Prima parte: la svendita dello Stato

Prima parte: la svendita dello Stato

Michele Altomeni

Consigliere Regionale Rifondazione Comunista

Poco meno di sei mesi fa, il 15 aprile, ho scritto un articolo intitolato "I parassiti del paese diviso". Era una sorta di commento al risultato elettorale. In sintesi diceva che la vittoria del centrosinistra era certamente un risultato positivo, ma non c’era molto da festeggiare. Riporto qui la parte finale.

…Cominciamo da Prodi, ricordiamoci chi è, da dove viene. Lui e il suo circondario, i vari Monti e Padoa-Schioppa (un nome che avete sentito poco, come spesso succede per gli uomini di vero potere), legati a doppio filo alle grandi banche d’affari, come la Goldman Sachs (di cui Prodi è stato dipendente), quelle che si sono arricchite facendo manbassa delle privatizzazioni italiane, precedute, "casualmente" da una svalutazione monetaria che ha permesso di comprare tutto a prezzi da ingrosso. Prezzi già di loro bassissimi, dato che le stesse imprese comprate per due lire sono state in molti casi rivendute pochi mesi dopo a valori esponenziali. E a capo del ministero che gestiva tutto questo (non il ministro, che conta poco, ma il direttore generale) c’era un certo Mario Draghi, sì, proprio quello che oggi sta a capo della Banca d’Italia, con l’entusiasmo bipartisan del centrodestra e del centrosinistra (unica eccezione Rifondazione).

Dicevamo, la borghesia sta per presentare il conto. Il paese è alla bancarotta, l’intera economia occidentale è alla bancarotta. In queste fasi il grande capitale raschia il barile, mette il malloppo al sicuro e poi da l’ultima spallata alle colonne che sorreggono il tempio, mandando a morte Sansone e tutti i filistei. Poi rimaterializza il malloppo da qualche altra parte, ricostruisce un nuovo tempio e ricomincia il gioco. Che ruolo giocherà il nuovo governo in tutto questo? Quello della Goldman Sachs, o quello dei cittadini che chiedono sicurezza, un lavoro decente, uno stato sociale capace di rispondere ai bisogni essenziali, un ambiente più sano? Questa è la vera divisione del paese, non quella emersa dalle urne. Il voto non è stato il completamento di un lavoro, è solo l’inizio. Sono contento che si possa iniziare il lavoro, ma non festeggio, perché è tutto ancora da fare. E ora che Berlusconi è in panchina, i veri avversari si chiamano Paolo Mieli, Luca C. di Montezemolo, De Benedetti, Tronchetti Provera, Merloni, Della Valle….

In questi sei mesi cosa è successo? In primo luogo, quel Padoa Schioppa che pochissimo avevano sentito nominare è diventato ministro dell’economia e sta imponendo una finanziaria che, nonostante gli sforzi di Rifondazione, rimasta isolata in questa battaglia, non segnerà certo quella svolta che in tanti si aspettavano.

Lasciamo da parte la finanziaria, e veniamo invece ad un altro fatto di attualità che ci può essere utile a proseguire il discorso iniziato ad aprile: la vicenda Telecom.

Un po’ di storia

Per capire il presente è sempre utile un po’ di storia. Purtroppo, lo sappiamo, viviamo in un paese senza memoria. E i mezzi di (dis)informazione non ci aiutano certo a ricordare.

Telecom, questo almeno dovremmo ricordarlo, una volta si chiamava SIP, ed era una grande azienda statale, una vasta infrastruttura realizzata con i soldi dei contribuenti. Poi Regan e Tatcher, per conto di altri, fondarono una nuova religione, il Neoliberismo, che venerava il dio Mercato. In base a questa religione la proprietà pubblica e la gestione pubblica dei servizi era peccato mortale. Ma il buon dio Mercato dava a tutti i peccatori la possibilità di redimersi e rientrare nelle sue grazie. Il sacramento purificatore si chiamava Privatizzazione. In breve tempo il nuovo credo si diffuse dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti al resto del mondo, amministrato dai custodi del culto: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, Unione Europea…

La nuova religione arrivò anche in Italia e subito i governi che si alternarono al potere la abbracciarono con fervore, quelli di destra come quelli di sinistra. Il sacro verbo di Maastricht, con i suoi santi parametri, indicò la via della redenzione e, pezzo per pezzo, una parte dello Stato fu liquidata in un clima di estasi mistica. I pochi eretici che provarono a sollevare obiezioni furono azzittiti senza difficoltà. Il dio Mercato avrebbe messo fine a tutti i mali del paese, dal malgoverno alla corruzione, perché il Mercato è santo e bello, infallibile e giusto. Cittadini, consumatori, utenti avrebbero finalmente vissuto in un paradiso terrestre di prezzi bassi ed efficienza, sotto la tutela della santa trinità che accanto al dio Mercato vede l’impresa, venuta a redimere i peccatori con la forza vivificatrice dello spirito santo della concorrenza.

