giustizia Usa.

L'obiettivo del terrorista era Washington: ne sono convinti gli investigatori e i servizi d'intelligence, che hanno dato l'annuncio dei piani dell'uomo, un cittadino americano che risponde al nome di Jose Padilla ma che come "combattente" di Al Qaeda si chiama Abdullah Al Mujahir.

L'ordigno di cui era in possesso al momento del fermo, che risale all'8 maggio scorso, è detto
"dirty bomb" , cioè una bomba costituita da materiale nucleare collegato a un innesco di tipo tradizionale. Una bomba di questo tipo non ha l'impatto devastante di quella nucleare, ma può uccidere molte persone e contaminare un'area relativamente vasta perché rilascia nell'ambiente sostanze radioattive.

Da mesi le autorità americane insistono sulla possibilità di un attacco del genere da parte del gruppo terroristico di Osama Bin Laden. Il ministro della Giustizia ha dato l'annuncio in diretta televisiva, sottolineando che il progetto terroristico "è stato sventato grazie alla stretta collaborazione tra Fbi, Cia e altre agenzie federali".

L'arresto annunciato oggi è avvenuto, come accennato, l'8 maggio all'O'Hare International Airport di Chicago e il detenuto è stato affidato in custodia ai militari. L'uomo, un ex criminale comune un tempo membro di una gang di Chicago, si era trasformato in un pericoloso terrorista di Al Qaeda. Il presidente George W.Bush ha firmato ieri un provvedimento che definisce Al Mujahir-Padilla un "combattente nemico", ordinando il passaggio della sua custodia dal sistema giudiziario federale a quello militare: il detenuto si trova ora in una base militare della Marina nella Carolina del Sud.

Padilla potrebbe ora diventare il primo imputato per i tribunali militari speciali voluti da Bush dopo l'attacco all'America dell'11 settembre. Le informazioni su Al Mujahir sono arrivate da Abu Zubaydah, l'ex "numero tre" di Al Qaeda catturato dagli americani in Pakistan. Mujahir avrebbe avuto vari contatti con Zubaydah per organizzare un attacco con una bomba "sporca" contro gli Usa.

Oltre all'uso della bomba radiologica, Al Mujahir avrebbe discusso con Zubaydah altri attacchi contro gli Usa. "Abbiamo sventato un piano terroristico in corso", ha detto Ashcroft, lodando la collaborazione tra Fbi, Cia e altre agenzie, criticate in queste settimane per gli errori che hanno preceduto l'11 settembre.

All'annuncio di Ahcroft Wall Street ha reagito arretrando: il Dow Jones cede lo 0,05% (9.585,12 punti) mentre il Nasdaq riduce i guadagni e segna ora +0,24% (1.539,16).

(10 giugno 2002)

 

SCHEDA/La "dirty bomb" uccide in due modi: prima
con l'esplosione, poi con la contaminazione per via aerea
Che cos'è
una "bomba sporca"

ROMA - Una "dirty bomb" (alla lettera, bomba sporca), nota anche come "arma radiologica",utilizza dell'esplosivo convenzionale come la dinamite confezionato assieme a materiale radioattivo che si diffonde quando la bomba esplode.

Una "dirty bomb" quindi uccide o ferisce sia attraverso l'esplosione iniziale dell'esplosivo convenzionale che per le radiazioni e le contaminazioni che avvengono attraverso l'aria (da qui l'attributo "sporca"). Bombe del genere possono essere sia di dimensioni minuscole che grandi come furgoni.

A differenza della bomba atomica, questo tipo di ordigno non innesca una reazione nucleare a catena ma la sua potenzialità di contaminazione dipende dalla quantità di materiale radioattivo utilizzato.

Per realizzarle non serve una competenza molto superiore a quella necessaria per una bomba convenzionale. La parte più difficile è proprio venire in possesso del materiale
radioattivo.

