Concorrenza e monopolio

Vittorangelo Orati

 

Concorrenza e monopolio nel mercato del voto: la degenerazione monarchica dell’Università

Mi varrò di una acquisita metodologia che ha fatto importare dalla scienza economica nelle scienze politiche il paradigma delle "forme di mercato" e degli algoritmi connessi per meglio indagare con rigore analitico l’inesauribile problema teorico e quindi realizzativo della "democrazia". Non senza premettere ciò che troppo spesso, e non saprei se ciò avvenga o meno pour cause, si rimuove dallo sfondo della vasta letteratura che su tale centrale problema si esercita. Problema quello della "democrazia" che sostanzialmente esaurisce il terreno proprio dell’epistemologia delle scienze politologiche.

Il "rimosso" cui mi riferisco riguarda una lunga serie di teoremi che a partire da Condorcet per finire con il Premio Nobel per l’economia Robert Solow sono raggruppabili come "teoremi sull’impossibilità della democrazia".

Di tali teoremi è agevole dare conto entrando immediatamente in medias res a proposito dell’accennato paradigma delle "forme di mercato" e del suo ruolo euristico in tema di democrazia. Ebbene, l’impossibilità della democrazia è facilmente dimostrabile facendo riferimento all’intuibile concetto di funzione e relativa curva aggregata di benessere sociale ( o benessere collettivo). Data le preferenze di ogni soggetto economico, e qui occorre avvertire del caveat che riguarda la reciproca indipendenza di tali funzioni di preferenza, postulando la scarsità delle risorse disponibili rispetto ai bisogni complessivi e quindi il problema della loro distribuzione, appare ovvio che sono possibili solo le seguenti alternative:

1) il caso del tutto speciale dell’unanimità la cui " impossibilità"- sui fondamenti della filosofia dell’ "utilitarismo" e dell’ "individualismo metodologico " che informano la letteratura tale impossibilità è assiomatica costituendo la negazione dell’assoluta singolarità della soggettività dei "cittadini"- è nota da sempre, come quella dell’"utopia equidistributiva" che è assimilabile alla realizzazione della perfetta, pura "libera concorrenza";

2) Il caso della dittatura o monarchia assoluta, assimilabile a sua volta alla forma di mercato nota come "monopolio";

3)Il caso generale che gli stessi apologeti del liberalismo e del liberismo non esitano a definire come "dittatura della maggioranza sulla minoranza"..

Citerei a tal ultimo proposito un altro Premio Nobel per l’economia, Friedrick August von Hayek e quanto questi ha affermato in una "lecture" dedicata alle sue preoccupazioni sulla progressiva decomposizione della democrazia come concetto e al degrado che questa ha subito nelle sue concrete e storiche applicazioni. A tal riguardo il massimo esponente della "scuola austriaca", tra l’altro, afferma:

"… si è creduto che il controllo del governo dei rappresentanti eletti della maggioranza renda superflua ogni altra verifica del potere del governo…Così è sorta la democrazia illimitata – ed è proprio la democrazia illimitata , non già la democrazia, il problema odierno. Tutta la democrazia che noi conosciamo oggi in Occidente è più o meno una democrazia illimitata… Mentre personalmente credo che una decisione democratica su ogni argomento su cui ci sia un accordo generale che richieda una qualche azione necessaria del governo è un indispensabile metodo di pacifico cambiamento, sono anche convinto che una forma di governo in cui una qualche maggioranza temporanea può decidere che qualunque materia gli piaccia debba essere riguardata come un affare che interessa tutti ( "commons affaire") e soggetta alla sua discrezione sia un’abominia."

Si tratta dell’essenza di quanto ha portato Hayek a diagnosticare della deriva della democrazia in forma di "dittatura della maggioranza sulla minoranza" ben racchiusa nell’alternativa esclusiva da lui indicata con le parole: " Possiamo avere o un parlamento libero o un popolo libero", convergendo con Schumpeter circa l’imporsi nel tardo capitalismo del paradigma del "mercato del voto" e quindi nel convincimento per cui " gli uomini politici cedono tanto volentieri quanto più la distribuzione dei privilegi consente di comprare il voto dei sostenitori."

