L’Italietta tra venti di regime e barbarie planetaria

 

Prima di affrontare le problematiche attuali, è opportuno evidenziare la debolezza strutturale del nostro Paese, che, per via dell’eterna vocazione compromissoria, ha sempre privilegiato le forze conservatrici. Da qui l’assenza di eventi decisivi come la riforma protestante, la rivoluzione francese ed anche la mancata realizzazione del Risorgimento, che di fatto, è rimasto incompiuto. Oggi, considerando la situazione esistente, caratterizzata da una visione totalizzante del dogmatismo ideologico neoliberista, è lecito optare per un’indagine “eretica”, per rilevare che il quadro politico odierno mostra uno squallido universo appiattito, che somiglia alla Caina dantesca. Ciò è suffragato dal qualunquismo antipolitico, dalla politica – spettacolo, dalla presenza di nani e ballerine, dalle forme di narcisismo di destra e di “sinistra”. In questo scenario, l’antipolitica diventa governo, Stato e ambisce a instaurare un regime politico di tipo nuovo. Un esito, che, come sostiene Mauro Calice, ha il sapore orwelliano della mediocrazia autoritaria. L’apice di questa fase è la presa del potere del monarca di Arcore, che con aberranti liturgie, celebra il suo diritto di Padronanza. Diritto che peraltro viene legittimato e benedetto dalla Confindustria, da Ciampi, dal papa. Quest’ultimo, attenendosi al “copione” storico del Vaticano, non solo è salito sul carro del vincitore, ma ha anche manifestato con dovizia di dettagli i desiderata papali, in materia di famiglia, aborto, educazione. Intanto, il re del marketing racconta la favola aziendale della terra promessa, in cui stabilità politica, libertà e giustizia potranno garantire “al popolo” un assetto politico e sociale paradisiaco. Valicando i parametri dell’immaginario collettivo, ormai pregno di un inquietante qualunquismo, occorre dar voce alla scabra verità, ossia che stiamo percorrendo la via crucis del male radicale. Penetrando nella squallida realtà del fattalismo, è necessario innanzitutto mettere in luce che enfatizzare la stabilità, prescindendo dal contesto storico è riduttivo e fuorviante. Difatti il “governo” fascista era indubbiamente stabile, ma il dettaglio non trascurabile è che era un regime. Pertanto, quando il mito della governabilità discende da un “Discorso sulla ineguaglianza tra gli uomini” e da un potere privato, allora la democrazia recede a regime delle classi agiate. Inoltre, la “sinistra”, acefala e flessibile, ha imperniato la campagna elettorale sul conflitto di interessi del Cavaliere, dimenticando che in passato la riforma più urgente era quella di porre fine al conflitto fra pubblici interessi e interessi imprenditoriali privati. Purtroppo, compromessi vecchi e nuovi, un manicheismo virtuale, la logica della convergenza, la dissoluzione di ogni identità politica della sinistra, hanno determinato il trionfo del partito – azienda. A questo punto, analizzando il duplice baratro della situazione esistente, vale la pena focalizzare l’attenzione sul fatto che il camaleontico cavaliere fa spesso riferimento a De Gaulle, avvalendosi di toni encomiastici. Ciò non è casuale ma è contestuale al disegno, che tende a convertire la sovranità in quella del monarca elettivo. Riscontrando non poche analogie tra i due personaggi, giova rivisitare la vicenda dell’instaurazione della V Repubblica in Francia. Nel 1958 De Gaulle chiede all’Assemblea nazionale l’investitura per esercitare pieni poteri e per modificare la normativa costituzionale. Ciò consente al governo, presieduto da lui, di elaborare i mutamenti “indispensabili” per il Paese. Pur rilevando le differenze spaziale e temporali, è opportuno evidenziare che anche il piazzista di Arcore intende promuovere operazioni di chirurgia istituzionale. Se questo progetto si realizzasse sortirebbe effetti dirompenti e comporterebbe