Osservazioni e riflessioni sul libro di Revelli

Tutti i libri di Revelli hanno suscitato in me vivo interesse, vuoi per le lucide analisi, vuoi per lo spessore culturale, sicché i giudizi negativi formulati su "Oltre il Novecento" non potevano che destare stupore. Ciononostante ho letto il libro con animo scevro da pregiudizi e adottando l’umile tecnica dell’ascolto. Indubbiamente sono esaustive le analisi sulla "società del lavoro totale", sui paradigmi "dell’homo faber", sul fordismo, ma non mi posso esimere dal manifestare dissenso per alcune valutazioni, che ritengo opinabili e fuorvianti. Onde evitare fraintendimenti, non sono una comunista nostalgica e dogmatica che aspira ad occupare Palazzi d’Inverno. Ma una marxista che intende convivere con Marx e andare oltre Marx. Pur rilevando la puntuale indagine storica sul secolo breve, ritengo che le griglie interpretative siano riduttive, perché sottovalutano l’intricata trama di tutto il contesto storico, caratterizzato anche da un grande travaglio culturale. Mutuando Nietzsche, è opportuno sottolineare che "Un eccesso di storia impedisce di fare storia", nel senso che senza pathos e senza incertezze, non possono nascere né nuove fase storiche, né fantomatiche ipotesi di un "nuovo inizio". La storia, e non solo quella del Novecento, dovrebbe essere intesa come memoria collettiva del passato, coscienza critica del presente e premessa operativa per il futuro. Solo in quest’ottica lata, teorie, errori, avvenimenti, processi, possono essere decodificati alla luce di un’interpretazione ermeneutica, e ciò consentirebbe di non eliminare il bambino e l’acqua sporca. Paradossalmente, via via che si procede nella lettura del libro si avverte la spiacevole sensazione che si sia creato una sorta di legame di complicità tra capitalismo e proletariato, tra carnefici e vittime, tra oppressi e oppressori. Si demonizza il Novecento con fredda determinazione e con tesi luttuose, che poi suppliziano e diffamano , senza tregua e senza riserve, tutta la cultura di sinistra. Le mistificazioni del socialismo reale, l’assunzione di forme schematiche e aprioristiche del marxismo dogmatico, non giustificano la condanna di tutto un periodo storico, né consentono di stigmatizzare figure come Lenin e Gramsci. Purtroppo la malattia storica che affligge la nostra epoca è quella che tende a ridurre tutta la cultura al presente. Lucidamente Hans George Gadamer ha osservato "che viviamo in un’epoca assai poco filosofica" e ciò inficia il dialogo del presente con il passato. Passando dal dialogo allo iato, giova sottolineare che Revelli ritiene che Gramsci abbia interpretato "il partito nel suo ruolo poetico, realmente totalizzante" e che abbia riconosciuto nel fordismo "un organico e inedito modello sociale". Penso che estrapolare un pensiero da un contesto storico sia un’operazione opinabile e, al tempo stesso, strumentale. D’altro canto, "l’ Ethos critico impone di interrogare i rapporti tra potere e soggetto, e ciò implica la comprensione del gioco difficile tra la verità del reale e l’esercizio della libertà" (Focault). Non senza ragione Reymond Aron sostiene che "se si vuole che la totalità della storia sia intelligibile, i vivi devono sentire in sé una parentela con i morti". Pertanto, avvertendo questa parentela, soprattutto con colore che hanno sacrificato la vita in nome di quel "Regno della libertà", di marxiana memoria, ritengo opportuno fare esplicito riferimento "all’apostolo" del fordismo, ossia Gramsci. Quest’ultimo, convinto che la libertà sia la forza immanente della stoia, afferma: "Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico, anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire". Inoltre, Gramsci non manca di analizzare il rapporto passato - presente, infatti scrive: "Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vedere le grandezze e i significati, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della velleità del presente". Gramsci è dunque uomo del suo tempo, ma i suoi messaggi risultano ancora