Dalla parte  della cattedra: testimonianza di un disagio diffuso.

Analisi e proposte sulla base di studi specifici di medici milanesi e torinesi

di Marcella Valentini

Si è parlato e scritto a lungo del disagio degli adolescenti a scuola, delle loro difficoltà ad accettarsi e a confrontarsi con le richieste degli adulti, specie se queste si scontrano con una valutazione, quella dell’insegnante, spesso lontana dai parametri troppo soggettivi dell’alunno e considerata, spesso a torto, come una valutazione dell’intera personalità dello studente e non dell’oggettività della prova.

Non si parla invece mai di un fenomeno sommerso, ma di vasta portata, che è il disagio psichico degli insegnanti, alle prese quotidianamente con una bassa retribuzione e la scarsa considerazione del loro ruolo sociale. Basta solo riflettere sul fatto che anche nella scuola superiore (dove occorre una laurea ed il superamento di concorsi a cattedra) si trovano ormai quasi tutte donne, notoriamente sottostimate dal punto di vista professionale. L’uomo laureato, se può, sceglie un mestiere più gratificante dal punto di vista economico; oppure affianca al lavoro di docente quello professionale, fino all’abbandono del primo con un minimo di contributi. Del resto la disaffezione verso il mestiere del docente è cosa nota: nessun ragazzo liceale, specie in una grande città, aspira a diventare insegnante di scuola media inferiore e superiore. Considera la docente in cattedra una madre o una zia (le docenti alle superiori sono, in maggioranza, quarantenni e cinquantenni) con la quale adottare gli stessi meccanismi di difesa e di attacco per ottenere voti sufficienti da usare come merce di scambio con i propri distratti genitori (una moto, una vacanza, un telefonino nuovo, ecc.). Inoltre sa già, grazie alle ipocrite leggi dell’amministrazione, di passare, sia pure con “debiti” mai saldati in numerose discipline, da una classe all’altra, fino alla farsa dell’esame di stato, con i soli docenti interni. Questi hanno il frustrante compito di sfornare diplomati ignoranti in alcune materie e soprattutto non addestrati a superare gli inevitabili ostacoli che la vita presenta, consapevoli delle proprie abilità , ma anche dei propri limiti. Se poi, per caso, qualche consiglio di classe, divenuto pomposamente, alla fine del corso di studi, commissione esaminatrice, decidesse di bocciare qualche alunno ignorante e maleducato, ci pensano prima i presidi, durante gli scrutini finali, e infine il presidente delle varie commissioni (unico per tutta la scuola, in nome del risparmio) a consigliarti in tutti i modi di non bocciare perché arriveranno sicuramente i ricorsi dei genitori (“mio figlio non è scemo”) e bisognerà tornare ad agosto, alla presenza di un funzionario incattivito, per riaprire il pacco, sigillato ancora con timbro a fuoco e ceralacca, e riguardare tutta la documentazione alla ricerca di un appiglio burocratico per risolvere in modo indolore la questione.

Così il docente responsabile, quello che non ha ancora capito quale oggi sia il suo ruolo, se di insegnante o di promotore di “progetti” ( termine che propone tutto ed il contrario di tutto) si barcamena tra la frustrazione per un lavoro faticoso(di fronte a classi sempre più numerose di adolescenti maleducati, chiassosi o silenziosi e indifferenti, genitori pieni di pregiudizi o in malafede, presidi sempre più burocrati, colleghi apatici o pronti alla strumentalizzazione politica del loro ruolo) e la rabbia per l’aumentato e inutile carico di lavoro a costo zero (test di ingresso, di accoglienza, tests di simulazione della terza prova, tests di verifica del debito, corsi di recupero, di sostegno, indicazioni per i percorsi pluridisciplinari, piani di lavoro, programmi svolti ecc.). Nel frattempo l’opinione pubblica gli sbatte in faccia, quando va al supermercato o dal benzinaio,“di che ti lamenti? lavori solo mezza giornata, di mattina, ed hai tre mesi di ferie”

E il prof. va in tilt, assumendo psicofarmaci o mettendosi in malattia, con gravi costi per l’intera società, che ancora non si rende conto della diffusione e gravità del fenomeno.