il passaggio da una democrazia incompiuta ad un autentico regime. Vero è che il bisturi cade su un corpo canceroso e ciò è confermato anche dall’illegalità e dal caos della campagna elettorale, tant’è che all’estero il Belpaese è stato definito “La Repubblica delle banane”. La definizione è calzante, ma ritengo che l’Italietta, per via di una storia pregna di fatti e misfatti, possa essere anche descritta nei seguenti modi: l’Italia dalle lunghe mani, Craxi e Berlusconi docent; l’Italia dei paradossi: l’Italia delle abiure e dei roghi; l’Italia delle stragi di stato; l’Italia delle tangenti; l’Italia delle trame. Oggi si potrebbe aggiungere: “l’Italia berlusconizzata”, infatti il berlusconismo ha vinto in sede socio – antropologica e nella pratica politica. In questo scenario a tinte fosche non si possono sottovalutare i rimaneggiamenti della “sinistra”, che, in nome del progressismo, degli imperativi economici e tecno-scientifici dell’ortodossia maastrichtiana, ha espulso tutta la cultura di sinistra, ritenendo che fosse zavorre passatista. Le osservazioni fatte risulterebbero riduttive, ove non si tenesse conto dei prodromi della catastrofe. Le radici della disfatta discendono da un passato caratterizzato da episodi inquietanti, da misteri e da forme di sudditanza nei confronti di tutti i poteri forti, vuoi in sede nazionale che internazionale.

I compromessi storici del Pci; il regime puro Dc; lo stragismo; la repressione dei movimenti degli anni 70; i 35 giorni di occupazione della FIAT, con la sconfitta della lotta operaia, che poi sancirono la fine dei movimenti sociali; il regime democraxiano, con la spregiudicata logica del CAF; il meccanismo consociativo e il rampantismo; il virus della globalizzazione, hanno via via determinato una demagogia nuovistica, una pratica politica priva di oggetto e ridotta a gioco tattico. Indubbiamente, pur constatando “l’anomalia italiana”, non si possono sottovalutare le connessioni con il quadro internazionale, basti pensare alla “rivoluzione neoconservatrice” della Thatcher, di Reagan, di Kohl. Inoltre, un ruolo determinante hanno avuto la situazione geopolica generale, la caduta del Muro, i giganteschi processi di ristrutturazione e di delocalizzazione produttiva. La vittoria di Berlusconi, dunque, non è fortuita e occasionale, ma è strettamente connessa al craxismo, al regime del sistema proprietario, alla pervasiva ideologia dello sviluppo. Per quanto concerne “lo sviluppiamo”, Serge Latouche sostiene che è un’espressione profonda della logica economica e “non c’è posto, in questo paradigma, per il rispetto della natura preteso dagli ecologisti, né per il rispetto dell’essere umano reclamato dagli umanisti”. D’altro canto, l’Europa di Maastricht si traduce nelle regole del mercato, che poi sanciscono le norme vigenti a livello internazionale. A questo proposito, proprio partendo dall’ingresso in Europa del nostro Paese, è opportuno rievocare le posizioni di Treu, che affermò: “È evidente che sono soprattutto i lavoratori a sopportare le operazioni di riordino e contenimento della spesa.” Il fatto paradossale è che l’opuscolo, con il titolo “Il patto sociale di Treu”, viene approvato da Fausto Bertinotti. Successivamente l’opuscolo diventa legge e ciò consente di legittimare il lavoro interinale e il caporalato legalizzato. Questo inquietante episodio dimostra che anche Bertinotti è preda d’amnesie e che tra la forza delle prole e la verità fattuale esiste una netta linea di demarcazione. Sono, dunque, le incongruenze passate e presenti che concorrono ad incrementare il secessionismo sociale. D’altra parte, lo smantellamento dello stato sociale, le privatizzazioni, la riforma-truffa delle pensioni, fanno registrare un continuum, che va da Berlusconi a Dini, da Prodi a Ciampi e a D’Alema. Ciò significa che sussistono ragioni inconfutabili per smettere