DA - LA REPUBBLICA.

L'attore si è spento a 63 anni dopo una lunga malattia
Dopo gli esordi e il successo in tv, solo sul palcoscenico
E' morto Giorgio Gaber
Una vita nel teatro-canzone
L'ultimo disco, "Io non mi sento italiano", uscirà postumo
di MARCO BRACCONI

Giorgio Gaber non era un pollo d'allevamento. Aveva scelto di non esserlo all'inizio. Quando il successo era già arrivato. Quando era già una faccia, quella sua bella faccia con il nasone enorme, da festival di Sanremo o da varietà anni Sessanta. Ma non era quello il successo che Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, classe 1939, meneghino doc, voleva davvero. Non voleva pailette e lustrini, insomma, ma il palcoscenico. Era il teatro quello che voleva. Per cantare come un attore. E per recitare come un cantante. Per raccontare l'Italia che vedeva, e attraverso l'Italia per raccontare sé stesso.

E' morto a 63 anni, dopo una lunga malattia. Gli inizi, quando aveva vent'anni, al Santa Tecla di Milano, dove si fanno vedere ogni tanto Celentano e Jannacci. C'è anche Mogol, che gli propone un provino per la Ricordi. Ne esce un disco, con quattro canzoni, La più famosa è Ciao, ti dirò, scritta con Luigi Tenco. Siamo a cavallo degli anni Sessanta. Tra poco l'Italia comincerà a bollire, e Gaber cambierà passo. Ma intanto ha successo come cantante melodico (Non arrossire) e come entertainer ironico (La ballata del Cerruti, Torpedo blu). Sono gli anni del festival di Sanremo, quattro edizioni. Sono gli anni della tv e, nel 1969, di Canzonissima. Che per Gaber è la fine di un'epoca e l'inizio di tutta un'altra storia.

A Canzonissima canta Com'è bella la città, memorabile e anticipatrice canzone sull'alienazione metropolitana. Troppo cattiva, troppo vera, perché la sua carriera possa seguire i canali tradizionali. Il Piccolo Teatro di Milano se ne accorge, e gli offre la possibilità di allestire un recital. E' la svolta: nasce Il signor G. Vale a dire che il signor Gaber abbandona la tv (dove tornerà pochissime volte), e farà della sua vita d'artista una sequenza irripetibile di spettacoli dal vivo. E' l'esordio del teatro-canzone, la formula tutta sua nata dal mix tra cabaret e Jacques Brel, ed è anche l'inizio della collaborazione con Giorgio Luporini. Insieme, negli anni a venire, saccheggeranno per i testi Celine, Sartre, Borges. Insieme racconteranno la gioia e l'idiozia degli anni Settanta, la volgarità e il delirio degli Ottanta, il disincanto dei Novanta. Suscitando passioni ed entusiasmo, ma anche attirando su di sè le accuse di qualunquismo, e anche peggio.

Il Gaber di Far finta di essere sani (1972), di Libertà obbligatoria (1976), di Polli d'allevamento (1978) è l'uomo di sinistra che detesta le pose della sinistra di piazza, ma anche gli alambicchi della sinistra ufficiale. E' il rivoluzionario che mentre i rivoluzionari chiedono più libertà, diffida della troppa libertà, E' il cantante, l'attore, e di nuovo il cantante che non smette di tenersi attaccato alla propria individualità, ma non sa smettere di subire il fascino della Storia. Lo dirà in una canzone memorabile, La strada, una risposta alla paura negli anni bui del terrorismo che però prelude al ripiegamento e alla delusione. Quella che molti anni dopo lo porterà a cantare che oramai Destra e Sinistra sono uguali. E a tornare sempre di più all'io, all'indagine sui sentimenti e sui misteri delle emozioni umane.

In mezzo ci sono altre prove straordinarie. Monologhi che valgono più di un saggio di storia, come Qualcuno era comunista, e grandi prove d'attore, come ne Il Grigio (1989), dove per la prima volta si cimenterà solo con la parola teatrale, senza canzoni. Ed è qui che forse raggiunge il punto più alto della sua vita d'artista. Il Gaber che cantava quindici anni prima Libertà e partecipazione, ora si chiede come si può amare senza retorica, come si può trasformare l'amore in qualcosa che "Non sia una farfalla che si posa di fiore in fiore", ma diventi davvero "Terra e materia..., cosa".

