Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 4
CONVERSAZIONE CON GIORGIO BARBERIO CORSETTI

Qual è secondo te la differenza tra i gruppi nati come la Gaia Scienza, negli anni Settanta e la generazione precedente, quella degli anni Sessanta?

Credo che la differenza fondamentale sia una grandissima consapevolezza. Nell’avanguardia romana, perché all’inizio era localizzata a Roma, c’era un’idea di gesto istintivo molto forte, con diversi gradi di consapevolezza: ma c era anche una forte misura di istintività. Nella nostra generazione, agli inizi, vedo come momenti più forti Simone Carella e il Beat 72, Federico Tiezzi e l’allora Carrozzone e la Gaia Scienza. Si faceva molto caso a Carella e al Beat 72, ma i gruppi in realtà erano il Carrozzone e la Gaia Scienza. La nostra consapevolezza derivava da un approccio con il teatro non soltanto fattuale, ma mediato da una serie di strumenti anche scientifici, sia nell’analisi del linguaggio che della letteratura e di tutte le arti: sto parlando, ad esempio, dello strutturalismo, del formalismo.

L’altro elemento molto forte era la necessità, che derivava in fondo anche dall’analisi del linguaggio teatrale, di non riempire il palcoscenico, ma di svuotarlo completamente: procedere non per accumulazione ma per sottrazione. Di qui derivava il carattere di certi spettacoli del Carrozzone, che erano veri e propri esercizi, o il concetto di performance, che faceva parte del nostro lavoro e del loro, seppure con dati molto diversi: mentre noi cercavamo di lavorare sull’idea di energia e quindi di esplosione, il Carrozzone lavorava più sull’analitico e sul patologico, sempre con estrema sottigliezza e freddezza.

Quindi da parte vostra c’era un approccio più immediato, istintivo all’evento, mentre da parte loro c era...

…una mediazione di carattere analitico, ma con questo elemento che restituiva forza: la parte patologica.

Che può significare anche l’esigenza di andare oltre il limite.

Il nostro limite era dato da un’esplosione di energia, il loro da questa componente patologica, ma con la freddezza che può avere il sadico, non con quella dell’entomologo. La nostra tendenza era quella all’esplosione, quindi alla perdita. Non c era nessun ritorno, era tutto in apertura. Lo spettacolo era una mutilazione con una perdita.

Quando rifletto su quel periodo, penso a quei gesti estremi in cui uno si taglia una parte del corpo e la butta via. Questo estremismo, che portava allo svuotamento della scena, a un certo punto ha portato al vuoto assoluto. Ecco un’altra caratteristica diversa rispetto all’esperienza precedente: noi lavoravamo sempre e comunque su esperienze estreme. Era un estremismo che si rifletteva nell’atteggiamento rispetto alle istituzioni, al genere "teatro": ci ponevamo sempre ai limiti. O addirittura fuori.

Cercando sempre dei punti di non ritorno.

Esattamente. Venivano negati anche il teatro e la regia come genere: si diceva che il teatro di regia era un genere, come il vaudeville o il grandguignol. Nei sei-sette anni che io chiamo di trincea si stava rinchiusi nelle cantine.

Si stava nelle cantine perché non si andava nei teatri ufficiali, però si usciva molto dai luoghi chiusi o deputati allo spettacolo.

Si restava chiusi in un ambito di marginalità scelta, identificandosi con quella parte della cultura di una generazione che, negli anni settanta, cercava la marginalità come unico modo di porsi rispetto a un assetto sociale inaccettabile. Anche se, poi, mettevamo l’accento sul punto di vista formale, e quindi il concetto di marginalità non passava mai attraverso i contenuti.

Gli eventi fatti in piena piazza Cavour, che coinvolgevano moltissima gente, non erano fatti per richiamare spettatori, ma perché aveva senso fare quelle esperienze in quel punto e in quel momento; il nostro fine era quello di colpire la coscienza di chi passava in quel preciso istante.

C’è stato poi un passaggio, una sorta di azzeramento, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, per il nostro gruppo come per gli altri che sono sopravvissuti. Da questo azzeramento, da questo viaggio verso lo zero (e proprio lo zero come elemento diventava il buco che avevamo messo al centro della scena e che assorbiva tutto), abbiamo cominciato a "contare", cioè siamo passati dallo zero all’uno. Da uno spazio scenico che non conteneva nessun elemento autoritario, in cui non c era nessun punto che richiedeva di essere guardato, ma era l’occhio dello spettatore che circolava e sceglieva, come succede all’orecchio in certe esperienze musicali, siamo passati alla ricerca di centri d’attenzione, di segmenti, di linee. Quindi, da un movimento circolare, a segmenti molto definiti, predeterminati, che entravano sulla scena, che la tagliavano. Da questa scelta di determinare dei fuochi di attenzione è nata quella che poi hanno chiamato la "nuova spettacolarità", con lavori in cui si impostava una geometria dello sguardo dello spettatore, una geometria costruita utilizzando come serbatoio tutto quello che si era andati analizzando in piccole sezioni durante gli anni precedenti.