di chiamare sinistra quella istituita, dal momento che il temine può essere usato solo a condizione che si parli di “sinistra della destra”. Ne consegue che per la sinistra sociale mancano i punti di riferimento, né R. C. può rappresentare un referente per la pratica sociale dell’antagonismo, se non opera un salto di paradigma, negando anche il nauseante associazionismo diessino. Intanto, la barbarie avanza a livello planetario e pare quasi che si stia formando una sorta di società duale: da un lato la società dei leader delle imprese e delle istituzioni finanziarie mondiali e, dall’altro, la classe dei paria, costretti a mendicare lavoro, anche quello più infame e più servile. Difatti, per quanto concerne il lavoro, non siamo poi così lontani da una mentalità di marca nazista. A questo proposito sono illuminanti le osservazioni di Sergio Bologna, che afferma: “La politica nazista di selezione delle razze non è nata dall’antisemitismo, non è nata su basi etniche, è nata per distruggere fisicamente gli emarginati su basi di selezione sociale… I primi lager furono le case di lavoro (istituite nel 24 dal governo socialdemocratico), ossia gli ospizi dove erano alloggiati coloro che, in cambio del sussidio di assistenza, dovevano prestare un servizio di lavoro obbligatorio. È lì che è nato il sistema di concentrazione nazista”. Vero è che, se la socialdemocrazia di Weimar e il nazismo interpretarono il capitalismo in modo rozzo, oggi, sia pure con uno stile soft, permeato di buonismo, si ripropone il lavoro coatto. D’altra parte, l’impianto neoliberista, perseguendo la massimizzazione del profitto, fa registrare a livello macro – economico, la riduzione della spesa sociale e, a livello micro – economico, la flessibilità, ritenuta la panacea di tutti i mali e strumento basilare della competitività. In quest’ottica l’economia capitalistica non è più costretta a raffigurare come produttore il lavoro sociale primario, sicché anche la teoria giuridica non è più costretta a porre il lavoro produttivo come fonte materiale di produzione normativa. Diviene conseguente che la politica non implica più la mediazione del conflitto sociale, ma consiste, semplicemente, nel tentativo di evitarlo. Ma a questo punto è lecito porre un interrogativo: qual è il ruolo del sindacato? La realtà fattuale fa registrare il caos e, nel contempo, il collateralismo verso il sistema delle imprese. Da un excursus storico si evince che dalla svolta dell’Eur passando per la sconfitta della Fiat e per quella della scala mobile, per giungere poi alla concentrazione degli anni 90, il ruolo della CGIL si è ridotto ad una gestione difensiva e “flessibile”. Considerato il collateralismo della CGIL verso le imprese e verso le istituzioni di governo, non può destare stupore che lo stato sociale sia ridotto a brandelli. È evidente che mentre nella prima metà del XX secolo, i sindacati hanno costituito un punto incisivo di mediazione fra lavoro e capitale, fra società e Stato, successivamente la dialettica fra Stato e sindacato, così come i meccanismi di contrattazione collettiva, si sono gradualmente estinti. Per quanto concerne i paratiti si registra una crisi profonda, determinata dal feticismo dello sviluppo, dall’antipolitica, dalla pregiudiziale anticomunista. Lucidamente Mauro Calice sostiene: “I partiti stanno diventando macchine personali al servizio di questo o quel leader politico”. Da qui i narcisismi, le rappresentazioni sceniche, le performance da attori di un teatrino dell’assurdo. È ovvio che, con il trionfo della teologia laica del capitale, gli operai avvertono un senso profondo di solitudine e una legittima sfiducia nei confronti di chi li dovrebbe rappresentare, ossia “sinistra” post-fordista e sindacato. È auspicabile, pertanto, che lo sciopero dei metalmeccanici del 18 maggio rappresenti una svolta significativa, sul