PRIMA DI PARLARE DI DESTINAZIONE DEL TFR…

DI ANGELA BONORA

Prima di parlare di destinazione del TFR, bisognerebbe fare chiarezza perché si richiede una trasformazione nel sistema pensionistico italiano e i vari passi che sono stati fatti per arrivare a questa ultima decisione che viene chiesta ai lavoratori.

 

Fine rapporto lavorativo e pensione!

Ma non è sempre stato così, basta leggere le cronache sulle strade del XIX secolo per rendersi conto che fine attività lavorativa non voleva dire: riposo, pensione assicurata, assistenza sociale. Le città, specialmente quelle industrializzate avevano strade ricolme di pezzenti che allungavano la mano per avere un pezzo di pane, ma non erano individui che non  avevano lavorato o risparmiato, no erano arrivati alla fine delle loro possibilità lavorative o per età avanzata o per invalidità e non avevano alcun supporto per continuare a mangiare, a vivere se non quello di appoggiarsi all’amore dei figli, parenti più giovani, se ne avevano, oppure mendicare. Tanti viaggiatori stranieri nelle loro cronache di viaggio sull’Italia hanno scritto di “questo scempio nelle strade, di questa vergogna di mendicità evidente”. Bologna erano una delle città in cui il fenomeno era più evidente in quanto molti operai, uomini,donne, bambini lavoravano nei mulini ad acqua delle industrie della seta, a bagno con le estremità per la maggior parte della loro vita lavorativa, che per lo più finiva con invalidità permanente e senza nessun supporto sociale.

I tanti odiati contributi che sino ad ora un lavoratore ha versato, o meglio gli sono stati trattenuti, servano per dargli la possibilità di avere nel futuro un reddito pensionistico in linea con il reddito da lavoro precedentemente svolto sia che, arrivato in età avanzata decida o venga posto a riposo, sia che gli accada sul lavoro un incidente che non gli possa più permettere un’attività lavorativa o addirittura la morte che non permetta al lavoratore di dare sostentamento a coloro che da lui e dal suo lavoro dipendevano per sopravvivere.

L’esigenza di coprire una pluralità di rischi quali l’infortunio,  l’invalidità permanente e temporanea, la mortalità successiva all’invalidità, la morbilità, la vecchiaia, la disoccupazione involontaria hanno fatto sorgere le assicurazioni sociali , che vennero poi regolamentate dallo Stato, con caratteristica di obbligatorietà, con fini mutualistici e di ripartizione del reddito. Il contributo che sinora il lavoratore è stato chiamato a versare non riesce a coprire tutti i rischi sopra elencati nel caso il lavoratore ponesse in essere una assicurazione privata con tali versamenti. Parte dei contributi per far fronte ai rischi futuri sono stati pagati  in parte dai lavoratori, in parte dai datori di lavoro ( come retribuzione dilazionata) la restante parte dallo Stato (come gestore del rischio sociale del cittadino).

Nella determinazione del valore da versare dalle varie parti e comunque il valore del contributo complessivo, o meglio dell’aliquota da versare per costituire questo fondo “mutualistico” debbono essere prese in considerazioni diverse variabili e tra le più importanti la ipotesi demografia, quanto vivrà ancora il contribuente?, l’ipotesi di danno previsto, in quali lavori si è più soggetti a danni fisici che rendono invalidi?, quanto tempo sopravviverà il pensionato?  a quali malattie il lavoratore o il pensionato sarà soggetto? qual è la numerosità degli individui che dipendono dal lavoratore e successivamente dal pensionato ? a quanti di essi sarà riconosciuta la reversibilità del reddito pensionistico alla morte del pensionato?…

L’ingerenza dello Stato nella determinazione del l’aliquota di contributo e nella gestione dei capitali raccolti periodicamente è dovuta principalmente al fatto che oltre ad non avere la possibilità di risparmiare sufficienti denari per far fronte personalmente ai rischi sopra descritti è generalmente proprio il lavoratore a reddito più basso che è più esposto a tali rischi, inoltre non è detto che il lavoratore meno esposto e con reddito maggiore abbia spirito di previdenza ed accantoni capitali. E da qui sorge la obbligatorietà del contributo. Inoltre essendo l’assicurazione sociale sulla totalità dei lavoratori non può essere conteggiato un contributo separato per ogni lavoratore, deve essere conteggiato un contributo medio, che dia luogo ad un’aliquota media. E a questo  punto abbiamo anche la redistribuzione del reddito dalle fasce è più agiate a favore delle fasce  di lavoratori meno agiati.