(10 giugno 2002)

 

Temi moderni

di Furio Colombo

A quanto pare «noi dobbiamo proporre una linea moderna», viene ripetuto spesso dentro e intorno alla sinistra, come indicando una pozione magica. Gira e rigira la «modernità» si trova tutta intorno all’articolo 18 e se si possa (o meglio, si debba) licenziare liberamente chi lavora. Per esempio, sul Corriere della Sera del 6 giugno, in conclusione di un editoriale di prima pagina, Pietro Ichino ammonisce: «Pensate davvero di poter tornare più facilmente al governo con la parola d’ordine per cui il vecchio diritto al lavoro non si tocca? E se anche la cosa dovesse dovesse funzionare, che cosa direte ai vostri elettori il giorno dopo che sarete tornati al governo, per riprendere il discorso sulla indispensabile riforma del diritto del lavoro? Potrete dire: "abbiamo scherzato"?» Sono certo che anche Ichino, per quell’eventuale giorno di festa, vede due o tre altre ragioni capaci di animare all’improvviso la scena del Paese. Il problema è importante. Ma non nel modo, nel tempo e con la sequenza che vuole imporre questo governo, per ragioni che non appartengono al problema ma al governo e alla sua particolare alleanza con la parte di Confindustria che ha dato sostegno e pretende l’incasso. Il governo, lo dicono anche molti imprenditori, ha imposto una grande frenata al mondo del lavoro, ne ha interrotto la pace, ha fatto tutto ciò che poteva per dividere i sindacati. Un conto è riconoscergli di avere avuto una sua parte di successo, come dimostra il dibattito aspro che adesso divide l’Ulivo. Un conto è essere sicuri che le priorità del Paese cominciano dove le stabilisce Berlusconi. Ma questo ci porta alla domanda che torna come un tic nervoso: siete sicuri che fare questa o quella cosa aiuti a tornare al governo? Per non cadere in questa trappola, gli organizzatori delle campagne elettorali americane si dividono sempre in due gruppi. Uno affronta i temi e i problemi dal punto di vista dell'urgenza e della passione. L’altro decide che posizioni bisogna prendere a seconda del vento che tira. Credo di poter dire che quelle campagne elettorali, sono spesso state perdute da chi si è occupato soltanto del secondo problema (va bene se dico questo?) trascurando di decidere e di rischiare su fatti non negoziabili per ragioni politiche, o per ragioni morali. Per esempio, è vero che la propaganda della paura ha avuto successo. È vero che un buon numero di italiani, anche a sinistra, sono persuasi di essere invasi dagli immigrati e credono che i delitti siano compiuti quasi solo dagli stranieri. Ma persone politicamente decenti non possono scherzare con questo argomento, flirtare con la paura o far finta di credere a clamorose bugie per inseguire la paura e arruolarla fra i propri elettori. *** **** **** Siamo sicuri di vincere le elezioni difendendo i diritti umani e civili degli immigrati? No, non siamo sicuri. Siamo sicuri di aggregare un numero di persone più vasto di quelle che hanno sostenuto Forza Italia se continuiamo a difendere senza tentennamenti l’articolo 18? No, non ne siamo affatto sicuri. Ma non siamo neanche sicuri del contrario. Per esempio, il gruppo politico più liberista, nel nostro Paese, i radicali di Pannella, della Bonino, di Capezzone, si trova da tempo dal lato giusto della domanda di Ichino (se si possa toccare il diritto del lavoro) e non hanno raggiunto il cumulo di voti che viene continuamente lasciato intravedere alla sinistra come premio per l’abbandono di questioni definite «vecchie». Non so perché i radicali si sentano vicini a questa destra a zig zag di Berlusconi, che va e viene fra statalismo, assistenza concordata (ma solo tra abbienti), protezionismi arcaici, un tocco di camera dei fasci e delle corporazioni (non nel senso del fascismo, ma nel senso di «se tu mi aiuti, c’è qualcosa per te») e una alleanza con Confindustria di tipo sudamericano (fronte di interesse in luogo di liberismo). Però so che sono integri. E la loro integrità liberista svela, per contrasto, il profilo di questa strana destra: un caudillo che ha tracciato un suo percorso di interessi. La linea politica del caudillo consiste nel compensare in modi di volta in volta diversi i veri gruppi di interesse che lo sostengono, ora con una immaginaria lotta all’immigrazione, ora con conflitti di lavoro appositamente creati, ora attaccando la giustizia, ora