Forse, come canterà in un altro dei suoi spettacoli, la sola risposta è affidarsi ai Piccoli spostamenti del cuore. Ma chi ha davvero una risposta per un amore che finisce, come dirà nelle parole de Il dilemma, la sua canzone probabilmente più bella. Sono gli ultimi anni della sua carriera, e sono lontani i tempi della clamorosa invettiva contro Aldo Moro, pronunciata in Io se fossi Dio dopo l'uccisione da parte delle Brigate Rosse. Ma Gaber non ha smesso mai del tutto di parlare di "politica". Solo che la sua politica, il suo mondo, sono ormai il teatro di una sconfitta. Lo dirà nel suo ultimo lavoro, La mia generazione ha perso, prima di un nuovo disco ("Io non mi sento italiano") che ora uscirà postumo.

Una sorta di testamento, anche se sfogliando gli spartiti e i testi di trent'anni di teatro-canzone, almeno un altra pagina meriterebbe di recitare, insieme al suo autore, l'epitaffio per una vita d'artista vissuta pericolosamente in bilico tra dramma e sarcasmo. "Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri...", cantava Giorgio Gaber raccontando l'anima e il cuore di una generazione. Quella che ha perso, certo, ma che probabilmente se n'è andata con lo stesso sogno di allora.

(1 gennaio 2003)

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DA - LA REPUBBLIC

"Un grande commediografo ma anche un pessimista brutale
ma mai opportunista. Perciò i politici non l'hanno amato"
Gaber nel ricordo
del Nobel Dario Fo

ROMA - E' del premio Nobel Dario Fo il primo commosso ricordo di Giorgio Gaber, morto oggi nella sua casa dopo una lunga malattia. Un "grande commediografo" ma anche un "pessimista brutale" ricorda Dario Fo. "Ma mai opportunista, anche se i politici non lo hanno mai amato perché li graffiava, anzi randellava".

Dario Fo ricorda gli anni in cui lavorarono insieme. "Il nostro incontro fu una canzone, molti anni fa - dice Fo - si intitolava 'Il mio amico Aldo'. Lui aveva fatto la musica io recitavo le parole. Molti ricordano l'uomo di teatro, il monologatore, il cantante ma Gaber è stato un grande commediografo e questo viene ricordato poco".

Di Gaber, il premio Nobel sottolinea "l'ironia, il senso del grottesco, a volte anche l'autolesionismo, il pessimismo brutale. Ma la sua non era una vena distruttiva fine a se stessa, era sempre onesto in quello che diceva. Non aveva - sottolinea Fo - rabbia e rancore verso le persone, semmai per la società e per la politica. Per questo i politici non lo amavano".

(1 gennaio 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

"La mia generazione ha perso" è l'ultimo disco di Gaber
Grandi riflessioni e un omaggio al Sessantotto


Giorgio, il cantore
di un passato tradito



di MICHELE SERRA

Il mondo ci sembra peggiore perché lo è davvero o perché non siamo più giovani, e ce lo sentiamo sfuggire di sotto i piedi? E quando ci si duole perché il mondo non ci capisce più, non sarà che siamo noi a non capire più il mondo?

Grande tema per una grandissima canzone, La razza in estinzione, inconfondibilmente gaberiana nel suo pathos acre, nella sua teatralità impetuosa. Canzone doppia, con un primo piano dominato dall'invettiva senza quartiere, dal malessere morale, e in secondo piano un dubitoso arretrare, un passo indietro rispetto a quanto si è appena detto sul proscenio. Forse l'età di cui si maledicono gli usi e i costumi ha soprattutto questo di insopportabile: che non è più la nostra.

La razza in estinzione è, certamente, anche l'appassionato epitaffio di una generazione, quella sessantottina, della quale Gaber è stato lungamente compagno di strada. Tra i primi a dirne i vizi e le magagne modaiole, oggi Gaber è orgogliosamente in anticipo anche nel rivalutare il coraggio di quegli anni, e nel rivendicare quanto meno il valore della scommessa perduta. Gli umori correnti sono, nei confronti di quella storia e di quei protagonisti, ben più ingenerosi, e conformisticamente sprezzanti: basti pensare alla cella immeritata di Adriano Sofri o al pelosissimo linciaggio di Daniel CohnBendit, riletto (e tradotto) trent'anni dopo in una losca chiave pedofila. Ma è noto che tra i pregi di Gaber c'è la solitudine del giudizio, e l'assoluta indifferenza alle opinioni correnti.