Recentemente si è occupato di questo problema l’Espresso del 9 ottobre 2003, con un articolo di Fiamma Tinelli, la quale, a sua volta, si rifà ad una seria ricerca della Fondazione Iard, di cui è vicepresidente Giorgio Basaglia.

Un gruppo di ricercatori di Torino e di Milano, prevalentemente medici legati alle Casse Pensioni INPDAP o all’Istituto di Medicina Legale, ha condotto un’inchiesta interessante e corposa sul Burnout degli insegnanti in Italia, da cui risulta che i docenti italiani sono soli di fronte alle numerose e sempre nuove difficoltà e invece di aiutarsi, spesso sono in conflitto tra loro, come i polli di Renzo.

 

Nella ricerca “Quale correlazione tra patologia psichiatrica e fenomeno del burnoutnegli insegnanti?”si affronta l’argomento sotto il titolo Lo studio Getsemani. Si nota come i disturbi dell’umore, dell’adattamento e di ansia siano la punta dell’iceberg di una più diffusa situazione di disagio psichico sempre più collegato alla categoria degli insegnanti. Il  primo medico firmatario della ricerca, disponibile ad accogliere altri dati ed informazioni anche  via internet  scrive:(Domicilio e recapito del primo firmatario Vittorio Lodolo D’Oria Via dei Chiaramonti 19

20148 Milano tel/fax 02-36509253 cell: 335 7749493 e-mail: vittorio.lodolodoria@fastwebnet.it)

 

Lo studio Getsemani, partendo dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, svolta dai Collegi Medici della ASL Città di Milano nel periodo che va dal gennaio 1992 al dicembre 2001 per un totale di 3.049 casi clinici, ha operato un confronto tra quattro macrocategorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario, operatori). In controtendenza con gli stereotipi diffusi nell’opinione pubblica, i risultati dimostrano che la categoria degli insegnanti è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori. Pur non essendo a tutt’oggi contemplata nel DSM-IV (classificazione internazionale delle patologie psichiatriche) è verosimile ritenere che la sindrome del burnout, quando trascurata, possa costituire la fase prodromica della patologia psichiatrica franca. Lo studio Getsemani approfondisce inoltre cause, fattori predisponenti, reazioni di adattamento individuale, aspetti sociali, ipotesi d’intervento nella classe docente, stratificata per livello d’insegnamento (scuola materna, elementare, media, superiore). Viene rilevata la necessità di ulteriori approfondimenti epidemiologici, affiancati da contestuali interventi operativi volti a contrastare tempestivamente la sindrome del burnout negli insegnanti. Si ritiene necessaria l’apertura di un dibattito che coinvolga istituzioni, parti sociali, amministrazioni scolastiche, associazioni di categoria, studenti, famiglie e comunità medico-scientifica, in ragione della portata e della multidimensionalità del problema che interessa gli ambiti sanitario, sociale, culturale, economico e istituzionale.

I medici di Milano e di Torino riprendono la definizione di Maslach del 1982, burnout, per indicare sia gli stati d’animo come ansia, attacchi di panico, agitazione, ridotta autostima che le somatizzazioni, quali emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, e le reazioni comportamentali, quali assenze frequenti, chiusura al dialogo, distacco emotivo dall’interlocutore, comportamenti stereotipati.  Un numero rilevante di insegnanti, secondo tali ricerche, sono, per ragioni professionali, soggetti a più condizioni stressogene, particolarmente intense e protratte nel tempo, arrivando al classico burnout

L’analisi mette in evidenza che il problema del disagio degli insegnanti è stato studiato nella società occidentale da circa vent’anni ma che non si è mai voluto parlare di una vera propria possibile malattia psichiatrica (DSM-IV), da prevenire e curare a livello medico, per vari motivi, tra cui, il più importante è quello della “paura di dover ammettere l’esistenza di una piaga dalle gigantesche proporzioni, sia per il numero di individui a rischio (nel solo settore dell’istruzione il rapporto insegnanti/abitanti in un paese avanzato oscilla tra 1/50 e 1/70), sia per l’impatto sociale che questa ”ammissione” comporterebbe sui giovani, sulle loro famiglie e sull’opinione pubblica”.