attuali e illuminanti. È evidente che Revelli adotta un modus operandi, che implicita una logica totalizzante e "detemporalizzante". Ne consegue che un "volontario" senza storia, non è in grado né di realizzare la militanza del comune, né di creare nuove resistenze. Le osservazioni fatte non intendono demolire tout court il libro, infatti le analisi sul fordismo e sul postfordismo, sul potere pervasivo della tecnologia, sul lavoro immateriale, colgono nel segno, anche se ritengo che l’impianto globale dell’opera "Capitalismo e conoscenza" di L. Cillario e di R. Finelli, sia più esaustiva. Finelli parte da un presupposto validissimo, ovvero che il postmoderno è il compimento del moderno, nel senso della sua piena realizzazione. L’elaborazione concettuale è fluida e variegata, perché penetra, con acume, nell’ortodossia del capitale e nei suoi effetti simbolici. Particolarmente interessanti sono le indagini sul paradigma cognitivo, sull’accumulazione di conoscenza, sul processo della nuova alfabetizzazione, ossia quella della macchina informatica. In questo quadro s’inscrive anche una esemplare analisi sul lavoro mentale e sul capitale cognitivo, che generano poi la falsa coscienza e una soggettività subalterna. Ciò significa che il regime proprietario riduce tutto a mezzo, sicché fini, desideri, volontà, identità, vengono sussulti al processo di socializzazione del capitale. Si pongono, pertanto, i seguenti interrogativi: come si può "mettere in rete l’eterogeneità"? Come si può attuare "la pratica dal basso"? Su quali basi individui anonimi e atomizzati possono diventare soggetti di un reale mutamento, quando e valori dell’ideologia dominate colonizzano le coscienze? Se per un verso i movimenti sociali antisistemici devono battere vie inedite, è altresì vero che "la globalizzazione dal basso", come la definiscono Brecher e Costello, dovrebbe coordinare le proprie forze in modo organico, per ovviare alla esemplificazione delle proprie potenzialità. Revelli fa riferimento al popolo di Seattle, come possibile panacea di tutti i mali. A questo proposito Serge Halimi ha osservato che gli avversari della globalizzazione neoliberista stanno cadendo nelle lusinghe delle "tecniche di seduzione", confondendo così la realtà con l’impatto mediatico. "E non si rendono conto" sostiene ancora Halimi "che in questo modo l’unico risultato che ottengono è il rafforzamento del potere". La verità è che la globalizzazione dei soprusi e della barbarie non consente l’espulsione dell’antagonismo, perché gli spiriti animali del mercato, che nel secolo breve erano stati condizionati, oggi travolgono confini e barriere, devastando tutti i sistemi di protezione sociale, e generando miseria e morte. Purtroppo, come vuole Pierre Bourdien, "lo slancio irrealista di molti intellettuali ha indotto a confondere una rivoluzione nell’ordine delle parole con una rivoluzione nell’ordine delle cose". Vero è che non pecca di irrealismo Pietro Barcellona, che nel suo libro "L’individuo e la comunità", non si smarrisce nel torbido oceano delle parole, ma focalizza i parametri della società odierna, incentrando l’attenzione sulla "pratica atomizzata della vita collettiva". In quest’ottica, Barcellona prendendo atto della determinazione quantitativa dell’individuo, afferma: "Il soggetto è debole perché il sistema è forte, e il sistema è forte perché ha introiettato la logica proprietaria dell’individualismo borghese". Il fatto inquietante è che il regime proprietario, con il suo potere onnipervasivo, ha sussulto anche il pensiero di molti intellettuali, che, con fumose griglie interpretative, non solo azzerano valori imprescindibili, ma incrementano anche il caos e la dilagante patologia della mimesi. Ciò comporta l’espulsione di una formazione rivoluzionaria, che risiede soprattutto nel riconoscimento di essere individui socialmente determinati. Da qui l’esperienza di rivisitare il passato criticamente, senza però sminuire le lotte intrise sdi sangue che hanno caratterizzato il secolo breve. In una fase in cui