Fu una stagione epica e non furono pochi i vati che ne cantarono le gesta. Pochi furono invece gli storici che ricostruirono la realtà dei fatti.

Breve digressione

Prima di arrivare a Telecom è bene ripercorrere dall’inizio la storia delle privatizzazioni in Italia.

Siamo nel 1992, a febbraio viene arrestato l’imprenditore milanese Mario Chiesa, da cui prende avvio l’inchiesta di Mani Pulite. Portare alla luce del sole quel sistema di corruzione fu un fatto positivo, ma siccome in Italia non succede mai niente per caso avremmo dovuto chiederci perché solo allora ci si arrivava. Prima di Mario Chiesa, da anni, erano state aperte inchieste relative a casi di corruzione anche più gravi, ma ogni volta erano state bloccate da un sistema di protezione ferreo. Basterebbe chiedere al giudice Carlo Palermo. Tutti sapevano, anche i cittadini, ma tutti lasciarono correre per anni. Probabilmente serviva un cambio di guardia ai vertici dello Stato, e Tangentopoli assolse benissimo a questo compito.

Il 23 maggio la mafia fece saltare in aria Giovanni Falcone e la sua scorta. Poco dopo Borsellino seguì la sua sorte. Altre bombe esplosero qua e là.

100 giorni dopo l’arresto di Chiesa e pochi giorni dopo la strage di Capaci, il 2 giugno 1992, al largo di Civitavecchia, su un panfilo denominato "Britannia", di proprietà di Sua Altezza la Regina d’Inghilterra, si ritrovarono un centinaio di personaggi legati al mondo dell’economia, i rappresentanti di importanti banche internazionali, soprattutto statunitensi e anglo-olandesi. Tra gli italiani vi erano il collaboratore di Prodi Beniamino Andreatta che poi ricoprirà la carica di ministro in tre successivi governi. E vi era Mario Draghi, che oggi ritroviamo a capo della Banca d’Italia, ma che allora era direttore generale del Ministero del Tesoro e, come presidente del Comitato per le privatizzazioni, guidò il processo di svendita, oltre che di Telecom, di Enel, Eni, IMI, Comit, BNL e tutto il sistema bancario italiano. Finito il suo lavoro di liquidatore (2001), in attesa di salire al vertice della Banca d’Italia, Mario Draghi parcheggia il prezioso culetto sulla poltrona di vicedirettore della banca d’affari Goldman Sachs (quel posto ora è occupato da Mario Monti, altro nome illustre della banda.

Goldman Sachs è un elemento cruciale di questa storia e in generale nella storia delle privatizzazioni italiane, dove ha ricoperto alternativamente il ruolo di acquirente o di advisor. Romano Prodi è stato consulente della Goldman Sachs praticamente ogni volta che è rimasto fuori da incarichi pubblici: tra le due sue presidenze dell’IRI, e dalla caduta del suo primo governo alla nomina alla Commissione Europea. All’epoca due giornali londinesi (Daily Telegraph e Economist) gli chiesero conto di questo legame, oltre che di quello con Unilever (di cui era stato ugualmente consulente) e dei lauti compensi percepiti da queste società. Ricordarono la procedura di privatizzazione della Bertolli, ceduta dall’IRI di Prodi al consorzio Fisvi e poi rivenduta alla Unilever con la Goldman Sachs come advisor. La stessa banca era stata advisor anche nella privatizzazione del Cretino Italiano. Per tutto questo è stato inquisito e assolto…

Tornando al Britannia, al piacevole party marino partecipò anche il finanziere ungherese-americano George Soros che oggi si spaccia per filantropo e scrive libri che criticano il neoliberismo, ma allora si divertiva e arricchiva lanciando attacchi speculativi alle valute di alcune nazioni.

Di quella crociera i giornali diedero informazioni vaghe, e alcuni dei protagonisti si affrettarono a liquidarla come un semplice ritrovo di piacere. Draghi negò per due anni la sua partecipazione, finchè non la ammise di fronte ad una commissione parlamentare.

Cosa ha a che fare la crociera sul Britannia con la nostra storia? Sarà un caso, ma pochi mesi dopo, a settembre, Moody’s declassò i BOT italiani. Allo stesso tempo George Soros lanciò un attacco speculativo alla Lira attraverso una massiccia svendita della valuta italiana. Questi fatti provocarono un crollo del valore della moneta del 30% a cui la Banca d’Italia cercò di far fronte bruciando 48 miliardi di dollari (per riacquistare Lire e limitare la caduta del valore).