A parte la nobiltà dell'omaggio al Sessantotto, la grande intuizione artistica della canzone sta però in quell'umore aggiunto, in quella riflessione più pacata, e universale, sullo sfumare degli anni. Così che quasi ogni generazione, ascoltandola, potrebbe riconoscersi nel destino di anacronismo e di sconfitta che segna, sempre, l'abbandono della giovinezza.

Pur potendosi contare diversi artisti - e tra essi molti cantautori - che stanno vivendo una proficua maturità, la capacità di Gaber di fare perno perfino sull'invecchiamento per sollevarsi da terra di un bel palmo, emozionarsi ed emozionare l'uditorio, è più unica che rara. La sua forza, d'altra parte, è sempre stata l'uso perfino doloroso del "sé", spremuto sulla scena fino all'ultima stilla.

Non stupisce, dunque, che un anziano attorecantore, dopo quasi mezzo secolo di carriera e tre decenni tondi di grande teatro, riesca a fare della sua figura segnata e claudicante un indomabile strumento artistico, forte nei toni, e dalla mira precisa, pesante e leggero a seconda del calibro espressivo scelto. Si è sempre sentito, d'altra parte, dire bene e dire male delle canzoni di Gaber, a seconda delle sensibilità urtate o gratificate. Ma si è sempre sentito dire solamente bene di Gaber, voce e corpo di una storia artistica formidabile, germinata nel rock'n'roll, fortificata negli show televisivi di anni nei quali in televisione arrivavano solo i migliori e non i peggiori, infine sbocciata in teatro con una lunga e interminata saga di onemanshow che hanno descritto e commentato tutti o quasi i momenti decisivi della cultura e del costume nazionali.
La razza in estinzione dice che quel racconto non è finito. E che, in fin dei conti, nessuna generazione ha perso finché qualcuno avrà le parole per raccontarla.

(9 aprile 2001)

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DA - L'UNITA'