Seguendo Schumpeter nella sua individuazione della dottrina "classica" della democrazia, per cui questa consisterebbe in quello

" insieme di accorgimenti costituzionali per giungere a decisioni politiche, che realizza il bene comune permettendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà"

palmare risulta a questo punto la cogente validità della tesi dei teoremi dell’" impossibilità della democrazia" in quanto quest’ultima resta omologata e relegata al caso della pura "utopia", riguardando il caso generale la del tutto insoddisfacente e ibrida situazione intermedia tra dittatura dichiarata e utopia: proprio come il capitalismo oligopolistico e i suoi "persuasori occulti" rappresenta l’equivalente della democrazia "reale", in quanto situazione più prossima al monopolio e pertanto negatrice dello sbandierato ottimo economico rappresentato dall’equilibrio di libera e perfetta concorrenza.

La temuta degenerazione della democrazia in consenso organizzato dall’alto e apparentemente legittimato attraverso lo strumento del voto popolare preorientato è sotto gli occhi di tutti, approssimandosi oggi più alla profezia orwelliana che al timore hayekiano.

Non mi intratterrò pertanto su tanto tragiche evidenze, tentando una possibile bozza di analisi circa i legami causali che è lecito cogliere tra crisi conclamata della democrazia, caduta verticale del livello delle classi dirigenti cui sono affidati le sorti della democrazia, e stato pressoché comatoso del luogo per gran parte deputato a formare tali élites: le università ( minuscola voluta). Dove a proposito di tal ultima istituzione specifico che le considerazioni seguenti trovano motivo di ispirazione prevalente nel panorama italiano, nel mentre a livello più "universale" il fenomeno più generale che andrebbe considerato è quello che con Julien Benda resta definibile - e costamente di attualità-, come La Trahison des Clercs ( Il tradimento degli intellettuali, 1927).

Per sostenere quanto affermerò in seguito, è nuovamente opportuno rifarci al paradigma economico che informa l’indagine scientifica in materia politica, ed anzi e più precisamente all’economista cui unanimemente è riconosciuto il merito di aver elaborato e suggerito un tale prolifico paradigma, Joseph Alois Schumpeter ( non senza una qualche originale rivisitazione) che, ci preme evidenziarlo, si pone alla destra estrema del liberale Hayek, agognando come rimedio all’ "impossibilità della democrazia" un impero teocratico mondiale con a capo il Papa. Ciò per fugare ogni sospetto di suggestioni "bolsceviche" alla base delle conclusioni cui perverrò.

Schumpeter dopo aver evidenziato la fragilità teorica e applicativa della "settecentesca" concezione "classica" più su riportata della democrazia, capovolge il ruolo delle sue componenti, proponendo una versione "realistica" che così suona: " " il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare".Tralasciando tutto il disincanto con cui il Nostro tratta la materia della "manipolazione" dell’ ingenuo idealismo sotteso al concetto di volonté générale e a quello di "bene comune", la appena riportata definizione trasforma la questione della democrazia in quello della lotta per il potere e la leadership politica.

Qui occorre, almeno parzialmente, integrare se non riempire un vuoto analitico di Capitalismo, socialismo e democrazia ( d’ora in poi Csd ) dove si assume assiomaticamente che "storicamente la democrazia moderna è nata con il capitalismo mantenendo con esso un chiaro rapporto causale". A tal fine è qui almeno sufficiente stabilire che la lotta per la "maggioranza" nella lotta di concorrenza per il voto ai fini della leadership è strettamente e largamente legata alla promessa realistica o come tale percepita dagli elettori di un aumento del reddito ("benessere"?) personale come quota di un crescente dividendo nazionale del surplus ottenuto attraverso lo sviluppo economico, o attraverso una ridistribuzione regressiva a favore della "maggioranza" di un Pil costante o decrescente ai danni di una minoranza di elettori. Alternativa quest’ultima che naturalmente oltre a imporsi nel caso si pretenda di ottenere un voto maggioritario per il rinnovo del mandato di leadership ( governo) in presenza di una situazione di stagnazione del reddito nazionale può combinarsi con la prima pur in presenza di un’effettiva dinamica di crescita economica.