il Comunismo viene diffamato, suppliziato, picchiato e masturbato a morte, gli intellettuali, contro tutti i fascismi, dovrebbero mettere in luce gli errore storici, ma nel contempo, disporre il bandolo della matassa, rendendo intelligibile l’idea dell’autentico comunismo. In altre parole, l’intellettuale non può identificarsi nel vis bonus dicendi peritus, ma dovrebbe riscoprire l’engagement. Ciò non significa optare per un sogno di delirio solipsistico, ma prendere coscienza che la vita morale non è garantita da alcun ordine superiore, né dalla società né dalla storia, perché è affidata all’impegno vivente dell’individuo. Come voleva Sartre, "la libertà nasce dall’impegno; l’impegno è al servizio della libertà". Capovolgere la situazione esistente senza progetto, nella totale assenza di ogni disegno, non solo è un’idea bizzarra, ma anche fuorviante. Giustamente Focoult affermava che "l’intellettuale ha smesso di essere universale per diventare specifico, cioè non parla più in nome di valori universali, ma in nome della propria competenza e situazione". Le osservazioni fatte intendono sottolineare che nel libro di Revelli mancano tensioni dinamiche e, di fatto, non esiste la tessitura di un discorso che implichi "l’evento". A questo proposito Deleuze sosteneva: "Il fatto è che ciascuno ha le proprie abitudini di pensiero: io ho la tendenza a pensare le cose come insiemi di linee da districare, ma anche tagliare e ritagliare. Non amo i punti, fare il punto mi sembra stupido". Ne consegue che il grande "punto" che Revelli ha messo a tutta la cultura di sinistra del Novecento, non solo è opinabile, ma esclude anche ogni etica della responsabilità. Continuando nella disamina dell’opra, occorre evidenziare che non mancano critiche al libro "Il lavoro di Dioniso", di Michael Hardt e Antonio Negri. Ciò non può destare stupore, dal momento che Revelli parla della "fredda razionalità dell’approccio materialistico". Negando l’accezione piatta e "volgare" del materialismo, va precisato che la scansione dei temi trattati, nel libro di Negri, si esplicita all’insegna della metodologia rivoluzionaria del materialismo, sicché emerge la vis viva per un’alternativa. Ovviamente questa impostazione non può che suscitare il dissenso di Revelli. Per Comprendere l’autentico spirito del materialismo, sarebbe auspicabile una lettura dell’opera di Toni Negri, "Spinosa". In questo libro Negri valica gli angusti limiti di ogni metafisica politica e approda a una visione illuminante del materialismo. Decodificando "l’anomalia selvaggia" spinoziana, Negri scrive: "L’Ethica è un’opera metodica, non perché il suo prolisso metodo geometrico sia un paradigma di ricerca, bensì perché è un’opera aperta , definizione di un primo tracciato di appropriazione e costruzione del mondo". Giova rilevare che le interpretazioni sul materialismo di Negri hanno suscitato profonda ammirazione in Deleuze, Macherey, Matheron e in altri intellettuali di altissimo spessore. Pertanto vale la pena sottolineare che fare i saldi di fine stagione del materialismo e della sua linfa vitale, non è solo demenziale, ma è anche funzionale all’assetto sistemico. A questo punto, vorrei affrontare un altro problema, ossia quello inerente "la violenza comunista". Se per un verso tutte le forme di violenza sono deprecabili, è altresì vero che la violenza non è una categoria metafisica, sicché il fenomeno non può essere ritagliato e isolato dal flusso degli eventi. Rimovendo le generalizzazioni, che sono peraltro sempre deleterie, è opportuno ricorrere ad una legge della fisica, che così recita: " A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria". Vero è che i crimini dello stalinismo sono stati nefasti e sono la prova tangibile di una grossolana caricatura del comunismo e dell’astrazione dei ogni umanità. Preso atto che Revelli ha criticato "il dominio poliziesco" della violenza comunista, a questo punto mi assale un dubbio: ma Revelli milita ancora in Rifondazione Comunista? Se così fosse, occorre rievocare un episodio che