Se ne va Cerutti Gino. È morto Giorgio Gaber
di Oreste Pivetta

Cerutti Gino non c’è più. Il mago o il drago, come lo stimavano al bar del Giambellino, non tira più di stecca, al tavolo verde, sotto la luce che sa di fumo. Giorgio Gaber è morto. Non lo vedremo entrare un’altra volta aprendo la porta con un’istante di sospensione che richiama l’attenzione del pubblico. Non lo vedremo alto, magro, con quella incredibile chioma che si tirava sulla fronte a mitigare l’asprezza del naso. Faccia comica, faccia da periferia, periferia com’era il Giambellino, che fuori Milano non conoscono, quartiere popolare di nebbia, di casermoni, d’immigrati e di milanesi autentici, interisti e un po’ bauscia, narratori di poche parole e di secchi eloquenti gesti, che mimano la vita, il lavoro le donne gli amori il derby a San Siro e persino i sogni, oltre che i colpi a boccette. Quelle prime immagini di Giorgio Gaber con la giacca troppo stretta e il maglione girocollo alto, l’occhio smaliziato, il sorriso beffardo, quell’aria un po’ di mala, se non altro per aspirazione, che danno l’esatta impronta del mago chiamato Cerutti oppure del Riccardo, un altro tipo da bar e di biliardo, uomo di grande compagnia, il più simpatico che ci sia. Povero Gaber, così lontano e così testimone di un tempo che è finito, spazzato via, un tempo popolare e autoironico, forte e sincero, di straordinaria umanità e, verrebbe da dire con la paura della retorica, di bontà e di solidarietà, come capitava in quei luoghi allora un po’ meno poveri ma non ancora travolti dal consumismo, dal benessere materiale, dalle illusioni smarrite e cancellate e neppure dalle auto. C’era sì la Torpedo Blu, come dice il nome, non era una macchina, non era aggressiva, non era rumorosa, non inquinava, era un marchingegno più umano che meccanico, che trasmetteva una sua nostalgica tenerezza.
Giorgio Gaber, che si chiamava in realtà Gaberscik e apparteneva a una famiglia di media borghesia, di origini venete, senza agiatezze, con una casa in via Landonio, al Sempione, era un giovane degli anni sessanta, cronista della sua generazione, che aveva dietro le spalle la guerra e gli anni duri della ricostruzione, un po’ testoriano, come tanti giovani bulli e meno bulli di Testori, un “dio di Roserio” riemerso al Giambellino. E di quella stessa generazione ripercorre la strada: dal biliando e dal bar alla scuola, fino all’università, dalla politica alle delusioni della politica, fino a un’ombra di qualunquismo, qualcosa che sa di un’amarezza profonda perchè le cose non sono andate come si sperava, perchè troppi tradimenti si devono scoprire in giro, perchè i sentimenti hanno fatto crack, perchè rimane poco per sperare.
Gaber era nato il 25 gennaio del 1939. A quindici anni aveva cominciato a suonare la chitarra per curare il braccio sinistro, colpito da paralisi. Si era diplomato ragioniere, s’era iscritto all’università, economia e commercio alla Bocconi. Si pagava gli studi suonando al Santa Tecla, un locale dove incontrerà Adriano Celentano e Enzo Jannacci. Proprio al Santa Tecla, Giorgio Gaber verrà avvicinato da Mogol, il futuro paroliere di Lucio Battisti. Mogol gli proporrà di incidere un disco. Andrà alla Ricordi e con la Ricordi, farà quattro canzoni, una diventata famosissima, “Ciao, ti dirò” (scritta con Tenco), la canterà anche Celentano, era uno dei primi rock che si sentivano in Italia e faceva: “Pupa ciao ti dirò, pupa ciao ti dirò...”. Un po’ ossessivamente, ma quello era il ritmo. Testo banale, ma allegro, per ridere e ballare. Eravamo nel 1958. Gli anni Sessanta vedranno crescere la sua popolarità, parteciperà anche ad alcuni Festival di Sanremo, farà l’attore cantante nei caroselli, presenterà qualche trasmissione televisiva. Nel 1965 si sposerà con Ombretta Comelli (futura Colli, futura presidente per Forza Italia della provincia di Milano e lui dirà: «Ho mia moglie che è di Forza Italia, ma fisicamente non ce la faccio a essere di destra, ma come mi fanno incazzare quelli di sinistra...). A Canzonissima 69 il Cerutti Gino si presenterà con una canzone che è un ritratto della sua città: "Com'e` bella la citta`", una tra le prime canzoni in cui traspare la sua sensibilita` sociale. Comincia con un invito: «Vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna, se tu vuoi farti una vita devi venire in città. Com’è bella la città, com’è grande la città, com’è viva la città, com’è allegra la città...». Ma poi ripete, ripete ossessivamente e la canzone diventa una nevrosi, la nevrosi di una città che sempre più grande, sempre più alta, sempre più rumorosa, una città che cancella il Cerutti, lo nasconde nelle sequenze quotidiane e anonime, lo annichilisce. Il protagonista di tante serate al bar, così generoso, così appariscente, si consuma... nella città «piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce, con le réclames sempre più grandi, coi magazzini, le scale mobili, coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più». Siamo all’inizio di un’altra storia, quella del signor G. E non sarà una storia più politica dell’altra: Gaber politico alla sua maniera lo è sempre stato e proprio perchè era capace di raccontare quanto gli capitava attorno, di capire la gente, di muoversi tra la gente, di sentire quanto andava mutando. E tanto era mutato e il signor G. era il risultato. Con il “signor G.”, Giorgio Gaber raggiunse nel 1970 il palcoscenico del Piccolo Teatro. L’aveva voluto addirittura Paolo Grassi. "Il Signor G" Sarà il primo di una lunga serie di spettacoli musicali portati in teatro, spettacoli dove canzoni e monologhi si alternano e lo spettatore vedrà consumarsi davanti a sè un materiale che dice tante cose assieme, con l’ambizione di rappresentare la vita nelle sue vicissitudini, nei suoi tramonti, anche nella sua forza: Gaber, in questo poco, nella smisurata resistenza del signor G, schiacciato dall’universo che si incombe, sopra, sotto, di lato, parlerà di politica, cercherà di parlare alle coscienze dello spaesamento comune in una società, così che esalta la merce su tutto e non tiene gran conto dell’uomo e delle sue debolezze.
Si può dire che era passato il Sessantotto, che erano passate le cose migliori del Sessantotto e che Gaber le aveva viste e le aveva anche viste morire e che aveva partecipato con la saggezza di una generazione già adulta che aveva già fatto le prove della sue speranze e delle sue delusioni al bar del Giambellino.
Dalla prima prova al Piccolo Teatro, quasi ogni anni per Gaber sarà un incontro nuovo con il pubblico e ogni volta dirà qualche cosa di più della sua amarezza, talvolta un po’ sentenzioso.
A Milano ci vive fino all’inizio degli anni ottanta, quando comincia la Milano da bere, quasi un colpo, l’ultimo colpo prima di scegliere appunto la campagna, la Toscana, dove è morto. Ogni tanto doveva tornare, per il suo lavoro, ma confessava che gli veniva la stretta al cuore: non riconosceva più nulla di una città che nel ricordo continuava ad amare. Nuovi spettacoli e poi una riapparizione, che sapeva un po’ di bilancio, un album che diceva: “La mia generazione ha perso“. Allora, un anno fa, se ne discusse, si fecero polemiche e ci si chiese se quella generazione aveva davvero perso. Qualcuno rispose che quella generazione aveva perso, ma aveva venduto molti dischi. Le vittorie o le sconfitte si misurano ovviamente secondo i punti di vista. In una canzone, “Destra-sinistra”, Gaber scriveva e cantava: «Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ ma io dico che la colpa è nostra/ è evidente che la gente è poco seria / quando parla di sinistra o destra./ Ma cos'è la destra cos'è la sinistra.../ Ma cos'è la destra cos'è la sinistra.../Fare il bagno nella vasca è di destra/ far la doccia invece è di sinistra/ un pacchetto di Marlboro è di destra /di contrabbando è di sinistra...». E avanti così. La canzone forse non era bella, ma esprimeva il disagio di chi non sapeva più a che santo voltarsi. Disorientati, confusi, però sinceri. Sarà qualunquismo? Un’altra volta aveva scrityto: «Sì, qualcuno era comunista perchè, con accanto questo slancio, ognuno era come più di se stesso. Era come due pertsone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita... E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perchè ormai il sogno si è rreattrappito. Due miserie in un corpo solo».
All’Unità una volta spiegò: «Credo che il pubblico mi riconosca una certa onestà` intellettuale. Non sono nè un filosofo nè un politico, ma una persona che si sforza di restituire, sotto forma di spettacolo, le percezioni, gli umori, i segnali che avverte nell’aria».