Ciò posto, il nesso causale e bilaterale tra politica ed economia capitalistica in quanto modo di produzione teso immanentemente all’accumulazione del capitale (sviluppo) è reso palese; così come il carattere più o meno progressivo/regressivo della sua leadership politica il cui compito storico

( missione storica) risulta oggettivamente definito come attività tesa ad assicurare attraverso l’intervento /non intervento dello Stato ( di cui dispone chi detiene la leadership democraticamente conquistata) l" "ambiente sociale" da cui ottenere il "consenso", nella tenuta dell’arena dove la logica configgente di classe nella produzione e distribuzione/ridistribuzione del surplus trova il suo luogo d’imputazione:la dimensione economica. Emerge altresì con chiarezza la ambivalente causalità o interdipendenza tra politica ed economia una volta che non si cada nella trappola "ideologica" ( nel senso autentico di "falsa coscienza") della concezione naturalistica e quindi antivolontaristica dell’intervento pubblico alias politico nelle definitorie alterne vicende cicliche del capitalismo caro alle "anime belle" del liberismo da bancarella . Trappola che fissa altresì la identità tra concezione "classica" della democrazia e il liberalismo- liberista posto a quintessenza della logica economica in veste capitalistica. La classe politica, a meno di eclatanti aporie "ideologiche" da "1984" - come nel caso italiano e thailandese- è chiamata a rispondere in modo attivo, nella divisione funzionale del lavoro con la classe capitalista, al ruolo da questa oggettivamente rivestito come soggetto storico che ha portato l’umanità a scoprire attraverso la applicazione della scienza ai processi produttivi la via dello sviluppo economico e quindi della tendenzialmente possibile affrancazione dell’umanità dai bisogni e quindi dal lavoro.

In questo quadro va inserita la nascita e la missione storica della "Università Moderna" come luogo di produzione e sviluppo del "sapere", che - come genialmente diagnosticato da Bacone – diventa, nella modernità, "potere". Anche nel senso di formazione, ricambio e sviluppo della "classe dirigente" o classe (o classi) cui è demandato il compito di esercitare il potere stesso. Oltre evidentemente a trasformare il sapere immediatamente in teknè a diretto servizio della sfera produttiva.

I "miracoli" della teknè sussunta endogenamente allo sviluppo del capitalismo sono stupefacenti sino al punto da aver di fatto "secolarizzato il mondo" attraverso quel processo di disincantamento del mondo" magistralmente colto da Max Weber, che altro non traduce se non l’inveramento del "feticismo della merce" e del denaro. Che sostituisce alla metafisica salvifica delle religioni quella tutta mondana della "felicità" qui e subito. Invertendo il nesso calvinista tra successo terreno e predestinazione alla salvezza (ci si salva per la ricchezza e nella ricchezza risposta ultima all’eudemonismo, hic et nunc e non già grazie alla semiologia teologica della ricchezza) sostituendo alla diacronia terreno/ultraterreno la ipostasi sincronica della fortuna secolare.

Ma allo spettacolare sviluppo della scienza, o meglio e essenzialmente delle sue ricadute guidate dai processi produttivi capitalisticamente orientati, si è accoppiata, proprio per ciò ( pour cause ) una schizofrenica e crescente frattura tra la gestibilità di un tale progresso per condurre l’umanità fuori dal regno del bisogno e l’artificiale ampliamento e riproposizione folle di quest’ultima dimensione affidata alla più florida delle industrie: quella dello spreco ( waste industry ) con la creazione di falsi bisogni o l’inutile ricorso a nuove formule per soddisfare vecchi bisogni. Il tutto sotto la regia della planned obsolescence e il sancito divorzio dell’uomo dalla natura e quindi da se stesso.

E come le crisi cicliche, connaturate alla dinamica capitalistica e inutilmente e ripetutamente esorcizzate attraverso la loro negazione o le false diagnosi e cure ( Keynes e tutta la politica economica fondata sui "grandi aggregati", che nascondono proprio ciò che dovrebbero rivelare ), si sostanziano in un eccesso "generale"di offerta rispetto alla domanda ( lo "scandalo della miseria nel mezzo dell’abbondanza" ), così la "scienza" che vi è sottesa risulta sovrabbondante rispetto alla richiesta di cui ne abbisogna la logica de "tardo" modo di produzione capitalistico. E da tale eccesso di "scienza" ne consegue quello della sua fabbrica moderna: l’"università". La cui sopravvivenza quando non anche "riproduzione allargata" – fatta eccezione per alcuni e riservatissimi "poli di eccellenza" essenziali alla tenuta del sistema e allo sviluppo della teknè che ne assicura il potere – da un lato è sbocco sicuro per surplus strutturalmente eccedentario, e dall’atro lato è fabbrica privilegiata dei "mandarini" che assicurano la tenuta del consenso sociale provvedendo alla "formazione" e riformazione del "mandarinato" di cui l’equilibrio del sistema necessita. "Mandarinato" che per mandato storico costituisce blocco sociale con la classe che detiene i mezzi di produzione e che insieme a questa e alla classe politica ( in generale) definisce la così detta "classe dirigente" o quella che Michels, Pareto e Mosca chiamano élites.