smantellando la scuola o la sanità pubblica in modo che altri ne traggano beneficio; ora ideando immensi lavori pubblici a cui possano affluire gruppi di clienti elettori, a loro volta titolari di punti di persuasione e diffusione del consenso. Il controllo totale delle notizie, diffonde una effervescente impressione di dinamismo, e si può capire che a molti tutto ciò appaia «moderno». Questa presunta modernità diventa stimolo a farsi campioni di una modernità ancora più avanzata, che viene indicata come la sola strada per vincere. Invece ci troviamo di fronte ad una macchina di potere antica, clientelare, dove persino le paure (degli stranieri) e le speranze (se è ricco lui posso diventare ricco anch’io, a patto di stargli vicino) sono antiche. E chiunque (giornalisti e politici del mondo) lo ha constatato nell’umiliante «Truman Show» di Pratica di Mare. Nessun capo di governo moderno fingerebbe che qualcuno può fare, insieme, il capo del governo e il ministro degli Esteri, componendo canzoni nel tempo libero. E nessun altro, tra i leader delle democrazie industriali, contemporaneamente, avrebbe coperto una vecchia fortezza con una scenografia di cartapesta ispirata a evocazioni imperiali, perché da tempo, ormai, la funzione di governare si è separata dai simboli statuari e marmorei del potere (nel caso: simboli finti), tanto che - nel mondo di chi non è «sotto Berlusconi» - i simboli imperiali vengono visti come caricatura. Ma la caricatura si rivela per confronto, e il confronto fra ciò che è ridicolo e ciò che è normale non può avvenire, se qualcuno controlla tutte le immagini di se stesso diffuse nel Paese. Ecco dunque in che senso dobbiamo reclamare modernità. Modernità è non cadere nella trappola dello spettacolo ideato, scritto, diretto e interpretato da Silvio Berlusconi. In quello spettacolo tutto è finto, tutto è arbitrario, tutto è stato predisposto per giocare un solo gioco al quale è bene non partecipare. La sua riforma del lavoro viene dopo il patto d’acciaio con cui il candidato primo ministro, nel convegno elettorale di Parma, si è dichiarato «intercambiabile» non con tutta l’impresa italiana, ma con quegli imprenditori che erano disposti a sceglierlo come leader. La sua riforma della giustizia viene a causa della sua situazione di imputato e risponde esclusivamente al suo reclamo di immunità. La sua riforma della legge sull’immigrazione, che è caotica e antica come il grumo di idee che rappresenta, è il compenso che offre alle squadre della Lega, che è lasciata libera di diffondere odio e predicazione secessionista fin dentro le strutture pubbliche della tv di Stato, in cambio del sostegno e del voto. La riforma detta «devolution» è il progetto di un disastro che colpirà insieme scuola, santità, giustizia, ordine pubblico con un modello di federalismo vagamente argentino. È un disegno che esalta una vecchia ossessione identitaria fatta di rancori locali, cieca e sorda ai problemi del mondo, cieca e sorda a una parte dell’Italia. Ma chi sta al gioco sta al potere e lo condivide, in una aggregazione che non lascia spazio per gli interessi comuni, non un centimetro. Nonostante il continuo risuonare dell’Inno nazionale. La modernità che si chiede ai leader e ai partiti che non sono complici del nodo clientelare di potere chiamato Casa delle Libertà, si realizza in due mosse. La prima mossa è non stare al gioco. Come dimostra il disastro delle Giustizia e il tentativo esplicito di gettare una istituzione dello Stato (la polizia) contro un’altra (i giudici), non c’è alcuna parte del gioco, condotto per interessi esclusivamente personali da Berlusconi, e dai suoi associati, che si possa condividere e assecondare. La seconda mossa richiede ostinazione e tenacia. Riguarda il conflitto di interessi. Questo immenso scandalo italiano è il cuore della macchina di potere berlusconiano. Non c’è niente di moderno nel controllare tutte (tutte) le televisioni, molti giornali e nell’effetto di intimidazione che in tal modo si esercita su tutto il mondo giornalistico. In queste due mosse si verifica non solo la coerenza e la compattezza, ma l’esistenza e il senso stesso del fare opposizione. Conviene questo percorso? Porterà i voti che servono per vincere? Difficile dirlo, come lo è per ogni decisione politica. Moralmente non è evitabile, e comunque il percorso è obbligato. Tutto comincia qui.