Vuoi dire che, malgrado tutto questo bruciare, si è comunque costruito un patrimonio di segni, un alfabeto spettacolare...

Esatto. Visto retrospettivamente, era come se ogni spettacolo contenesse un punto intorno a cui si faceva terra bruciata. Era come se avessimo identificato quelli che Jakobson chiama, per il linguaggio, gli "elementi minimi di significato". Avevamo cioè identificato gli elementi minimi di significato teatrale. In realtà avevamo a disposizione delle parole, o meglio delle radici, che potevano essere articolate e messe a frutto in modi diversi. Questi elementi minimi erano anche, contemporaneamente, nuclei che contenevano in sé approcci con altre forme artistiche, come la musica e le arti visive.

Quali spettacoli hanno segnato questa svolta verso la "nuova spettacolarità"?

Gli insetti preferiscono le ortiche, il primo spettacolo che ha cominciato ad attirare un grande pubblico romano, con la sua collocazione all’interno del padiglione di Villa Borghese: solo là poteva funzionare bene. Gli insetti preferiscono le ortiche conteneva tanti elementi, che avevamo estratto dalla nostra esperienza e che insieme diventavano un linguaggio: un linguaggio fatto di frammenti. Se devo pensare a una parentela, penso al montaggio delle attrazioni di Mejerchol’d o al modo di procedere cinematografico di Ejsenstejn. Ad esempio, alcuni elementi lo facevano diventare, senza volerlo, quasi un omaggio all’arte povera.

C’era un grande uso di materiali grezzi, primari, come la terra, il fuoco...

Bruciavamo dei materiali e, insieme, un certo loro uso: materiali più semplici o più complessi, come potevano essere la terra, i lapilli di brace, o strisce di stoffa colorata.

Avete utilizzato a lungo anche vetro, lastre di metallo, colori liquidi o polveri colorate...

Quei materiali non si inserivano casualmente all’interno dello spettacolo e venivano sempre agiti con riferimento all’azione e al movimento. Si ponevano come anelli tra il corpo e il significato dell’azione, come fossero stati un elemento metaforico. Però non si sapeva mai se questo elemento metaforico era il corpo dell’attore o se era l’oggetto o se era il suo significato; c’era un continuo travaso, per cui erano come "metafore aperte": non si sapeva mai qual era l’oggetto della metafora.

C’era sempre uno slittamento, una proiezione/identificazione tra il corpo dell’attore e l’oggetto agito, che si è sviluppato fino ai "costumi" di Cuori strappati, per esempio nella poltrona di roccia.

C’era questa linea, e c’era anche la volontà di considerare il corpo solo come parte di un insieme; anche se comunque, con una importanza sostanziale. La sua presenza era fondamentale negli spettacoli, e lo è tuttora. Ma senza considerano come elemento centrale, come intero o come monade. Era la nostra grossa polemica con la danza. La danza moderna, con la sua matrice anglosassone e puritana, ha l’idea di un corpo molto levigato, intero, come cosa in sé.

A noi interessava invece il corpo come parte di un paesaggio o di un insieme. Era quindi continuamente interrotto, come in certi quadri futuristi dove c’è una spaccatura del movimento e del corpo. L’idea era che i materiali, e tutta la scena, fossero il proseguimento del movimento dell’attore e, viceversa, che il movimento dell’attore fosse il proseguimento della scena.

È un discorso che si sviluppa anche nel tema della metropoli, indistinguibile, inseparabile da chi la abita.

Il discorso sulla metropoli è stato fondamentale, ma si è consumato. Gli insetti preferiscono le ortiche è stato proprio il punto in cui per noi il discorso sulla metropoli si è dissolto.

Ma anche Cuori strappati e poi Ladro di anime e Diario segreto contraffatto parlavano della città, mentre in Gli insetti preferiscono le ortiche c’era un uso di materiali naturali, primordiali.

In Cuori strappati c’era lo spazio urbano, ma non c’era più la metropoli come sensazione forte. Gli insetti preferiscono le ortiche nasceva da un’idea di rapporto tra naturale e artificiale, di una invasione della metropoli. C’è stato uno strano passaggio. Per molti anni il mio modello è stato il flaneur di Baudelaire: il passeggiatore, l’osservatore; che è un punto di vista - molto definito - di chi passa e guarda, un modello che è passato anche attraverso Benjamin e la sua analisi della nascita della metropoli contemporanea, dalla Parigi di Baudelaire in poi. Il luogo per eccellenza della nostra cultura è lo spazio metropolitano: lo sguardo originario allo spazio urbano, quello del flaneur; di chi osserva un po’ dall’esterno ma standoci dentro.