 

Quando è iniziato questo sistema di mutualità in Italia?

Riportiamo un po’ di storia:

“Nel 1898 viene costituita la prima forma di previdenza  sociale con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia degli operai. E’ un'assicurazione volontaria formalizzata dagli operai stessi, ha la caratteristica della mutualità e  tale Cassa viene integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e da  un contributo anch'esso libero degli imprenditori.

Solo nel 1919 l'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori: il sistema prevede la protezione del lavoratore da tutti gli eventi che possono intaccarne il reddito individuale e familiare.

Dal 1933 la Cassa  Nazionale diventa ente di diritto pubblico e gestione autonoma assumendo la denominazione di Istituto Nazionale della Previdenza Sociale

Nel 1939 sono istituite le prestazioni sono implementate e si attivano previdenze contro la disoccupazione involontaria, la tubercolosi e per i carichi familiari. Sono contemplate inoltre le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto, viene istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti del lavoratore e del pensionato.

Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene ridotto a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.

Dal 1952 viene introdotta la legge che riordina la materia previdenziale: nasce il trattamento minimo di pensione,

vengono costituite tre distinte Casse, per i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, per gli artigiani e

per i commercianti.

 

Il sistema pensionistico iniziale era stato costruito sulla capitalizzazione dei contributi versati dai lavoratori stessi sulla base del proprio reddito e per i lavoratori da parte dei datori di lavoro come retribuzione vincolata e posticipata e da parte dello Stato sociale quale integrazione. Portava a versamenti da parte dell’INPS calcolati sulla base dei contributi versati in nome del lavoratore e alla capitalizzazione degli stessi essendo i versamenti investiti in titoli statali e in beni immobiliari a reddito certo.  L’inflazione, la perdita di valore degli investimenti costrinse l’Istituto ad attuare una trasformazione del sistema che si tramutò da metodo di capitalizzazione contributiva a metodo di ripartizione. Secondo questo diverso sistema l’ammontare dei contributi versati dai lavoratori attivi durante l’anno doveva servire a coprire gli oneri costituiti dalle prestazioni previste nell’anno stesso per la popolazione non più attiva, pensionati diretti ed indiretti. Il secondo metodo risultava più snello e di più facile adattamento in periodi di inflazione monetaria, ma anche con molti inconvenienti di lungo periodo dovuti all’aumento della vita media e al decremento della natalità.

Viene inoltre riconosciuto ai cittadini bisognosi che hanno compiuto 65 anni di età una pensione che soddisfi i primi bisogni vitali (pensione sociale) Vengono predisposte misure straordinarie di tutela dei lavoratori (Cassa integrazione guadagni straordinaria e pensionamenti anticipati) e per la produzione (contribuzioni ridotte e esoneri contributivi).

Nel 1980 viene istituito il Sistema Sanitario Nazionale e la riscossione dei contributi di malattia e il pagamento delle relative indennità, compiti assolti in precedenza da altri enti, vengono affidati all'INPS.

 

Nel 1990 viene attuata la riforma del sistema pensionistico dei lavoratori autonomi.
La nuova normativa lega il calcolo della prestazione al reddito annuo di impresa, ciò porta a notevoli distorsioni in quanto i versamenti contributivi sono commisurati alla dichiarazione del reddito (sempre al disotto del minimo vivibile) ed assicurano una pensione superiore a quella sociale e a quelle di invalidità, che tanti di quegli autonomi ricevono già per “infortuni” sul lavoro.


La trasformazione della popolazione dal punto di vista  di “età media di sopravvivenza“ porta ad elevare nel 1992 l’età minima pensionistica di vecchiaia a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne.

Sulla falsariga dei sistemi pensionistici degli altri paesi si cerca di configurare un sistema che affianchi la tutela sociale pubblica con forme pensionistiche a capitalizzazione di tipo privatistico, e allo stesso tempo viene emanata la legge di riforma del sistema pensionistico che si basa su principi

fondamentali:

- pensionamento flessibile in un'età compresa tra i 57 e 65 anni sia per gli uomini che per le donne;

- sistema di prestazioni  per il quale le pensioni sono calcolate sulla base degli anni contributivi del lavoratore, e sugli effettivi contributi versati

Sul modello di molti altri paesi europei, Svizzera, Paesi Scandinavi, Inghilterra,...,che hanno già affrontato la questione e in parte risolta, si  ipotizza per l’Italia il nuovo sistema detto "a tre pilastri" che comporta:

-         una prestazione fissa, minima vitale, erogata dal sistema previdenziale a tutti i componenti la popolazione passiva, prestazione derivante da contributi gestiti con il sistema a ripartizione

-         una prestazione integrativa della precedente e fino a concorrenza  di un tetto base della retribuzione ultima. Tale prestazione deriva da un fondo aziendale o di categoria o aperto, appositamente costituito e funzionante con il sistema a capitalizzazione e gestito dalle parti contribuenti e garantito da organi di gestione finanziaria, banche, assicurazioni, Ministero del Lavoro e dell’Economa. Le due prestazioni così erogate sono obbligatorie sia come pagamento dei contributi relativi che come riscossione delle somme erogabili

-         una prestazione ulteriore atta a colmare il divario tra il tetto precedentemente raggiunto e la retribuzione ultima del lavoratore; detta prestazione deriverebbe dalla formazione di fondi assicurativi o finanziari posti in essere individualmente e volontariamente dal lavoratore.

 

A garanzia dei lavoratori vengono fissati per legge i limiti e i criteri di gestione dei fondi sia a livello di investimenti (diversificati per limitare il rischio), contenimento dei costi e massimizzazione dei rendimenti netti. I fondi debbono avere capitali nettamente distinti da quelli dell’azienda che magari l’ha promosso.

La normativa ha previsto per i fondi pensione specifici vantaggi fiscali sia a livello delle contribuzioni, che sono deducibili dal reddito imponibile, che al momento della fruizione delle prestazioni, per le quali le imposte sui rendimenti ottenuti dal reddito cumulato fruiscono di aliquote fiscali di entità limitata.

e .....

Per le  Forme Pensionistiche Individuali (terzo pilastro) il Decreto legislativo numero 47 del 18 febbraio 2000 ha uniformato la disciplina a quella già esistente per i Fondi pensione obbligatori (secondo pilastro) ritenendoli a tutti gli effetti strumenti previdenziali.

Le forme di previdenza complementare sono assolutamente a carattere volontario, quindi si può versare quanto si vuole e quando si vuole senza alcun obbligo e può partecipare chiunque.

In via generale per i lavoratori dipendenti la deducibilità fiscale è subordinata, secondo le vigenti disposizioni di legge, al versamento a fondi pensione chiusi o aperti di una quota del trattamento di fine rapporto (TFR); le somme destinate alla previdenza complementare sono deducibili dal reddito di lavoro dipendente fino al doppio della quota di TFR destinata al fondo pensione. Anche in presenza di questo vincolo i lavoratori possono sottoscrivere un fondo del terzo tipo entro i limiti complessivi di deducibilità fiscale utilizzando i redditi diversi da quelli di lavoro dipendente.

 

A partire dal 31 dicembre 1995 si stabilisce di mantenere

-         il sistema pensionistico retributivo per coloro che avevano un’anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni, requisito per accedere al pensionamento 57 anni di età e 35 anni di contribuzione.

-         trasformazione del sistema pensionistico per coloro che hanno totalizzato meno di 18 anni di contribuzione: sistema pensionistico retributivo per il periodo < 18 indi sistema pensionistico contributivo.

-         sistema pensionistico contributivo ai nuovi assunti a partire dal 1° gennaio 1996

 

La legge 449/1997, introduce poi alcune modifiche riguardanti:

  1. Armonizzazione dei fondi speciali e del pubblico impiego;
  2. Revisione delle regole per il pensionamento anticipato;
  3. Aumento delle aliquote contributive per i lavoratori autonomi e parasubordinati.

Attualmente le novità rilevanti successive sono soprattutto

-         modifica dell’età pensionabile: dal 2008 si potrà andare in pensione di anzianità con 60 anni (61 per gli autonomi) più 35 anni di contributi ovvero con 40 anni di contribuzione senza limiti di età. L’età salirà, previa verifica nel 2013, a 63 anni nel 2014;

-         incentivi (detassati) per rimanere al lavoro con un bonus pari al 32,7% dello stipendio per i lavoratori che, pur in possesso dei requisiti di anzianità, decidono di prolungare l’attività lavorativa; (questa norma sembra fatta appositamente per incrementare la disoccupazione giovanile!)

-         devoluzione del TFR maturando alle diverse forme di previdenza complementare tramite il meccanismo del silenzio-assenso. Il lavoratore in tale contesto avrà a disposizione sei mesi di tempo per deciderne la destinazione-equiparazione tra fondi pensione e polizze vita.