 

Dunque il fallimento della "classe dirigente" è innanzi tutto storico in quanto non in grado di gestire "razionalmente" ai fini del "progresso" ciò che lo stesso modo di produzione vigente oggettivamente e potenzialmente in modo progressivo è in grado di produrre, risultando costantemente la sua offerta superiore alla sua domanda, circostanza rivelata dal ciclico eccesso di forze produttive ( crisi ) rispetto agli stessi artefici e quindi potenziali richiedenti i frutti di tali forze. Ed all’interno di tale fallimento il suo principale luogo d’imputazione va additato nella "fabbrica del sapere" . Nella migliore delle ipotesi o first best nei pochi luoghi di "eccellenza" per il fatto di subordinare la propria efficienza eccedentaria a una logica che la distorce quando non distrugge ( vedi il "complesso militar- industriale"). Nella stragrande maggioranza dei casi per una "inefficienza capitalistica" del tutto particolare. Infatti nella pervasiva crescita dell’ "akkademia" come ha evidenziato la non "falsificata" teoria khuniana della storia della filosofia della scienza, la produzione della scienza stessa si attua attraverso rivoluzioni dei paradigmi scientifici. Rivoluzioni che si impongono non già attraverso quello che si è usi propagandare come quotidiana lotta tra teorie alternative dove prevarrebbe la migliore tra esse, bensì attraverso la "falsificazione" del paradigma vigente, storicamente esogena al mondo dell’università e della ricerca lì dove il paradigma o "verità" da sostituire non sono più coestensivi e utili in luoghi decisivi della produzione e/o del potere capitalisticamente orientati. Mondo dell’ università e della "research" che, a sua volta nel migliore dei casi o second best, e in una gerarchia ""mandarina" o feudale è dedito alla produzione di "scienza normale" quella che si esercita nel puzzle solving connesso al paradigma vigente. Accanto alle poche "stelle" del first best e alle "costellazioni" del second best si pone poi la stragrande maggioranza della "galassia" universitaria, dove gli standard di ricerca e formazione non sono né forniti né richiesti a livelli che assicurino almeno la "riproduzione semplice" dello stato delle conoscenze tecnico scientifiche necessario all’equilibrio "meramente riproduttivo" dello "stato del mondo" e del sotteso modo di produzione riproduzione del sistema tutto. Modo di produzione che nel mentre produce contraddittoriamente troppa "scienza" rispetto alle sue esigenze di autoconservazione e per la quale bastano e avanzano le poche ""fabbriche del sapere "di cui si è detto, proprio per assorbire l’eccesso di output che da tale "sapere" si traduce in eccesso di merci ha bisogno di "lavoratori capitalisticamente improduttivi" da cooptare nel sistema di creazione del consenso e dell’apparato che vi presiede in termini di "risorse umane".

Di qui il proliferare della crescente "provincia" del sapere ovvero di università di livello scadente e meno che scadente ( sino all’inutile se non dannoso in senso assoluto) dove collocare/arruolare personale per sostenere il bluff del mito e dell’illusione illuminista della marcia inarrestabile nel tempo della "conoscenza", ovvero conservare o "migliorare" parametri formali di status sul piano internazionale, contemporaneamente tamponando il crescente iato tra crescita delle forze produttive sostenute dalle innovazioni tecnologiche e distribuzione in equilibrio dinamico dei redditi da lavoro in rapporto all’ accumulazione del capitale ( equilibrio intersettoriale tra settore dei beni di consumo e quello dei beni capitali