piano politico e sociale. Se il segnale è positivo, occorre, però. Rilevare che il grande capitale finanziario gioca su uno scacchiere mondiale e che è come il demiurgo che unifica e plasma il pianeta, sub specie pecunie. Non senza ragione Vilpredo Pareto, riferendosi agli imprenditori, li definiva:”Gli scoiattoli nella ruota”. Ciò significa che tutti i prelievi sulla situazione esistente non possono prescindere dai parametri del capitalismo avanzato, che inscrive nel suo codice proprietario: la ristrutturazione della composizione di classe; la ripresa dei profitti d’impresa; i tagli alle spese sociali; la finanziarizzazione dell’economia; le retoriche dell’esclusione; il globalismo giuridico; la polizia globale; la disoccupazione e il lavoro coatto. In questo scenario, imperativi sistemici e la pregiudiziale anticomunista creano le basi per gli approcci neoliberisti dei diessini e di tutto l’arco istituzionale. Ciò comporta salari da fame, ritmi di tempo di lavoro dilatati, luoghi di lavoro in cui la morte viene recepita come un banale incidente di percorso. In realtà, dopo il “rivoluzionario” 89 e dopo la svolta della Bolognina, non solo la sinistra non è stata in grado di produrre un’alternativa strategica, ma è stata anche particolarmente attiva per facilitare una sorta di restaurazione, sicché il regime di Arcore rappresenta solo la punta dell’iceberg di un lungo processo. La vittoria di Berlusconi è inscritta nell’esproprio dello stato di diritto, nella devianza generalizzata, nei paradigmi dei burocrati del capitale. Ciò significa che il successo di “Forza Italia” non si può ridurre alla massiccia manipolazione dell’opinione pubblica, perché è connesso ad una serie di cause e concause endogene ed esogene. Negando la naturalizzazione dei processi in atto e il provincialismo, malattia endemica del nostro Paese, occorre rilevare che l’ideologia prêt-a-porter del globalismo, non disdegna la presenza di personaggi osceni, basti pensare ad Haider. La verità è che gli dei di un Olimpo finanziario gigantesco, seguendo il copione di tutti gli imperi, hanno bisogno di proconsoli, generali e luogotenenti. Fatte queste considerazioni, vorrei focalizzare l’attenzione sulle elezioni, ed in modo particolare sul voto. In realtà per i “dinosauri”, ossia per coloro che continuano a credere nei valori del comunismo, il voto è stato un autentico rompicapo. I Ds annegati nel mare torbido del neoliberismo e nella pratica politica delle convergenze, i programmi quasi omologhi dei due schieramenti, il deficit di politica, hanno ingenerato profondo disagio commisto ad una legittima indignazione. In un contesto siffatto, le “alternative” sono state: astensione o Rifondazione. Ne consegue che il voto non è stato l’espressione di una scelta, infatti, non è stato un voto – per, ma un voto – contro. Se, per molti aspetti, Rifondazione poteva costituire un’alternativa valida, è altresì vero che, per via di un iter politico tortuoso e non scevro da contraddizioni, non garantiva “le idee chiare e distinte”, di cartesiana memoria. D’altra parte, ciò è anche suffragato dalla campagna elettorale e dalla ricerca spasmodica per gli “apparentamenti”. Purtroppo a R.C. sfugge che i miasmi del potere istituito sono come la lava che prorompe da un vulcano e che tutto riduce a magma informe. Ciò significa che sperare in una svolta dei Ds risulta pura velleità, dal momento che la linea “antipolitica dei post-comunisti si connota per una marcata valenza aritmetica, ovvero si riduce a calcolo, a spartizione dei poteri e a personalismi. Sicché gli appelli d’intesa di Bertinotti assumono il sapore di missioni impossibili. Basti pensare che proprio il governo di centro-sinistra ha mobilitato i militari per il controvertice di Genova, suscitando la legittima indignazione di tutti i movimenti sociali. Pertanto, per chi non crede che la