Parli dello sguardo del flaneur, ma quando costruisci lo spettacolo tu agisci, non sei un osservatore ma un "attore"...

Se c’è un messaggio all’interno dello spettacolo, al di là delle soluzioni formali, è un punto di vista: come in certi pittori manieristi che regalano un punto di vista eccentrico, che impone una visione del mondo. È questa la cosa fondamentale, e inevitabilmente entra a far parte di una poetica: la volontà di suggerire un punto di vista, aldilà della composizione dello spettacolo, che può funzionare o meno, arrivare o meno allo spettatore.

È come se Gli insetti preferiscono le ortiche avesse consumato un’epoca, bruciato tutti i residui. Restavano dei blocchi isolati, come i pietroni che emergono nei giardini zen, come i blocchi che costituivano la scena dello spettacolo. Il passaggio successivo, con Cuori strappati, era quello di costruire: finalmente costruire, occupare, riempire la scena di elementi.

Una costante dei nostri spettacoli era quella di costruire uno spazio non reale ma mentale: quindi uno spazio interno, che si poneva al di qua e non al di fuori. Da Cuori strappati in poi si trattava di pensare certi elementi non come dati in sé, non come esistenti nella realtà, ma come riflessi in una coscienza. E di conseguenza volevamo che fossero percepiti dallo spettatore come spazio interno, quindi immaginario. E questo lavorando sempre su alcuni elementi forti che facevano parte del nostro bagaglio culturale.

In Cuori strappati c’era un riferimento molto forte all’architettura: a un’architettura elementare, estremamente primaria, fatta di pareti mobili. Era uno spettacolo sul rapporto tra interno ed esterno, un rapporto che è in continua mutazione. Benjamin, in un pezzo dedicato ad alcuni autori tedeschi, descrive come si possano considerare le strade, lo spazio urbano, come l’interno di una casa (per esempio, i caffè come balconi): è il passaggio da quello che era l’interno borghese ottocentesco a un’apertura sulla dinamica delle strade.

Lo spettacolo iniziava con un muro, una parete che chiudeva la scena. E poi pian piano questa prospettiva veniva sfondata, aperta...

Questo concetto può anche avere a che fare con uno stile dell’architettura romana che per me è stata sempre una presenza molto forte: il barocco, in cui ci sono esterni che ricostruiscono interni e viceversa, soprattutto nel Borromini.

Questa scenografia barocca era stata progettata al computer…

È stato un processo parallelo. In realtà Michele Bohm, utilizzando gli elementi scenografici da noi dati, aveva costruito un programma in cui il computer provava tutti i movimenti possibili delle pareti, da tutti i punti di vista. Noi avevamo già stabilito come dovesse funzionare la scenografia, ma questo lavoro di computer-graphic ci restituiva un punto di vista esterno, molto forte e molto freddo, che dava un’ulteriore possibilità di lettura.

Una delle critiche allo spettacolo, che voleva essere negativa ma che per me è estremamente positiva, era che Cuori strappati conteneva e bruciava in sé dieci spettacoli. C’era questa esuberanza, ma era voluta.

Ancora una volta, si trattava di fare piazza pulita: ma attraverso l’eccesso, non con la sottrazione. È una caratteristica comune ai lavori successivi: affrontare un punto di vista e spazzarlo via, in modo da poter ripartire su un’altra tangente.

Anche se rimane una forte fedeltà di fondo.

Questo è inevitabile. Poi diventa un problema di poetica, quasi di personalità dell’autore. Di là poi è venuta la scissione della Gaia Scienza.

Poiché nel 1985 la Gaia Scienza ha bruciato anche se stessa.

È bruciata la compagnia, per vari motivi. Ma anche perché era emersa la necessità, che faceva parte dei tempi, di porsi come autori. Non era più possibile un lavoro di gruppo.

Questo è un altro elemento che differenziava, a mio parere, la generazione precedente da quella dei gruppi. Là si trattava di individualità artistiche, di autori come Carmelo Bene o Memè Perlini, per fare due esempi, nella generazione successiva si trattava di un lavoro collettivo, di gruppo, in misura molto maggiore.

Tra l’altro è successo varie volte che ci siamo fusi. Per esempio abbiamo fatto degli spettacoli con Simone Carella. Con i Magazzini no, ma avremmo potuto farli. Ma da un certo punto in poi non è stato più possibile porsi al di fuori delle istituzioni, cosa che fino allora era stata quasi un principio. Bisognava porsi nel mercato se si voleva sopravvivere: tutti quelli che non hanno accettato questo confronto sono scomparsi. Bisognava porsi all’interno delle strutture, cominciare a operare in maniera diversa. Ma c’era anche un’esigenza interna: essendo arrivati al massimo dell’espansione, bisognava cominciare a concentrare, a fare spettacoli. Cuori strappati è stato il punto limite: in effetti siamo andati in scena per miracolo. A quel punto era necessaria una divisione dei ruoli. Dal momento che nel gruppo eravamo in tre a volerci porre come autori, ci siamo divisi e ognuno è andato avanti per la sua strada, anche rischiando.