A ciò si aggiunga che manca completamente un’analisi seria da parte dei sindacati di categoria che non si preoccupano dell’integrità fisica dei lavoratori, in base al ruolo di loro competenza.

 

Sono state quindi analizzate le pratiche relative agli accertamenti sanitari per inabilità al lavoro comprendenti 484 soggetti (340 donne, 144 uomini; età 48,7 ± 0,34 anni, estremi 25-68 anni), provenienti dalla popolazione di 86.985 impiegati statali iscritti alle Casse Pensioni INPDAP (Istituto Nazionale Pensioni Dipendenti Amministrazione Pubblica) del comune di Milano nel periodo 1/99 – 12/01, di cui 13.069 insegnanti e 73.916 impiegati provenienti da altre categorie professionali (fonte sede provinciale INPDAP del Comune di Milano). Appare immediatamente evidente che i disturbi dell’adattamento, d’ansia e dell’umore sono nettamente superiori tra gli insegnanti che non tra gli altri impiegati. Inoltre la maggior parte delle richieste per cause psichiatriche da parte degli insegnanti è stata riconosciuta valida dal Collegio Medico giudicante(75,1%) e, nel confronto con altre categorie, si è visto che gli insegnanti presentano  un rischio di patologia psichiatrica doppio rispetto a quello presente nel complesso dei dipendenti pubblici facenti capo all’INPDAP. Anche lo studio da parte di medici della ASL di Torino ha prodotto simili risultati e percentuali elevate di  burnout riscontrato nei docenti esaminati.

La situazione rilevata dallo studio Getsemani, in decisa controtendenza rispetto ai luoghi comuni sugli insegnanti, assai diffusi tra l’opinione pubblica (lavorano solo mezza giornata, dispongono di lunghissimi periodi di vacanza e si lamentano senza motivo), nonchè ai dati proposti nel 2001 dalla Commissione Europea Occupazione e Affari Sociali (la professione docente è quella a minor rischio di stress), vede la categoria dei docenti particolarmente esposta al rischio di sviluppare patologie psichiatriche, nonostante il CCNL, a scopo cautelativo, preveda nell’ambito dell’orario di lavoro “un massimo di 18 ore settimanali d’insegnamento per la scuola secondaria, 22 per quella elementare, 25 per quella materna, tutte comunque distribuite in non meno di cinque giornate settimanali”.

Ai fattori usuranti intrinseci dell’insegnamento, si aggiungono quelli socio-culturali: l’avvento di una società multiculturale e multietnica, la delega dei genitori-lavoratori per l’educazione dei figli, l’inserimento dei portatori di handicap nelle classi, la maggior intransigenza dell’utenza, la maleducazione di alcuni studenti, l’introduzione della valutazione dei docenti da parte di genitori e studenti, la diminuzione delle risorse istituzionali, la svalutazione sociale del lavoro in se stesso a favore del successo e del guadagno economico (notoriamente bassi per gli insegnanti), l’abolizione delle cosiddette baby-pensioni, l’avvento dell’era informatica, la gestione manageriale del lavoro, il passaggio dall’insegnamento individuale a quello in équipe, la protratta situazione di precariato, la competitività tra colleghi, la mobilità, le continue riforme scolastiche (annunciate o realizzate).

Di fronte a questo scenario il supporto dato ai docenti è praticamente immutato negli anni, se si escludono i rari corsi di aggiornamento professionale e talune situazioni in ambienti protetti. Ma se una volta era possibile ritirarsi precocemente dal servizio, oggi l’unica via di fuga dalla sindrome del burnout risiede nel trattamento di inabilità per motivi di salute. Ma questo non accade per vari motivi: dalla vergogna, e sensi di colpa, nel dichiarare il proprio disagio al necessario controllo del Collegio Medico competente.