Subito dopo la massiccia svalutazione iniziò il valzer delle privatizzazioni. In pratica, gli acquirenti stranieri, poterono beneficiare di uno sconto del 30%, un vero affare! Accorsero in branchi le iene per avventarsi sul cadavere dell’economia nazionale e spolparne le ossa.

Alcune procure, tra cui quelle di Roma e Napoli, aprirono delle inchieste sulle responsabilità di quella svalutazione e indagarono sul legame con la crociera sul "Britannia". Non ne venne fuori nulla.

Per la cronaca, i due massimi responsabili della lira erano in quel momento Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, rispettivamente governatore e direttore generale della banca centrale, diventati poi presidenti del consiglio dei due governi tecnici che diedero un grande impulso alle privatizzazioni (mentre tagliavano con l’accetta la spesa pubblica). Presidente del Consiglio era Giuliano Amato, mentre Romano Prodi governava lo smantellamento dell’IRI.

A poco più di un mese dalla crociera, a metà luglio 1992, l’appena insediato governo Amato, avvia la prima privatizzazione della serie, quella dell’Efim, un gruppo di un centinaio di società e migliaia di posti di lavoro. Alla fine dell’estate il governo trasforma in società per azioni i grandi enti pubblici, a partire da Enel, Eni, Ina ed Iri. Un anno dopo va all’asta il Credito Italiano, per continuare con maxi privatizzazioni durante tutti gli anni Novanta, tra cui Telecom ed Enel, passando per un mare di aziende sparse un po’ in tutti i settori, a cominciare dall’agroalimentare (Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina) che finisce in mano a società olandesi, inglesi o americane. In mani straniere cade anche buona parte del sistema bancario e molte altre aziende dei settori strategici.

Nel 2000 l’Eni è già in avanzata fase di privatizzazione. Manca solo il ramo "immobili". La fetta più consistente viene acquistata dalla Goldman Sachs (no?!) per circa 3000 miliardi delle vecchie lire. Ma non basta, perché la stessa banca acquisterà anche gli immobili della Fondazione Caripalo, di Unim, Ras e Toro.

Torniamo a Telecom

In quegli stessi anni la vecchia SIP divenne Telecom e nel 1997 fu messa sul mercato dal governo Prodi (ma no?!). Bisognava fare cassa, e in fretta, lo esigeva l’Unione Europea, quindi non si poteva badare tanto per il sottile. Così le azioni furono vendute per un prezzo irrisorio, tant’è vero che appena un anno dopo le stesse azioni valevano sul mercato cinque volte di più (+ 514 %).

Si fece una campagna martellante per invitare i piccoli risparmiatori ad acquistare azioni di quella che doveva diventare una public company (una società con capitale diffuso tra piccoli soci). I piccoli risparmiatori che in quegli anni cominciavano ad appassionarsi alla nuova lotteria nazionale della Borsa comprarono l’85%.

Ministro del Tesoro era Carlo Azelio Ciampi. Direttore generale Mario Draghi. Al vertice di Telecom stava Guido Rossi, che dopo la dimissioni di Tronchetti Provera è tornato su quel trono. Dopo la privatizzazione la presidenza passò ad un uomo della FIAT, mentre Guido Rossi polemizzava con D’Alema, accusato di avere messo l’impresa in mano ai poteri forti.

Con l’azionariato diffuso basta un piccolo pacchetto di azioni per controllare la baracca. Quel pacchetto è composto da una cordata guidata dalla finanziaria di casa Agnelli (Ifil)

Altra breve digressione

Sempre nel 1997, ma prima della privatizzazione, Telecom compra il 29% di Telekom Serbia, pagando 878 miliardi di lire. Cinque anni dopo, caduto Milosevic, rivenderà la quota a Telekom Serbia per 378 miliardi, con una perdita del 57%. Il Polo su questa vicenda ha fatto un gran casino, che non ha portato a nulla.

Saldi e ribassi

Dalla privatizzazione di Telecom il governo ricava 11,8 miliardi di euro.

Nel 2001 ENEL (società pubblica) acquista Infostrada, una società più piccola di Telecom, e la paga 11 miliardi di euro.