Abbiamo deciso di mantenere il nome della compagnia per un anno, e poi di cancellarlo completamente: era una grossa perdita, anche dal punto di vista del marketing, nel momento di massima espansione. Chi più, chi meno, è stata una cosa che comunque abbiamo pagato.

È il discorso che facevi prima sull’estremismo: nel momento in cui un’esperienza è arrivata al limite, la si butta via.

È stato così, almeno per me. Ho preso una serie di attori molto giovani, la maggior parte dei quali andava in scena per la prima volta. Mi ha sempre interessato il rapporto con individualità artistiche che non fossero già compromesse da una formazione che poteva segnarle. Piuttosto che mettermi a fare piazza pulita di esperienze precedenti, ho preferito lavorare con personalità giovani.

Una vocazione pedagogica insospettata...

Sì, ma anche molto funzionale al lavoro. Ladro di anime richiedeva una grandissima esplosione di energia: infatti l’età media degli attori era di vent’anni, c’era qualcuno che ne aveva addirittura diciotto. Usavo la loro personalità, prendendo gli aspetti che più mi interessavano, inserendola così com’era nello spettacolo, come un oggetto trovato. Abbiamo fatto un lavoro molto denso per sei mesi e credo che Ladro di anime avesse tutta l’unità e la forza di un’opera prima. Mi ha dato anche un gran senso di liberazione. Se dovessi catalogarlo per generi, sarebbe una commedia.

Mi sembra che in generale siate più vicini alla commedia che alla tragedia.

A mio parere, Diario segreto contraffatto ha forti elementi tragici al suo interno. L’incontro con Kafka in Descrizione di una battaglia nasce proprio dal fatto che in Kafka la tragedia è incombente, soffocante, ma vista con uno sguardo ironico. Non c’è il cedimento della disperazione totale, c’è sempre il sorriso sulle labbra, anche nei momenti più terribili. Come se in fondo già si sapesse ciò che sarebbe successo.

Ladro di anime ha anche un’altra caratteristica: quella di andare a ripescare nella memoria storica delle arti visive e del teatro, non solo in una memoria personale. Quanto allo spazio, si trattava sempre di uno spettacolo sulla città, sullo spazio urbano. E se in Cuori strappati c’era uno spazio possibile, ma con continui slittamenti, quello di Ladro di anime era uno spazio ideale, quasi mitico, letto attraverso gli occhi delle avanguardie storiche che hanno creato la mitologia della città.

Mi sembra che in generale il lavoro di tutti i gruppi sia legato al metodo delle avanguardie.

Abbiamo avuto una grossa sfortuna e nello stesso tempo un privilegio. In Italia non è esistita una tradizione teatrale forte, come in Germania o nei paesi anglosassoni. Non c’era un riferimento teatrale e quindi, se bisognava scegliersi una tradizione, era inevitabilmente quella delle avanguardie storiche.

Credo che sia stata una scelta sign4icativa, in una situazione in cui c’erano forti spinte alla modernizzazione e alla differenziazione, alla disintegrazione dei meccanismi sociali, come nell’Italia degli anni settanta. Sostanzialmente, il modello della cultura teatrale italiana era quello nazional-popolare, unificante. Ma quando emergono le differenze, la cultura delle avanguardie risulta più stimolante.

In effetti, la tradizione ce la siamo scelta, non l’abbiamo trovata. Tornando a Ladro di anime, c’era questo elemento mitico legato alle avanguardie. Poi questa esplosione di energia, che tendeva alla commedia, e infine l’"uso" del teatro. Lo spettacolo, che nacque nei cantieri navali della Giudecca, pescava molto nella memoria del teatro, utilizzando elementi specificamente teatrali, come i carrelloni...

Elementi di macchineria teatrale: un’altra tematica barocca...

…come i fondali dipinti, fino ad allora dimenticati, che venivano reinterpretati e riattraversati.

Un altro elemento particolare dei tuoi spettacoli è la scenografia sempre in movimento: lo spazio non è mai dato, immobile.

Per me la scenografia ha un senso nel momento in cui diventa parte dello spettacolo. Non riesco a concepire nulla di decorativo, la decorazione mi infastidisce. Penso che sia un principio generale: in tutti gli spettacoli che funzionano, la scenografia è parte integrante dello spettacolo, è un’articolazione come un’altra. Nell’uso che ne faccio va a costituirsi come elemento scenico, e quindi linguistico, solo nel momento in cui viene agita, utilizzata; non è un simbolo. Anche la casa di Ladro di anime, che come simbolo non potrebbe essere più chiaro, esiste come tale solo nel momento in cui è abitata.

Nei tuoi spettacoli la scenografia ha senso non solo in quanto viene agita, ma in quanto rimanda agli attori delle sollecitazioni, anche fisiche.