 

L'Argentina buttata nel pozzo
di Adolfo Pérez Esquivel


E' impossibile costruire un processo democratico sull'impunità: sono due cose incompatibili e questo ha prodotto l'insicurezza giuridica e sociale sperimentata oggi dal popolo argentino.
Una situazione che perdura dai tempi della dittatura militare fino al governo attuale, rendendo il popolo totalmente indifeso dal punto di vista giuridico e alla mercé della mafia finanziaria internazionale e interna. Il governo e il Parlamento sono i primi a violare la Costituzione argentina. Non fanno il loro dovere di rispettare e far rispettare il diritto costituzionale di cui sono depositari, atteggiamento che produce impunità.
Gli attuali governanti, come i governi che li hanno preceduti, privilegiano i grandi capitali e i centri finanziari: è vergognosa la sottomissione al mandato del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale e al governo degli Stati Uniti, il che fa dell'Argentina un paese sottomesso e dipendente sottraendogli sovranità.
I vari governi si sono trasformati in gestori delle imposte rastrellate per pagare gli interessi del debito con l'estero che soffoca il paese e genera fame, disoccupazione e disperazione.
Questa politica di dominazione si appresta a un altro giro di vite, preme per accaparrare le risorse del paese in toto: territorio contro debito, un debito immorale e ingiusto che deputati e senatori non hanno il coraggio di mettere sotto inchiesta benché abbiano tutti gli elementi per farlo, un debito che il giudice Ballesteros sarebbe disposto a rimettere. È lui a propugnare l'impunità per i centri di potere finanziario che hanno saccheggiato il paese senza pietà mentre si è concessa impunità giuridica per legge ai responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, violazioni che purtroppo non cessano.
Il governo provvisorio di Duhalde continua la politica sostenuta da Menem e de la Rua, attraverso Domingo Cavallo, un ministro nefasto per il popolo argentino ma che ha avuto l'avallo di deputati e senatori giustizialisti e radicali.
I legislatori che dicono di rappresentare il popolo non hanno il coraggio di sancire la Consulta popolare e il Plebiscito contemplati dalla riforma costituzionale dell'anno 1994. L'unica spiegazione che possiamo dedurre è che «hanno paura del popolo» e cercano la loro impunità, essendo spesso sospettati di corruzione loro stessi. Lo stesso accade con vari governatori delle province argentine.
Gli ultimi avvenimenti provocati dal disastro finanziario, le proteste sociali, i conti in banca congelati e la protesta delle casseruole mettono in evidenza il dramma dei risparmiatori. Vittime dell'impunità giuridica, che li ha portati ad adottare misure estreme per le loro angustie (tentativi di suicidio) mentre vedevano i loro risparmi e i loro sforzi scomparire nel tritacarne finanziario delle banche a causa di misure governative che violano la Costituzione nazionale.
In questo ambito è necessario considerare il ruolo del Fmi e dalla Banca Mondiale, organismi internazionali che determinano le politiche imposte dagli Stati Uniti e dai centri di potere finanziari, la cui voracità è insaziabile e che per nulla si preoccupano dell'alto costo umano e sociale che il popolo deve sopportare. Un debito con l'estero immorale e ingiusto, un debito privato trasferito sul popolo che oggi deve pagare per quello che non ha mai ricevuto. Questo debito è oggi il meccanismo di dominazione e sottomissione del popolo, che ha portato all'applicazione delle politiche di aggiustamento, capitalizzazione e privatizzazione.
È incomprensibile che un paese come l'Argentina, considerato nei momenti migliori «il granaio del mondo», produttore di generi alimentari, versi oggi nella più estrema situazione di povertà. Circa cento bambini al giorno muoiono di fame e di malattie evitabili e oltre 15 milioni di persone vivono in una situazione di miseria.
È incomprensibile che la capacità produttiva del paese si sia paralizzata e che il tasso di disoccupazione arrivi al 30%, mentre in alcune province la situazione è ancor più drammatica.
La fuga impunita di capitali dal paese ha portato il governo a congelare e bloccare le risorse dei piccoli e medi risparmiatori, vittime del malgoverno e dell'assenza di giustizia. Il popolo oggi vive in uno stato di totale assenza di protezione giuridica, con una Corte suprema messa in discussione dal popolo che chiede che «se ne vadano tutti».
In Parlamento si sta discutendo, sotto la forte pressione del governo degli Stati Uniti e del Fmi, l'abrogazione delle leggi sulla "Sovversione economica" e sui "Fallimenti". Sul dibattito pesa l'ingerenza permanente delle minacce del Fmi di sospendere gli aiuti se non si applicano una serie di deroghe, in pratica impunità totale per coloro che hanno saccheggiato il paese.
Un altro grave problema è la presenza, sempre crescente, di truppe nordamericane in territorio argentino: le manovre e le basi militari nella provincia di Cordoba nel 2000 e nella provincia di Salta nel 2001 con truppe dei paesi latinoamericani sotto il comando degli Stati Uniti per il piano Colombia; e le ipotesi di conflitto che considerano altri popoli come nemici reali o potenziali confermate dai documenti inviati dal potere esecutivo al Parlamento. Proprio mentre l'Argentina ha bisogno della solidarietà e dell'appoggio dei popoli fratelli per uscire dalla sua situazione.
Roma ha iniziato, con il sostegno del sindaco Walter Veltroni, una campagna per raccogliere medicine e alimenti per i bambini argentini e per gli anziani che non vengono curati come dovrebbero. Lo stesso stanno facendo in Spagna le città di Santander e Vigo.
L'inflazione e l'incertezza di fronte alle politiche del governo, l'aumento dei prezzi dei farmaci e la fine delle scorte mettono a repentaglio la salute della popolazione mentre molti ospedali e cliniche non hanno a disposizione mezzi e farmaci fondamentali per la cura dei malati.
La resistenza e la risposta del popolo alla crisi sono tuttavia incoraggianti: molti settori si sono organizzati nelle cosiddette «assemblee di quartiere», nei «club di baratto» (scambi di merci e lavoro contro generi alimentari); le donne si sono unite nelle «pentole popolari», gruppi studenteschi fanno volontariato con i settori più svantaggiati. Si è anche costituito il Frente Nacional Contra la Pobreza (FRENAPO, Fronte nazionale contro la povertà). La rete di organizzazioni che lavorano con bambini e bambine in situazioni di rischio sociale rappresentano la speranza che non tutto è perduto, che il popolo ha la capacità di trovare risposte alla situazione di base.
Tutta questa forza sociale non ha bisogno che di un salto qualitativo per generare nuove forme di agire politico e superare la crisi che soffoca oggi il popolo. L'Argentina ha risorse umane, sociali e culturali: un grande potenziale per superare la sua situazione.