Lo studio Getsemani  permette anche di considerare la differenza tra il lavoro dell’insegnante e quello del professore universitario: che il numero di ore d’insegnamento (docenza frontale propriamente detta) possa essere tra i maggiori imputati del logoramento psicofisico del docente, è ipotizzabile anche partendo dalla considerazione che, nella casistica esaminata, sono pressoché assenti professori universitari affetti da patologie psichiatriche (si osserva un solo caso relativo a un ricercatore universitario), pur riconoscendo che l’INPDAP rappresenta la loro cassa pensioni solo a far capo dall’1.1.96. E’ infatti noto il basso numero di ore d’insegnamento al quale gli stessi sono tenuti a fronte del tempo da dedicare a ricerca, studio e attività collaterali all’insegnamento. Ma in stretta relazione col tempo trascorso a insegnare è indispensabile prendere in considerazione anche la qualità dello stesso. Infatti lo stesso numero di ore di lezione pesa sul docente in modo differente, a seconda dell’interesse/attenzione suscitati nel discente. Necessita dunque uno studio apposito per verificare la correlazione causale tra ore d’insegnamento, loro qualità e sindrome del burnout. Va infine ricordato che il livello culturale e la condizione socio-economica dei giovani che si iscrivono all’università tende a far calare drasticamente quei fenomeni di misbehaviour tipici dell’età nella scuola dell’obbligo.

Sul fattore qualità incide certamente la carente preparazione socio-psico-pedagogica degli insegnanti a inizio carriera. Soprattutto i docenti delle scuole secondarie, che si trovano ad affrontare studenti in età evolutiva, ricordano la situazione del famoso romanzo di Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale) dove ragazzi inesperti, armati di soli entusiasmo e uniforme, sono mandati a combattere al fronte finendo inevitabilmente per soccombere. Paradossale, ma significativa, inoltre la situazione verificatasi in alcuni istituti dove la direzione scolastica, nell’ambito dei progetti di lotta alla dispersione scolastica e successo formativo, si è avvalsa di una consulenza in psicopedagogia clinica e counselling, a supporto di studenti e famiglie in difficoltà, constatando altresì un prevalente e inaspettato ricorso al servizio da parte del corpo docente. L’esperienza insegna che tra gli interventi prospettabili potrebbe dunque essere ipotizzata anche l’istituzionalizzazione di tale intervento.

 

E’ chiaro che il problema è di vasta portata e coinvolge l’intera società, se si considera che nella sola Italia:

·        quasi un milione d’insegnanti (833.049 per la sola scuola pubblica – dati Ministero Istruzione per l’Anno Scolastico 2001/02)sono ad alto rischio professionale di sviluppare una patologia psichiatrica rispetto ad altre categorie di lavoratori;

·        più di otto milioni di studenti (7.607.977 nella sola scuola pubblica – dati Ministero Istruzione per l’Anno Scolastico 2001/02) con le rispettive famiglie sono a rischio di fruire di un servizio inefficiente per assenze e demotivazione del personale docente;

·        le istituzioni possono trovarsi ad affrontare le conseguenze socio-economiche date da un sistema scolastico inefficiente (per la demotivazione e l’assenteismo della classe docente), un aumento dei costi (per supplenze, giorni di malattia da retribuire, pensioni d’inabilità, equo indennizzo, assistenza sanitaria), risultati educativi e culturali insoddisfacenti;

Come  prevenire e curare il burnout dei docenti?

 I medici di Milano suggeriscono,  al docente di:

 

  • diminuire la componente onirico-idealista rispetto al proprio lavoro, ridimensionando le proprie aspettative e riconducendole a un piano più attinente alla realtà (passaggio necessario considerato il rapporto IARD 2000 sugli insegnanti che afferma : …appare esserci una discrasia forte fra ciò che gli insegnanti ritengono di essere rispetto a come considerano di essere percepiti…);
  • evidenziare gli aspetti positivi del lavoro e non concentrarsi solo su quelli negativi;
  • coltivare interessi al di fuori dal lavoro per distrarsi e non focalizzare l’attenzione esclusivamente sui problemi professionali;
  • lavorare in compagnia di altre persone per non sentirsi soli e condividere lo stress.
  • organizzazione di workshop che favoriscano l’apprendimento di nuove tecniche d’insegnamento, affrontino casi reali e simulati nel gestire una classe, insegnino a costituire e avvalersi di gruppi di auto-aiuto per condividere esperienze e stress;
  • organizzazione di corsi per l’apprendimento della gestione manageriale di una classe, tecniche di comunicazione interna e di problem-solving, coinvolgimento degli insegnanti nel processo di decision-making, attivazione di servizi di counselling;