Sia in Ladro di anime che in Diario segreto contraffatto, se c’è un elemento che più degli altri racconta, che crea una direzione, un senso, è proprio la scenografia.

In Cuori strappati c’era un movimento di sfondamento: andare sempre oltre. In Ladro di anime c’è invece una costruzione che avanza verso lo spettatore. Nei due casi credo che sia questa la "storia" che racconta lo spettacolo.

La storia dello spettacolo passa anche attraverso i fondali: nel caso di Ladro di anime, quello della città vista in esterno e quello della gente dentro la città, con caratteristiche formali diverse. Il primo fondale era molto futurista, il secondo sembrava una specie di Picasso, il terzo era una faccia di uno degli abitanti e il quarto era la facciata della casa. Poi la facciata si apriva, delle uscite davano sulla piazzetta davanti a essa e infine c’era l’avanzata della casa. La scenografia raccontava la storia, ed era come se gli attori facessero parte di questo quadro. La scenografia costituiva i margini, la cornice. Al suo interno, gli attori popolavano il racconto. In Diario segreto contraffatto era un po’ diverso. Pensavo la scenografia più come un libro: pagine bianche su cui gli attori costruivano ideogrammi, parole, calligrafie di un diario. Era come un libro che si andava sfogliando, fatto però di una parte visibile e di una parte sotterranea, che era poi quella che più mi interessava. A Roma mi colpisce moltissimo il fatto che ci sia un "sotto". Mentre cammino mi piace pensare a questa città sotterranea molto forte.

Le catacombe, i cunicoli...

Piazza Navona, per esempio, sotto è vuota: ci si può andare, ci sono delle rovine romane. Questa sensazione, vivendo a Roma da sempre, certe volte è così forte che passa nei miei sogni.

In Diario c’era anche un avvicinamento alla città come un viaggio dal sud al nord, anche se non si leggeva in questi termini nello spettacolo. Rimanevano inoltre elementi per cui il passaggio da alcune immagini naturali a uno spazio urbano aveva una forte componente barocca, anche visivamente. Lo spazio era una piattaforma semicircolare, con elementi tondi che negli spettacoli precedenti non esistevano. Era un barocco riletto anche attraverso l’archeologia industriale, un barocco del Novecento, in qualche maniera. Nel corso dello spettacolo, questa piattaforma si apriva, sfogliandosi, e costruiva 1a città. Era una scenografia monumentale, con tutti i limiti della parola: perché poi è risultato impossibile trasportarla.

C’è un altro percorso interno al tuo lavoro, verso un’esplorazione della soggettività. Da una immediatezza di reazioni nei confronti del mondo si passa a una sorta di introspezione, in una logica da autore nel senso più stretto del termine.

Non esisteva mai, anche negli spettacoli precedenti, un "fuori". Erano tutti mondi interiori, spazi mentali e interni. Nel caso di Diario segreto contraffatto questo elemento si era accentuato, proprio perché lo spettacolo era concepito come diario intimo, già nel titolo. Il mondo non è mai dato fuori dal sé, perché in fondo tutto l’universo si costituisce all’interno della coscienza.

Questo atteggiamento ha portato a un’analisi più scientifica dei processi della percezione: in La camera astratta, che è costruito appunto su un’idea di funzionamento della percezione, i riferimenti sono a Valéry, che ha trascorso buona parte della sua esistenza a osservare i meccanismi di formazione del pensiero, e poi a Sacks e a Lurija, cioè alle esperienze scientifiche più valide in questo campo. C’era un ribaltamento di prospettiva rispetto a Diario, in cui c’era la soggettività di cui dicevi, portata però all’estremo limite: quello del diario intimo in cui, penso agli esempi illustri di Baudelaire o di Kafka, questo riflesso viene staccato e questo distacco consente di proporlo oggettivamente, al di fuori. Per me questo distacco era dato proprio dall’elemento di contraffazione: tutto era spostato, deviato, rigirato, capovolto.

Pensavo anche a un ribaltamento dell’esperienza della Gaia Scienza, attraversata dal "collettivo", sempre assai sensibile a ciò che avveniva tutto intorno. Mentre alla fine del percorso ti sei trovato a esplorare la tua soggettività.

È vero anche che uno degli elementi fondamentali per la Gaia Scienza, ma non solo per noi, era il cosiddetto esistenziale: l’oggettività non era mai data in prima battuta, era sempre vista in rapporto al "come" questa oggettività rientrava all’interno, era sempre uno studio di riflessi interni che si configuravano poi come dati nel momento in cui venivano messi in scena. Il passaggio successivo a Diario è stato quello di confrontarsi con un mezzo diverso come il video.

Forse è il caso di fare un passo indietro: prima di lavorare in teatro con il video, avevi realizzato dei video dei tuoi spettacoli.