si è verificato a Lecce nel 1997 (non nel 1917), quando sei compagni, compresa la sottoscritta, furono espulsi con l’accusa di "frazionismo". Menzogne, intrighi, abiure, forme aberranti di delezione, dimostrano la riesplosione di modelli staliniani, confortati, come da copione, da patetici interrogatori e da tribunali d’inquisizione. Paradossalmente, proprio quei dirigenti, che avevano orchestrato la congiura, oggi hanno ruoli di spicco all’interno del partito, pur continuando a praticare una politica, che poco spazio concede all’idea del comunismo autentico. Sempre partendo dall’ipotesi che Revelli sia ancora un militante di Rifondazione, si pone un altro interrogativo: la figura nebulosa del "volontario", non coincide, forse, con quella del giovane dei centri sociali, che, "opportunamente" guidato, potrebbe votare Rifondazione Comunista? Come ho affermato precedentemente, queste sono ipotesi, mentre il libro rappresenta una realtà destabilizzante, soprattutto per chi pensa che gli spettri di Marx continuino a parlare anche nell’epoca barbara della globalizzazione. Tengo a precisare che concordo appieno sulla necessità di uscire dalla "società del lavoro" o dalla "società salariale", come la definisce Michel Aglietta. Ipotizzare un salto di paradigma non significa approdare, però, ad una "morale provvisoria", né significa estirpare le radici della cultura di sinistra. In altre parole, nell’era del globalismo trionfalista, i movimenti antisistemici, se vogliono sortire effetti positivi, pur rappresentando la multilateralità dei bisogni, avvalendosi di una sorta di "sincretismo antagonista", non dovrebbero operare uno iato tra prassi e memoria storica. Giova chiarire che non si tratta di sadere in bizantine dispute ideologico - culturali, ma di valicare una Weltaschaung. D’altronde, nella consapevolezza che con il postmoderno sono mutati i rapporti di produzione e che la forza - lavoro s’è "metamorfizata", occorre proporre "l’Esodo", in modo dirompente e, nel contempo, mettere in luce che l’Esodo altro non è che la figura spettrale di ogni comunismo. Ciò significa che il materialismo risorge, e nel suo insorgere è sempre rottura del pensiero di dominio. D’altro canto, il materialismo è creativo, perché inscrive nel suo codice vigore, passione e forza, espellendo così tutte le forme di trascendentalismo.

In quest’ottica, l’Esodo diviene evento creativo, che libera il lavoro vivo dalle gabbie del capitale. D’altronde il lavoro vivo, per la sua valenza intrinseca, è "Dioniso della libertà", e proprio in virtù di questa assunzione, Enrique Dussel, mutuando Marx, lo vede come "soggettività, persona, corporeità immediata". Dinanzi alla profonda illegittimità della storia e ai paradigmi infami dell’esperienza deificata, s’impone l’esigenza di negare le negazioni dell’ambiguo e strumentale progressismo e optare per una radicale criticità, dando, però, un taglio rigoroso e intransigente e non opponendo un tremulo distinguo. Sicché, solo mediante la rifondazione dell’etica, si potrà percorrere "la via in su, che va dal singolare al comune". Le osservazioni fatte non vogliono essere "un balbettio ideologico", ma perseguono l’obiettivo di rilevare che "Marx è un fantasma che continua a parlare". Non senza ragione Deridda, decostruendo la pluralità dei linguaggi di Marx, afferma: "Ispirarsi ancora a un certo spirito del marxismo, sarebbe essere fedeli a quel che ha sempre fatto del marxismo, in principio e innanzitutto, una critica radicale, cioè un metodo do procedere pronto all’autocritica". Nella consapevolezza, che, come vuole Deridda, "l’eredità di Marx è un compito", l’imperativo categorico dovrebbe essere quello di attingere da quel patrimonio culturale, facendo riferimento soprattutto ai "Grundrisse", che rappresentano ancora un prezioso laboratorio di ricerca. Pertanto, negando la deleteria rassegnazione, per passare dal non-essere all’essere, non solo è necessario opporre "il grande rifiuto", di marcusiana memoria, ma operare anche una sovversione etica.

Wanda Piccinonno