 

all’aministrazione scolastica di :

·        somministrare test psicoattitudinali prima dell’immissione in ruolo (quindi non a scopo selettivo ma col fine di supportare le personalità definite come type A behaviour -descritte nell’introduzione- durante la loro carriera), al sostegno sistematico da parte di équipe psicologiche per tutta la durata dell’anno scolastico. Possono essere quindi attivati gruppi di auto-aiuto, che sotto apposita guida, agendo sulle tecniche di condivisione dei problemi, riducano i livelli di stress individuale predisponendo inoltre i partecipanti a favorire il reinserimento di colleghi alle prese con analoghe difficoltà.

·        fornire un supporto nei settori della metodologia didattica, della psicopedagogia, delle competenze relazionali della comunicazione. Segue infine a buona distanza la percezione di necessità di formazione sull’information technology nonostante ne sia acclarato il bisogno (ricerca de “La Fabbrica” pubblicata sul Sole 24 Ore Scuola n. 7/02). Il sostegno mediante corsi su metodologia didattica e psicopedagogia, fornito al docente fin dall’inizio della sua carriera, può supplire all’inesperienza del neofito fornendogli altresì gli strumenti necessari a conquistare l’autorevolezza indispensabile alla crescita di una classe, senza dover ricorrere all’uso di sanzioni disciplinari (che ricordiamo essere state tra l’altro limitate – troppo, secondo molti insegnanti – e burocratizzate nel corso degli anni).

Non vi potranno dunque essere efficaci riforme scolastiche se non si metterà mano nell’immediato alle strategie sulla formazione del personale docente, all’inizio e per tutta la durata del servizio, tenendo conto dell’alto turnover (30-35.000 insegnanti vanno in pensione ogni anno secondo recenti stime ministeriali).

Competerà infine alle parti sociali, dopo aver concorso a rispondere ai numerosi quesiti sollevati, rivisitare argomenti riguardanti il contratto, affrontando non solamente la variabile economica (oggi indubbiamente preponderante rispetto alla questione della tutela della salute) ma anche il numero/qualità delle ore di docenza e soprattutto l’assistenza sanitaria specifica per la categoria, sia in fase di prevenzione che di intervento terapeutico.

 

 Infine, nel campo del settore sanitario, i Medici ritengono utile istituire, con apposito atto normativo, un’équipe psicologica di supporto per il corpo docente delle scuole. In ogni scuola dovrebbe infatti essere previsto uno psicologo e/o psichiatra consulente che, attraverso incontri di supervisione o di discussione di gruppo, potrebbe fare in modo che il gruppo stesso, sviluppando le proprie risorse interne, riuscisse a contenere i conflitti interpersonali sia all’ interno con gli allievi, sia all’  esterno con colleghi, dirigenti ecc. per dare una risposta valida al rischio dello stress e del burn-out. L’esperto esterno non deve però essere lasciato solo in una stanza ad aspettare che gli insegnanti (come pure gli allievi) vengano a raccontargli i propri problemi.    I gruppi di confronto, di terapia e di auto-aiuto (come ogni altra iniziativa volta a tal scopo) devono diventare parte integrante delle attività e della vita professionale di tutto il corpo docente.    Così l’ “esperto” cessa di essere un altro di quelli che sanno rispetto a coloro che non sanno, ma diventa un agevolatore della comunicazione di chi cerca dentro di sé, confrontandosi con altri che fanno altrettanto, la forza per crescere, senza aspettarsi che qualcuno lo prenda per mano e, guidandolo, diventi il suo padrone (21).

 Qualora il legislatore non dovesse dare seguito a questa iniziativa, è bene ricordare che le Regioni stesse, dacché è stato modificato il Titolo V della Costituzione, possono intervenire in materia di sanità in quanto oramai considerata materia concorrente e non più esclusiva dello Stato. A questo proposito giova richiamare il recente documento siglato dalla conferenza delle Regioni che ribadiscono “…la loro esclusiva competenza in tema di salute mentale” (Documenti della Conferenza dei Presidenti delle Regioni del 18.01.02 e 28.02.02).

 

 

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