C’è anche un altro fatto: la nostra generazione è stata malata di cinema: una passione sfrenata per il cinema più che per il teatro, anche per noi che lo facciamo. Il teatro è una passione enorme: ma non come genere, bensì come possibilità.

Come possibilità esistenziale?

Anche. In effetti il referente del nostro immaginario collettivo è stato sempre il cinema. Con la possibilità di fare video, e quindi di lavorare sull’immagine in maniera semplice, economica e diretta, nessuno di noi ha avuto difficoltà ad appropriarsi del mezzo. È stato un processo quasi naturale.

Del resto credo sia successo lo stesso al cinema, che alle origini ha imparato molto dal teatro, mentre poi il teatro, a sua volta, ha imparato moltissimo dal cinema: ha cambiato ritmo, si è sveltito.

Anche nel montaggio di numerosi spettacoli: i vostri, per esempio.

E uno scambio inevitabile. Per me è stato normalissimo. Dapprima con Animali sorpresi e distratti, un piccolo assolo che facevo con i fondali dipinti di Claire Longo, una specie di studio che mi ha portato a Ladro di anime. Poi, appunto con Ladro e con Diario, mi è venuto naturale realizzare dei video. Ogni volta mi sono posto di fronte al video non come semplice strumento di ripresa dello spettacolo, ma per creare una piccola opera che si confrontasse con i generi del video che già esistevano.

Si tratta quindi di opere che hanno un valore in sé, indipendentemente dallo spettacolo che le ha ispirate?

Esatto. Con Ladro di anime volevo confrontarmi con il genere videoclip, portando però al parossismo l’elemento fondamentale di questo linguaggio, la velocità: è un clip di tre minuti e mezzo, delirante, velocissimo, ché contiene una marea di informazioni, percepibili solo dopo averlo visto più volte. Con Diario segreto contraffatto ho voluto fare un piccolo racconto, e infatti ho aggiunto alcuni testi che nello spettacolo non c’erano e che sono stati scritti apposta per il video. Quindi ogni volta c’era la volontà di esplorare possibilità diverse. Contemporaneamente è nato, in maniera casuale, l’incontro con Studio Azzurro. Abbiamo deciso di provare a unire video-installazioni e attori: l’incontro si è trasformato in un’esplosione che ha funzionato in maniera molto forte. A quel punto ci siamo resi conto che avevamo in mano un nuovo linguaggio. L’elemento decisivo è stato la possibilità di utilizzare un set, cioè la ripresa dal vivo degli attori, la cui immagine si trasferiva sulla scena e interagiva con gli altri attori che si muovevano sulla scena.

Quindi fondamentale è stata la costruzione di una doppia scena, quella teatrale e un set televisivo, con possibilità di interazione?

Sì. Quasi inconsapevolmente, come accade quando la pratica ti supera, abbiamo creato una forte metafora tra reale e riproduzione, tra immagine e corpo, che era data anche dalla divisione dello spazio, fondamentale sia in Prologo a diario segreto che in La camera astratta:un dentro e un fuori, in cui però il fuori è ancora dentro, come il gioco classico del teatro in cui tutto il dentro rimanda sempre a un fuori ed esiste e ha forza proprio perché esiste un fuori dalla scena che è tutto. Il fantasma del padre di Amleto appare ma continua a parlare nel sottopalco mentre scompare. C’è il sotto e c’è il sopra. A quel punto il fuori viene restituito da un’immagine.

Uno dei segni più forti dei primi spettacoli della Gaia Scienza era il tentativo di superare, di negare, di oltraggiare la legge di gravità: arrampicandosi sui muri, appendendosi a testa in giù...È un simbolo molto chiaro del desiderio di passare il limite, di superare quello che ti è dato come limite personale. Da un certo punto di vista, l’uso del video offre la possibilità di raggiungere questo spazio "oltre il limite": non a caso, ciò che il video restituisce allo spettatore, non è il reale, quanto l’immaginario.

È stato uno strano passaggio. Pensavamo che l’immagine fosse più vera del vero. Invece era la realtà a essere più immaginaria dell’immaginario. Il video è diventato il potenziamento della parte visionaria, anche perché lo spazio del set ha leggi sue proprie che non hanno niente a che fare con la realtà: è uno spazio impensabile, inconcepibile.

L’effetto realtà dipende piuttosto dalla presenza del corpo dell’attore sulla scena: di fronte a questo, tutto il resto viene proiettato nell’immaginario, l’immagine del corpo riprodotto sul monitor appare inevitabilmente più "finta".