* premio Nobel
per la Pace nel 1980
per le sue battaglie in difesa
dei diritti umani
in Argentina e nel mondo
(traduzione di
Cristiana Paternò)

 

La procura di Perugia ipotizza manomissioni del nastro
delle intercettazioni tra i giudici Squillante e Misiani
Processo Sme
sequestrata la bobina
La difesa di Berlusconi: stop al dibattimento
di PIER FRANCESCO FEDRIZZI

MILANO - I carabinieri in borghese arrivano a Palazzo di Giustizia mentre nell'aula del processo Sme sta parlando l'ex ministro della Partecipazioni statali, Clelio Darida. I due militari bussano alla cancelleria della procura, al quarto piano. Poco dopo scendono al piano di sotto, negli uffici dei giudici del tribunale. In mano hanno cinque paginette che cambieranno volto alla giornata. Su ordine dei magistrati di Perugia, i carabinieri sono a Milano per sequestrare la cassetta dell'intercettazione al bar Mandara del 2 marzo '96 e gli appunti scritti a mano dal poliziotto che ascoltò il colloquio tra Renato Squillante, ex capo dei gip di Roma, e il pm amico Francesco Misiani. Nel capoluogo umbro è in corso l'inchiesta sull'eventuale manomissione di questi nastri, aperta dopo una denuncia di Cesare Previti.