barbarie post-moderna si debba eternizzare, s’impone l’imperativo categorico di elaborare un progetto di società altra, checché ne pensi Moretti, che attaccando Bertinotti , ha dimostrato che anche lui, come D’Alema, “non dice più nulla di sinistra”. Ne consegue che, se R.C. intende essere un punto di riferimento per i movimenti antisistemici, deve adottare una pratica politica alternativa, per quanto concerne i comportamenti , le strategie, la cultura. D’altro canto, l’esaurimento della politica non è caratteristica peculiare del nostro Paese, ma è strettamente collegato ai paradigmi del mosaico globale. Per comprendere l’aporia drammatica in cui versa lo spazio della politica, occorre decodificare le cifre distintive del nuovo modello economico, che priva la politica di potere, relegandola al ruolo di ancilla aeconomiae. A questo proposito Z. Barman ha osservato: “L’avvicendarsi  dei governi, persino degli schieramenti politici, non è un fattore decisivo; al massimo è un’increspatura sulla superficie di un fiume che scorre ininterrottamente, uniformemente, inesorabilmente nella propria direzione, spinto dalla propria forza propulsiva”. D’altronde, il post-moderno ha sancito una sorta di nuovo trattato di Vestfalia, riscrivendo le regole del gioco e imponendo parametri globali agli Stati , alle regioni, alle città. Ralph Nader, incentrando l’attenzione sul WTO, sul Nafta e su altri accordi internazionali, sostiene che “l’approvazione di questi accordi istituzionalizza una struttura economica e politica che consegna sempre più i singoli governi nelle mani di un sistema finanziario e commerciale globale, perpetrato per mezzo di un governo internazionale autocratico che favorisce gli interessi delle imprese globali. Nader osserva ancora che siamo di fronte a un tragico allettamento, nel quale i vincenti e i perdenti sono già noti: i perdenti sono i lavoratori, i consumatori e le comunità di tutto il mondo, mentre trionfa il grande capitale nella usa corsa verso i profitti. In questo contesto, al di là della patetica fanfara militare allestita per la festa della Repubblica, giova sottolineare che l’Italia non è sicuramente l’ombelico del mondo, ma solo uno staterello, che è passato dal ruolo di semiprotettorato degli Usa a colonia della triade globale: Fmi; Bm; WTO. Quest’ultimo, con la sua spinta “all’armonizzazione”, introduce standard mondiali uniformi, che consentono alle ditte di produrre merci e servizi per un unico mercato globale. È evidente che l’armonizzazione si basa sulla premessa che il mondo è solo un gigantesco mercato, che nega le culture, i valori, la biodiversità. Forse, contro l’imbarbarimento delle tecniche repressive, come vuole E. Morin, con Seattle “è nato un nuovo umanesimo planetario”. Indubbiamente, con Seattle la potenza della “moltitudine” ha generato un nuovo progetto di cittadinanza planetaria, contro la costitutiva amoralità del mercato universale. Non senza ragione Brecher e Costello esaltano “la strategia lillipuziana”, infatti sostengono che contro le strategie delle imprese globali sono necessarie “forti organizzazioni di base locali, inserite in una rete di aiuto reciproco e di alleanze con movimenti di tutto il mondo”. È evidente che contro la progressiva “privatizzazione” dello spazio pubblico, contro la militarizzazione del territorio,contro le riforme di neofascismo, che incrementano il dilagare di podestà, di leader e ducetti, occorre, attraverso la militanza del comune, esprimere un soggetto biopolitico, che abbia un telos comune e che rappresenti la costruzione di un orizzonte a venire. Un nuovo “Manifesto”, dunque, che trae ancora una volta la linfa vitale dal messaggio marxiano: “proletari di tutto il mondo unitevi”.

 

                                                                                                                        Wanda Piccinonno