( ottenuti con l’ investimento del profitto in "capitale costante). Qui – per quanto detto- la assente cogenza esogenamente esercitata dal contesto socio-politico sulle performances scientifico-formative della galassia università della periferia accademica del "sapere" , insieme al crescente potere autoreferente di tipo lobbystico delle università stesse sugli apparati della politica, alimentato dall’entente cordiale con questi apparati con i quali da tempo specie nel nostro Paese si sono stabiliti reciproci commerci a "tariffe preferenziali" e mutue"politiche promozionali" , è alla base del progressivo scadere di ogni parvenza democratica nella regolazione della vita degli atenei in forme tendenzialmente "monarchiche". Dove la figura elettiva dei rettori affidata al metodo democratico dell’alternanza fissata dal limite statutario dei mandati nell’ambito dell’ottenuta "autonomia" sta trasformando una tale autonomia in una vera e propria licenza all’autocrazia. Basti in tal senso pensare che oltre il 38% dei rettori italiani hanno in un modo o nell’altro ottenuto un prolungamento - che in alcuni casi verrà interrotto solo dall’età della pensione - del loro "mandato" senza soluzione di continuità dalla loro prima nomina andando oltre i limiti in tal senso fissati dai primitivi statuti, che in qualità di "magna charta" dell’ "autonomia universitaria" si mostrano troppo facilmente vulnerabili da manipolazioni autocratiche.

A tali ultime valutazioni di denuncia è possibile dare rigore, che va oltre la mera denuncia di fatti a tutti noti e che come puri fatti poco mostrano di incidere in vista di un auspicabile mutamento. Rimanendo infatti nel quadro politologico positivamente contaminato dal contributo della economics e del suo prestigio analitico attraverso l’eredità opportunamente rivisitata di Schumpeter , è così possibile evidenziare i profondamente nefandi esiti economici della suddetta deriva "monarchica" di tanta parte del sistema universitario italiano. Che in un epoca di perdurante stagnazione economica esige non solo un più produttivo uso delle risorse date ma un impellente richiamo di tale sistema a rifondarsi onde offrire il suo indispensabile contributo in termini di ricerca come fornitore di innovazione ai fini produttivi e di innovazione formativa per un inderogabile bisogno di rinnovamento della "classe dirigente", in particolare dell’Italia; altrimenti già sulla via del sottosviluppo.

 

Sfruttando l’omomorfismo tra il modello di Kuhn della "struttura delle rivoluzioni scientifiche" e quello del modello di Schumpeter dello "sviluppo economico" ci pare utile iniziare a stabilire la coincidenza tra il concetto di Kreislauf o "flusso circolare del reddito" , o ancora, equilibrio riproduttivo statico-stazionario del sistema economico e la situazione di "normale stato dell’arte" dello sviluppo della scienza: sotto lo stimolo della "concorrenza" o "competizione" vuoi per il dominio del mercato economico che di quello della "scoperta scientifica" rispettivamente ( cui d’ora innanzi farò riferimento con l’indistinto termine "concorrenza") si determina una situazione di mancato sviluppo in assenza di "innovazione" vuoi del paradigma tecnologico-produttivo che del paradigma scientifico, rispettivamente ( d’ora in poi riferendomi con il termine "paradigma" ad entrambi i contesti ).

Senza entrare nel dettaglio dei rispettivi modelli in predicato, per entrambi vale come stimolo esogeno dinamico che rompe con il mero e statico equilibrio riproduttivo una "innovazione" ( o "scoperta", che nel caso di Schumpeter va applicata ai processi produttivi e non resti relegata al mero piano potenziale o teorico) che scalzi il paradigma sin lì imperante dando luogo al primum movens dello sviluppo economico e scientifico ( d’ora in poi "sviluppo" per entrambe le accezioni) per il compiersi del quale dopo l’iniziale monopolio dell’innovatore è necessario lo stimolo ( e solo lo stimolo e non l’imporsi del relativo equilibrio ) permanente della concorrenza che fornisce i disseminatori dell’innovazione nei rispettivi sistemi ( economici e scientifici, di qui in poi intesi indifferentemente come "sistemi"). Ogni blocco del fenomeno imitativo-disseminativo costituendo una strozzatura allo sviluppo dispiegato dell’innovazione nell’intero sistema dà luogo ad una "improduttiva" rendita parassitaria di tipo oligo-monopolistico che determina una caduta del potenziale economico e quindi sociale dell’innovazione e quindi un minore estrinsecarsi della produttività e del progresso connesso all’innovazione.