Dall’analisi retrospettiva dei due spettacoli è emersa una cosa interessante. Prologo dava due spazi come due mondi diversi, il set e il palcoscenico, in cui interagivano tra loro immagine e realtà: c’era un dentro e, ogni tanto, un fuori che interagiva con queste immagini. In La camera astratta abbiamo fatto un’operazione diversa, ugualmente interessante: il continuo passaggio dal dentro al fuori, un continuo movimento, a volte circolare e a volte lineare. Un altro aspetto interessante è che Prologo utilizzava materiali grezzi che servivano a preparare Diario segreto contraffatto: era una specie di lettura degli stessi materiali attraverso un linguaggio diverso, come se da un romanzo si decidesse di ricavare un film e anche una messinscena. La camera astratta è nata in maniera diversa: si cercava una storia che funzionasse per quel particolare linguaggio, una storia mirata.

Mentre Prologo era stato una scoperta.

Con tutti i limiti che hanno le due operazioni: Prologo era un gesto istintivo, Camera astratta un gesto molto più pensato, con una propria composizione interna, ma tutto sommato più freddo.

Forse il limite maggiore dello spettacolo è che questa necessità di esplorare il rapporto tra i due media finisse poi per sovrastare tutto il resto, ciò che lo spettacolo avrebbe potuto dire autonomamente.

Questo era il suo limite. Ci siamo confrontati con un apparato tecnologico. Prologo è stato un tentativo riuscito, La camera astratta è stato un esperimento molto particolare, molto articolato nel linguaggio.

Era appunto la necessità di appropriarsi di un nuovo linguaggio.

Articolato nelle sue parti e con un carattere fortemente sperimentale. Il dondolamento che fa Benedetto sulla bilancia, tra un sasso che appare in un monitor da una parte e un sasso vero dall’altra è un po’ il simbolo di La camera astratta: è uno spettacolo che soppesa questo rapporto tra il peso del sasso e il peso del monitor con il sasso. Ha questo andamento dondolante, senza risolversi mai: un continuo soppesare due mondi attraverso entrate e uscite continue dall’uno all’altro mondo.

Come il vostro teatro, che è stato il soppesare il dentro e il fuori...

Anche l’ispirazione a Valéry o a certi dati scientifici, interpretati con la forza letteraria di Sacks o di Lurija, due autori straordinari, portava questo elemento di freddezza. Comunque, sia Prologo che La camera astratta, non sono spettacoli che ho fatto da solo, sono costruiti sin dall’inizio con Studio Azzurro. Da una parte c’è l’universo sovrabbondante, denso, vischioso, che mi appartiene: il Sud, caldo, eccessivo. Dall’altra un’anima un po’ nordica, molto precisa, tendente alla freddezza, soprattutto alla concettualità, che è quella di Studio Azzurro. Sono peculiarità legate alle rispettive esperienze: io ho sempre lavorato con persone, con corpi; loro con mezzi meccanici e elettronici, anche se il corpo l’hanno sempre tenuto in considerazione. Quindi c’è stato un doppio scambio che ha fatto bene a entrambi: a me è servito a pulire ulteriormente, a loro invece a sporcare il lavoro. Da questo punto di vista il rapporto ha funzionato.

È una strada ancora stimolante?

Sicuramente. Intanto ora, nella mia ansia di esplorare, vorrei esplorare la letteratura: non quella teatrale, drammatica, ma la letteratura come genere. Come è accaduto con le arti visive, la musica, l’architettura, che hanno avuto sempre un rapporto con il mio lavoro, anche la letteratura è sempre stata presente, ma come un alone. In questo caso la letteratura, e soprattutto la scrittura, sono entrate da sole, in un processo quasi naturale: La camera astratta sviluppava un certo tipo di presenza degli attori e un rapporto che per me portava direttamente e inevitabilmente a alcuni racconti di Kafka, anche se non so quanto questo si vedesse sulla scena.

Così ora affronti direttamente Kafka con Descrizione di una battaglia, ispirato a tre racconti, quello che dà il titolo allo spettacolo, La tana e La condanna.

Kafka scrive in maniera così totalizzante, tanto che la sua scrittura contiene già tutto: non può essere rappresentata. Rappresentare Kafka è un controsenso. È solo possibile eseguirlo, quasi fosse una legge da ottemperare, oppure un movimento musicale. Poi c’è una forte analogia tra la tana e la scrittura: la struttura stessa del racconto è come una tana. Ma per Kafka la tana era anche il corpo: il sibilo che l’animale sente alla fine è il sibilo del suo corpo, e insieme un sibilo che arriva dall’esterno. Kafka è morto tubercolotico: chiamava la sua malattia "la bestia" e, nella Tana, parla di questo animale che lo minaccia; ma, nello stesso tempo, c’è un’identificazione tra l’animale, il padre e una parte di se stesso. Per me c’era una fortissima analogia tra la tana e il teatro: la tana come luogo del teatro. Immediatamente il racconto è diventato metateatrale: una descrizione del teatro che al suo interno contenesse la commedia e la tragedia. La commedia è il racconto Descrizione di una battaglia, il primo scritto da Kafka: ha un andamento strampalato, di cui ho preso solo alcuni frammenti di un dialogo fortemente comico. La tragedia è invece il racconto La condanna in cui è il padre a farlo morire affogato. Nella Tana prendono corpo i due aspetti di questo teatro, che sono anche i due poli estremi di Kafka: la comicità e la drammaticità, che è però sempre molto ironica, grottesca. Nel momento in cui, in teatro, si affronta la letteratura, a differenza di altri elementi come l’architettura, si scopre che ti porta fuori dal teatro: perché ipotizza un fuori fortissimo, fatto di parole, di elementi che contengono simbolicamente uno scambio. Le parole sono moneta di scambio, e nello stesso tempo contengono informazioni molto definite. Questo è forse il passaggio da una interiorità, come dicevi prima, a un fuori dal teatro. È come se, con l’ingresso di un referente così forte, lo spettacolo non si ipotizzasse come l’unico spettacolo possibile o come contenente in sé tutto il tuo mondo, ma come uno degli spettacoli possibili: uno spettacolo di teatro, non il teatro. Mentre in ognuno degli spettacoli precedenti è come se avessi detto: "Per me questo è il teatro".