Quindi oggi il sistema previdenziale italiano si caratterizza fondamentalmente per la sua struttura a tre Pilastri sopra enunciato.

Il Consiglio dei ministri ha approvato in data 24 novembre 2005 la Riforma della Previdenza complementare, che disciplina la destinazione del TFR ai fondi pensione complementari, attraverso il meccanismo del silenzio-assenso a partire dal 1° gennaio 2007.
Da questa data scatta il decorso dei sei mesi entro i quali il lavoratore che non ha ancora aderito ad una forma pensionistica complementare, dovrà scegliere se destinare o meno il TFR ai fondi pensioni. In mancanza di una comunicazione, scatta il meccanismo di silenzio-assenso e il TFR finisce automaticamente nei fondi.
Il datore di lavoro, invece, in mancanza di scelta del lavoratore, avrà l'obbligo di riversare il TFR verso il nuovo Fondo per l'erogazione del TFR, gestito dall'Inps  Inoltre, i Fondi pensione dovranno adeguare i propri statuti e le imprese di assicurazione costituire il patrimonio separato e autonomo per la gestione di forme previdenziali 

 

ma che cosa è il TFR?.  

Il trattamento di fine rapporto (TFR) è la cosiddetta liquidazione corrisposta al lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro. L'ultima modifica del calcolo del TFR risale al 1982.  

Da allora esso si forma grazie all'accantonamento annuale di una quota pari al 13,5% della retribuzione dovuta al lavoratore, comprese la tredicesima, la quattordicesima, ecc.  in poche e semplici parole è una retribuzione accantonata e differita, ma di competenza del lavoratore.

Il TFR accantonato viene rivalutato sulla base dell'inflazione mediante un coefficiente così composto:

-          l'1,5% in misura fissa; 

-          il 75% dell'aumento dell'indice mensile ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati. Nel caso di rapporti di lavoro iniziati prima del 31 maggio 1982 e cessati successivamente, il TFR che spetta al lavoratore è quello maturato fino al 31 maggio 1982 secondo il precedente sistema (indennità di anzianità), mentre invece da quella data in poi si applica quello attuale. La parificazione piena del metodo di calcolo fra operai ed impiegati è stata raggiunta nel 1989. La somma sulla base della quale calcolare l'accantonamento annuo del TFR comprende tutti gli elementi della retribuzione (con la sola esclusione dei rimborsi spese, indennità di trasferta e assegni familiari). 

 

Con l'entrata in vigore della legge 297/82 è possibile richiedere al proprio datore di lavoro un anticipo del TFR, sino al 70% di quello maturato. Questo diritto può essere utilizzato una sola volta nel rapporto di lavoro e in presenza di determinate condizioni: 

essere dipendenti privati, aver maturato almeno 8 anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda;

utilizzare l’anticipo per spese sanitarie di carattere straordinario, o per l'acquisto della prima casa (anche per i figli). 

 

 

Dopo la riforma delle pensioni del 1995, una quota del TFR dei lavoratori viene destinata alle previdenza complementare per alimentare il Fondo pensione. Tale accantonamento è stato fortemente voluto dal sindacato e avversato dalle imprese che preferiscono controllare queste risorse in piena autonomia. 

 

Dal primo gennaio 2007 i lavoratori dovranno decidere come destinare la liquidazione futura: investire in un fondo o tenersi la liquidazione? 

 

Se il lavoratore decide di lasciare il TFR in azienda:

  1. per le imprese che hanno almeno 50 dipendenti, il TFR finisce al fondo Inps;
  2. per le aziende meno di 50 dipendenti, il TFR resta in azienda.

Per i lavoratori che non esprimono nessuna scelta, non cambia nulla: il loro TFR confluisce nel fondo di previdenza complementare (o quello a cui sono già iscritti o quello scelto dalla maggioranza dei colleghi). In questo caso, però, l’azienda non verserà il suo contributo.

Il TFR conferito al fondo Inps avrà le stesse regole di quello lasciato in azienda e definite dall’art. 2120 del Codice civile. Quindi: per il lavoratore non cambierà nulla.

 

Per le imprese sono previste compensazioni:

  1. deduzioni dal reddito d’impresa del TFR versato all’Inps o ai Fondi complementari;
  2. esonero del versamento dello 0,2% monte retributivo al fondo di garanzia Inps;
  3. esonero dal versamento degli oneri per maternità, malattia, disoccupazione.