L'iniziativa di Perugia dà alle difese di Silvio Berlusconi e Previti l'occasione di chiedere un altro stop a un processo che non sembra destinato a giungere alla sentenza. Informati via cellulare dagli studi legali romani, gli avvocati chiedono la sospensione del processo. "Il dibattimento non può continuare. Il fascicolo è sotto sequestro e quindi incompleto. Da oggi è un corpo di reato. Nessuno di noi può accedere ad atti. Dopo la Cassazione, anche la procura di Perugia mette in dubbio il lavoro di giudici e pm di Milano" dice l'avvocato Nicolò Ghedini, difensore del premier, che in serata incassa anche le motivazioni della Cassazione sulla sentenza assolutoria nel falso in bilancio da 10 miliardi della casa cinematografica Medusa ("Gli elementi emersi nel processo non hanno dimostrato la concreta e rilevante ingerenza di Berlusconi").

La replica a Perugia del procuratore capo di Milano, Gerardo D'Ambrosio, è serena: "Da Perugia nessun sospetto sul nostro operato, anche perché, in caso contrario, avrebbero mandato gli avvisi di garanzia. Siamo indifferenti al sequestro, perché la cassetta in nostro possesso è quella inviata dal ministero e nessuno l'avrebbe negata a Perugia". Contrario alle richieste dei difensori degli imputati è l'avvocato Giuliano Pisapia: "Le cause di sospensione di un procedimento in corso sono solo quelle previste dal codice di procedura penale. E nessuno degli argomenti proposti dalle difese degli imputati per chiedere la sospensione del processo Sme rientra in quelle cause".

Il decreto di sequestro - firmato dal procuratore aggiunto di Perugia, Silvia Della Monica e dai pm Sergio Sottani, Alessandro Cannevale e Antonella Duchini - rappresenta comunque un episodio senza precedenti nella storia giudiziaria italiana e rischia di segnare la frattura tra due uffici, Perugia appunto e Milano, che fino a pochi mesi fa hanno lavorato di comune accordo. Colpisce il fatto che i carabinieri si siano presentati a Milano proprio mentre si stava svolgendo un'udienza del processo che vede sotto accusa il capo del governo italiano. L'ordine di sequestro, firmato giovedì dai pm perugini, poteva trovare esecuzione a riflettori spenti, magari proprio quello stesso giovedì, giorno di pausa per i dibattimenti milanesi. Non solo. I magistrati umbri avrebbero potuto, inoltre, disporre di altri strumenti per assicurarsi la "prova" custodita in cassaforte nel tribunale di Milano. La procura di Perugia avrebbe potuto chiedere la semplice esibizione delle cassette e delle annotazioni manoscritte, inserite nel fascicolo del processo Sme. E sull'opportunità di arrivare al sequestro sono molte le voci critiche che si levano dagli uffici giudiziari di Milano.

Nel dispositivo di sequestro, i magistrati di Perugia sottolineano che l'audiocassetta e le annotazioni di servizio dall'ispettore Dario Vardeu "costituiscono corpo di reato". Il magistrato chiarisce che i documenti "devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga", e che il nastro e gli appunti "sono indispensabili agli accertamenti tecnici già disposti con perizia dal gip". Argomenti utilizzati dal legale di Previti, l'avvocato Alessandro Sammarco, per mettere sotto accusa lo stesso collegio giudicante milanese: "Il cerchio è chiuso - dice Sammarco - Nei vostri uffici sono arrivati i carabinieri. Il sospetto di alterazione delle prove, alla base del sequestro, investe anche voi". Il "caso Perugia" torna così ad agitare il processo Sme, che nella giornata di oggi attende la risposta della procura alle richieste delle difese.