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DA - L'UNITA'

I suoi pudori in un mondo «svaccato»
di Ivan Della Mea

Seppe ascoltare e imparare molto da Dario Fo. Ascoltò e imparò fino a quando non trovò una chiave tutta sua, autonoma, funzionale.
Benvenuto Signor G.
L’ho conosciuto, anni Sessanta, uomo capace di pudori in un mondo, quello dello spettacolo ma non soltanto quello dello spettacolo, assai meno svaccato e insulso di quanto sia oggi: e comunque troppo per Giorgio Gaber. In quel mondo lui si ritagliò un proprio spazio per raccontare, per proporre, per ragionare adottando, io credo, più il fioretto dell’ironia che l’accetta della satira. Cionondimeno era capace d’indignazioni che lo portavano al limite dell’insulto cosmico. Di quando in quando tra gli ammiccamenti irridenti del Signor G. intravvedevi la grida liberata e dissacratoria d’ogni potere piccolo o grande che fosse del libertario, dell’anarchico e anche, questo penso e credo fermamente, dell’uomo abbastanza solo.
Ci conoscemmo nel triassico alle Messaggerie musicali in Galleria a Milano.
Aveva ascoltato una mia canzone El mè gatt e mi suggerì di smussare degli spigoli a suo giudizio un po’ troppo vivi del tipo “mi a pesciat ghe sccepi ‘l de drèe-io a pedate gli rompo il didietro”: non mi convinse e non accettai il consiglio.
Non ho condiviso molte delle sue canzoni. In particolare, cito il titolo a memoria, Io se fossi Dio… e non so se la “d” di Gaber fosse maiuscola o minuscola. Era una canzone-invettiva; tirava fendenti di durlindana a destra e a manca epperò m’infastidiva quel suo picchiare duro in versi e musica standosene “coverto” in campagna: trovai il modo per farglielo sapere e continuammo a rispettarci.
Ora Giorgio Gaber ci lascia. Oltre a perdere un grandissimo artista-artigiano della canzone e dello spettacolo perdiamo anche una persona che ha saputo attraversare il suo mondo e la sua vita con grande intelligenza e grande educazione: sto parlando di perle, di rarità assolute.
Ciao Giorgio

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DA - L'UNITA'

Qualcuno era comunista
di red

Qualcuno era comunista
Questo è il testo di una delle ultime canzoni di Gaber. E' il brano che conclude il Cd
“La mia generazione ha perso” del 2001.

"Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà. .. la mamma no.
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre.
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica.
Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche. . . lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era comunista perché prima… prima…prima… era fascista.
Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l'operaio.
Qualcuno era comunista perché voleva l'aumento di stipendio.
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe...
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava solo RAI TRE.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.
Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
Qualcuno era comunista perché c'era il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista perché non c'era niente di meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d'Europa.
Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi, solo in Uganda.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant'anni di governi democristiani incapaci e mafiosi.
Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare…come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana
e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo".

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Il 24 gennaio uscirà «Io non mi sento italiano»,

il suo ultimo disco Addio al «Signor G»: è morto Giorgio Gaber Il cantante e attore aveva 63 anni. E' deceduto nella sua casa a Montemagno, in provincia di Lucca: era malato da tempo MILANO - Il cantante e attore Giorgio Gaber è morto a Montemagno, nella sua casa in provincia di Lucca. Gaber, nato a Milano, aveva 63 anni ed era malato da tempo. Il funerale si svolgerà venerdì3 gennaio, alle 14, nell'Abbazia di Chiaravalle (Pavia). Alla mattina, dalle 9 e 30 alle 13, sarà allestita la camera ardente nella sede di via Rovello del Piccolo Teatro di Milano. Con «La mia generazione ha perso» (album uscito nel 2001) Gaber era tornato al mercato discografico ufficiale, dopo molti album esclusivamente dedicati alla registrazione integrale dei suoi spettacoli. Il 24 gennaio uscirà «Io non mi sento italiano», l'ultimo lavoro del grande artista italiano.

LA VITA - Giorgio Gaber (vero nome Giorgio Gaberscik) nasce a Milano il 25 gennaio 1939. All'età di 15 anni, si esercita con la chitarra per curare il braccio sinistro, colpito da paralisi. Dopo aver conseguito il diploma in ragioneria, s'iscrive alla facoltà di Economia e Commercio della Bocconi e si paga gli studi con i soldi guadagnati suonando al Santa Tecla, un locale milanese frequentato fra gli altri da Adriano Celentano: per un certo periodo di tempo, fa parte del gruppo che accompagna quest'ultimo, assieme ad Enzo Jannacci. BRILLANTE CARRIERA - Proprio al Santa Tecla, sul finire degli anni '50, viene notato da Mogol, che lo invita alla Ricordi per un'audizione: il provino ha esito positivo, ed è lo stesso Ricordi a proporgli d'incidere un disco che risulta composto da quattro canzoni, la più celebre delle quali è certamente «Ciao, ti dirò», scritta con Luigi Tenco: comincia così una brillante carriera che, nel corso del decennio successivo, lo vede cantante melodico di successo («Non arrossire», «Le nostre serate», «Le strade di notte») ed entertainer garbato ed ironico («Il Riccardo», «Trani a gogò», «La ballata del Cerruti», «Torpedo blu», «Barbera e champagne»).

IL MATRIMONIO - Nel 1965, si sposa con Ombretta Colli. Partecipa inoltre a quattro edizioni del Festival di Sanremo (con «Benzina e cerini», 1961; «Così felice», 1964; «Mai mai mai Valentina», 1966; «E allora dai», 1967), oltre a condurre vari spettacoli televisivi; nell'edizione 1969 di «Canzonissima» propone «Com'è bella la città», uno dei primi brani che lasciano intravedere il successivo cambio di passo. Nello stesso periodo, il Piccolo Teatro di Milano gli offre la possibilità di allestire un recital, «Il signor G»: da qui, la sua decisione di abbandonare la facile popolarità offerta dalla tivvù, per concentrarsi esclusivamente sugli spettacoli dal vivo, nelle forme del teatro-canzone. «Far finta di essere sani» (1972), «Libertà obbligatoria» (1976), «Polli d'allevamento» (1978), «Il grigio» (1989), «E pensare che c'era il pensiero» (1995), «Un'idiozia conquistata a fatica» (1998) sono i suoi lavori più significativi: fino al trionfale ritorno, nel 2001, con un nuovo disco, «La mia generazione ha perso».1 gennaio 2003