Erano sempre dei gesti molto definitivi, che mettevano la parola fine ogni volta.

Qui invece è solo una delle tante possibilità. Poteva essere Kafka come un altro, potevano essere quei racconti oppure un romanzo.

Credo che tu sia arrivato a una svolta, da un punto di vista concettuale, molto più forte di quella tra prima e dopo la Gaia Scienza.

Però è inevitabile, e lo vedo anche in altri autori, che in questo passaggio ognuno mantenga il proprio passato. In questo spettacolo c’è moltissimo del lavoro precedente. La scena, ad esempio, è un muro intero che chiude il boccascena, che poi si apre e si rigira su se stesso: un muro monolitico di sette metri per quattro di altezza. Girandosi, dalla parte frontale, si spacca e mostra una specie di ideogramma, la tana, che è un cunicolo scavato dentro il muro.

Come nei film scientifici sulle formiche?

Esattamente. Rompendo un vero intonaco si vede questo spaccato di tana che compone un segno ideogrammatico. Poi il muro si rigira: contiene degli elementi scenografici appena accennati, stilizzati, bianchi. È diviso in due. Si apre uno sportellone, una specie di portone, con una scala ripidissima, come quelle descritte da Kafka, e una finestra bloccata. Il muro si gira di nuovo, ritornando alla tana, si rigira ancora e avviene La condanna, nell’altra metà della parte posteriore, dove c’è una specie di armadio, stilizzatissimo, un altro elemento presente in Kafka, che aveva una sorta di repulsione per gli armadi e per le lenzuola in essi riposte, legate all’immagine del padre; il figlio giace bloccato nel ripiano più in alto, mentre il padre giace su quello più basso, ricoperto di lenzuola.

Da come lo racconti, l’approccio pare molto simile a quello di altri lavori.

Sì, però qui è legato ad una esigenza narrativa. Poi il muro si rigira ancora e ricompare la superficie spaccata che chiude la scena. Ci sono dei filmati, ombre che si vanno a confondere con le ombre dei personaggi, creando episodi che non esistono nella realtà: anche questo è un elemento presente negli altri spettacoli.

È il tuo primo lavoro narrativo…

…con un filo narrativo forte. È anche un testo recitato, in scena siamo tre.

Per concludere, ritorniamo alle cose che hai bruciato: hai qualche rimpianto?

No. E stato uno strano processo, abbiamo sgombrato tutto, tutto è finito con l’incendio di Berlino. [Nel 1978, a Berlino, dove la Gaia Scienza era in tournée, un furioso incendio distrusse il teatro e gran parte del materiale di scena. Questo episodio è stato trasposto in forma di romanzo da Franco Cordelli in Pinkerton. N.d.C.] Dopo abbiamo ricominciato a utilizzare questi materiali, ma consumandoli. In questo processo continuo di generazione e rifiuto si sono delineati degli elementi più stabili di altri. Per esempio, l’uso del video: è come se in La camera astratta quest’uso fosse arrivato al parossismo, per cui ho dovuto dire basta. Ma sono sicuro che nel prossimo spettacolo, dopo Kafka, il video ritornerà come elemento compositivo, insieme a altri. Diventa una possibilità di sviscerare dei contenuti: è come se avessi a disposizione un vocabolario in più per comporre.

Ne risulta un linguaggio estremamente arricchito, a furia di inglobare architettura, arti visive, musica, video... È ormai una grammatica molto articolata.

L’esperienza di tutta una generazione che ha affrontato il teatro da questo punto di vista ha rigenerato una pratica teatrale. Questo è un dato di fatto incontrovertibile. Una delle nostre funzioni si è realizzata: a questo punto, con grande orgoglio, possiamo dire di aver creato un tessuto su cui poter lavorare, anche se continueranno ad arrivare sempre nuovi stimoli.

http://www.trax.it/olivieropdp/barberio88.htm