(8 giugno 2002)

 

La Relazione della magistratura contabile
boccia il Lazio e promuove l'Emilia Romagna
Allarme della Corte dei conti
"Spesa sanitaria fuori controllo"
Berlusconi: "Colpa della sinistra"

ROMA - La Corte dei conti lancia l'allarme sulla spesa sanitaria delle Regioni cresciuta in modo definito "preoccupante" negli ultimi due anni e destinata ad ulteriori incrementi nel 2002. Le cifre riportate nella Relazione sulla gestione finanziaria delle Regioni, relativa agli anni 2000 e 2001 parlano chiaro: il tasso medio di crescita della spesa corrente sanitaria è stato pari al 7,6% ed è stata soprattutto la spesa per medicinali a gravare sui bilanci. "Allarmante" è definito l'incremento nel 2001, che è stato pari a circa 142.389 miliardi di lire (73,5 milioni di euro), con un aumento del 6,3% che ha ridotto soltanto in misura relativa il picco raggiunto nel 2000, quando il fabbisogno lievitò del 9,1% sul '99. Risultato, una crescita media del 7,6% che ha riguardato i consuntivi delle aziende sanitarie e ospedaliere gravando sui bilanci regionali. "Colpa della sinistra", commenta Berlusconi, "colpa del governo precedente", gli fa eco il ministro della Salute Girolamo Sirchia.

La Relazione, curata dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti, vede con pessimismo anche il 2002. "Ulteriori rischi si addensano sui risultati di quest'anno, a causa di una inusitata effervescenza della spesa farmaceutica riscontrata nei primi tre mesi dell'anno (+14-15%), all'aumento del costo del personale della sanità rinveniente dall'ultimo contratto nazionale di comparto, agli effetti conseguenti gli obiettivi perseguiti dal governo in tema di riduzione delle liste di attesa".

La spesa corrente sanitaria, rispetto a un Pil nominale che è cresciuto con un tasso medio del 4,3% negli ultimi quattro anni, registra un incremento che nel medesimo periodo si attesta a livelli decisamente superiori: dal 6,7% al 7,6% dell'ultimo biennio con "uno scarto che smentisce la tenuta dei fabbisogni ipotizzati e - prosegue la Relazione - la congruente copertura assicurata dai previsti finanziamenti".

Secondo la magistratura contabile, pertanto, la disciplina sul Patto di stabilità interno "non si è rivelata coerente con gli obiettivi perseguiti. I risultati insoddisfacenti sono in gran parte legati - segnalano i giudici - all'ambiguità di fondo delle regole applicative". Nel quadriennio 1998-2001 il tasso maggiore di crescita - rapportato al dato nazionale dei quattro anni, cioè al +6,7% - è stato registrato dalla Regione Lazio (+7%) e dalla Lombardia (+6,9%). Migliore è invece la situazione, sempre con riferimento ai quattro anni, della Campania (+6,3%), del Veneto (+6,1%) e dell'Emilia Romagna (+4,8%).

In particolare, per l'Emilia la Corte segnala l'avvio di "un percorso virtuoso nel quadriennio con il traguardo nel 2001 di una crescita di spesa corrente sanitaria di appena il +2,4%". Le maggiori preoccupazioni sono relative alla situazione del Lazio, che "malgrado la integrazione di 644 miliardi dell'accordo di agosto, espone nel 2001 un ulteriore disavanzo di 1.701 mld. Da dire poi che il Lazio - si rileva nella Relazione - con speciale riguardo alla situazione del policlinico universitario, riceve dal bilancio dello stato altri 700 mld per gli anni 2000 e 2001".

L'analisi economica della spesa corrente sanitaria individua le componenti di maggiore peso nei costi del personale, dei beni e servizi, delle convenzioni, che rappresentano rispettivamente il 37%, il 22,5% e l'11,4% del totale negli anni 2000 e 2001. La spesa farmaceutica, da parte sua, ha una incidenza percentuale del 12,5% per il 2000 che sale al 15,8% nel 2001.

Pronta la risposta del governo ai dati della Corte dei conti. Il ministro Sirchia subito ha dato la colpa al governo del centrosinistra ed anche Berlusconi ha seguito la stessa linea. "E' vero - ha detto il premier - che c'è stata una spesa sanitaria eccessiva, ma questo è dovuto alla manovra elettorale della sinistra che ha eliminato il ticket e così gli italiani hanno moltiplica l'acquisto delle medicine accumulandole, spesso, nei cassetti". E Berlusconi poi ha promesso: "Il governo interverrà per contenere la spesa sanitaria".

(7 giugno 2002)

 

 

 

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