Ammesso e non concesso che se si assume la più romantica e auspicabile delle ipotesi in base alla quale I rettori vengono eletti per il loro prestigio scientifico non già per le loro virtù di "maneggioni politici"- come di fatto spesso avviene nella realtà con l’aggravante di appartenere al filone sedicente progressista della "sinistra", ormai tale solo in senso sinistramente lombrosiano - che con tali virtù non solo hanno poco da fare ma sono altamente configgenti e controindicate - e nauseanti nel caso della predetta "aura" politica operante secondo i crismi delle cosche mafiose"-, e si assume lecitamente che essi siano espressione di una maggioranza accademica che nelle sue componenti esprime l’egemonia dei rispettivi paradigmi scientifici. E si ipotizza inoltre che la resistenza al nuovo paradigma significa lo scalzamento della leadership delle "scuole" che hanno partecipato all’affermarsi del paradigma precedente e alla cui resistenza al "nuovo" si connette il predominio delle vecchie leadership stesse, si comprende come il turnover della figura dei rettori rappresenti molto più di un astratto e sacrosanto obiettivo democratico, incerando una assoluta necessità per il migliore utilizzo delle risorse esistenti ed ancor più per la miglior garanzia al loro utilizzo ai fini dello sviluppo economico di una nazione sul piano della ricerca e del ricambio della sua "classe dirigente". E ciò al di là della natura e all’orientamento politico della leadership della "nazione", rappresentando un evidente "dover essere" per qualunque logica sociale che non può ammettere che si sprechino risorse almeno per la propria riproduzione.

 

Postilla per il caso italiota

 

Resta da considerare come perniciosa aggravante della attuale tendenza autocratico-monarchica in atto negli atenei italiani quella della natura del rettore come unico arbitro della distribuzione delle risorse economiche e del loro utilizzo ai fini della promozione sine nobilitate dei curricola e delle carriere accademiche dei propri elettori. Ne fa triste testimonianza la supina accettazione delle sciagurate riforme dell’università italiana in senso localistico da parte della loro rappresentanza istituzionale pronta a mobilitarsi lancia in resta solo dinanzi a blocchi dei finanziamenti pubblici ai loro bilanci che si sostanziano in una interruzione della sciagurata permanente politica di allargamento dei budget di spesa dei singoli atenei in costante stato di "ciclo elettorale". Se, come Schumpeter e tutta la letteratura accreditata in materia di democrazia evidenzia, a livello nazionale la democrazia si sostanzia in ultima analisi in " mercato del voto" figuriamoci cosa accade lì dove i voti si possono addirittura comprare con i soldi dei "contribuenti". Va colta l’occasione per denunciare con sdegno la sciagurata "riforma Bassanini" che ha privato l’università insieme a tutti gli altri enti pubblici territoriali dell’unica possibilità che una istanza esterna e indipendente a tali enti - tra cui l’università appunto - esercitasse un controllo di merito ammistrativo e di oculata gestione delle risorse pubbliche senza conflitto d’interessi conclamato come è adesso. Infatti prima di tale "riforma" ( occorre che qualcuno avverta Sarkozy del pericolo che corre la Francia per aver cooptato Bassanini tra i suoi consiglieri) i direttori amministrativi ( e le figure equivalenti negli altri enti ) delle università erano vincitori di concorsi nazionali e dipendevano solo dal competente ministero. Ora i propri controllori (sic!) se li scelgono ad intuitus personae i rettori ( e loro equivalenti negli altri enti pubblici assimilabili alla fattispecie in discorso) stabilendo durata e compensi di tali loro sottoposti e in astratto controllori dei loro datori di lavoro. Poiché sarebbe suicidio professionale andare contro i desiderata dei rettori (et similia nelle equivalenti istanze pubbliche) e alle loro costanti esigenze di spesa politico-elettorale, tanto più tali quanto più tese a trasformare la loro elezione in un evento "bulgaro" o per convenienza o per timore di ritorsioni nei confronti dei clientes e/o dei sottoposti, la "razionalità economica" della suddetta componente direttivo- amministrativa si estrinseca in totale allineamento al fallimento delle altre componenti la "classe dirigente" di questo malandato Paese, traducendo in pratica l’indicazione a fondo italiota per la quale ( principe de Curtis alias Totò docet): "qua nessuno è fesso"! Ed ecco individuata una seria, autentica causa strutturale e storica di inefficienza della spesa pubblica insieme ai veri responsabili dei "fannulloni" che Brunetta ( dei "Ricchi" e non dei "Poveri") individua nel "pesce" tutto del pubblico impiego, e non già nella sua "testa compresa quella di Brunetta medesimo, ministro di questa Repubblica!