Da dove viene Infostrada? In sostanza è la vecchia rete telefonica interna delle Ferrovie dello Stato, che il governo Prodi vendette ad Olivetti (De Benedetti) per 700 miliardi di lire (35 milioni di euro) da pagarsi a rate in 14 anni. Olivetti

la vendette subito alla tedesca Mannesman per 14 mila miliardi di lire (7,5 miliardi di euro - venti volte il prezzo di acquisto) in una unica soluzione. Chi ha fatto la stima del valore della rete pubblica? Il manager delle Ferrovie Lorenzo Necci provò ad opporsi, ma fu "invitato" a vendere senza tante storie. Non capì il consiglio e dovette pensarci la magistratura: fu incriminato sulla base di intercettazioni telefoniche (!?), fece qualche mese di carcerazione preventiva e poi fu assolto.

Nel frattempo arriva al governo D’Alema e comincia l’era Colaninno, che attraverso Olivetti dà la scalata a Telecom. Ancora una volta ci furono pesanti irregolarità per tenere basso il prezzo delle azioni attraverso una vendita occulta, ma la Consob, guidata da Spaventa, lasciò correre. Il Financial Times definì la scalata "una rapina in pieno giorno". Guido Rossi disse "Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese".

Colaninno controlla al 51% una società fantasma, la Hopa, che controlla il 56% di un’altra entità chiamata Bell, la quale controlla il 13,9% di Olivetti, la quale a sua volta controlla il 70% di Tecnost, che controlla il 52% di Telecom. In pratica Colaninno e i suoi soci controllano Telecom detenendone l’1,5 %.

Dalla Telecom fu scorporata la SEAT, società che gestiva la raccolta pubblicitaria. Fu acquistata per il 61% da una società chiamata "Otto", composta da Comit, De Agostini ed altri, ad un prezzo di 1.955 miliardi. Trenta mesi dopo Otto ne rivende il 20% a Colaninno per 7200 miliardi; poi un altro 17% a 5 mila miliardi, e un altro 8% per 5750 miliardi. In pratica, la società acquistata a 1.955, viene venduta subito dopo a oltre 16 mila.

Per l’acquisto la "Otto" ottiene i soldi da Dario Cossutta, figlio di Armando, alto dirigente della Banca Commerciale, che è anche socia della "Otto".

Le società che avrebbero dovuto pagare le tasse per le plusvalenze spariscono nel nulla, forse in qualche paradiso fiscale…

Dopo un po’ i rapporti tra Colaninno e De Benedetti si guastano. Colaninno pensa di poter giocare in proprio. La Repubblica (giornale controllato da De Benedetti) comincia ad attaccarlo finchè nel 2001 si arriva alla resa dei conti. L’uomo da spendere è Marco Tronchetti Provera, erede di casa Pirelli, che soggiorna nel "salotto buono" della finanza insieme ai Benetton.

Tronchetti Provera diviene amministratore delegato di Pirelli nel 1992. Nel 1995 ne diviene primo azionista e nel 1999 acquista la Unim (la più grande società immobiliare quotata in borsa, nata dalla scissione di INA) e si lancia sul mercato del mattone acquistando la Edilnord. Nel 2000, assieme a Benetton vince la gara per la privatizzazione delle grandi stazioni e perde quella per gli aeroporti di Roma.

Vendendo pezzi di Pirelli ottiene i liquidi che gli permetteranno, il 28 luglio 2001, insieme ad Edizione Holding (Benetton), attraverso Olimpiadi, di rilevare il 100% della partecipazione della Bell in Olivetti, pari a circa il 23% della società che controlla Telecom Italia. A fine settembre entrano in Olimpia anche Unicredit e Banca Intesa.

Nonostante Tronchetti Provera spezzetti e venda una parte delle sue proprietà i debiti di Telecom raggiungono livelli stratosferici.

Alla fine del 2002 Emilio Gnutti, socio di Colaninno ai tempi della scalata a Olivetti, ritorna nel colosso telefonico. Hopa entra in Olimpia con una quota del 16%.

Nel 2003 Olivetti viene disciolta in Telecom. Nel 2005 Telecom Italia lancia un'Opa da 14,5 miliardi di euro sulla controllata Tim. L'offerta si chiude il 21 gennaio con la fusione che ha l'obiettivo di contenere con i profitti di Tim il debito della capogruppo.

Nel frattempo qualcosa nell’alleanza con De Benedetti si guasta. La Repubblica, tanto per cambiare,comincia a sparare su Tronchetti Provera.

A gennaio del 2006 Emilio Gnutti lascia Olimpia ed esce definitivamente dal gruppo per motivi di salute e perché viene travolto dallo scandalo della scalata ad Antonveneta. Il 7 settembre Tronchetti Provera incontra Rupert Murdoch per discutere un possibile accordo. Pochi giorni dopo, ad un anno e mezzo dalla fusione, Tronchetti annuncia in cda lo scorporo di Tim, probabilmente per venderla e ridurre il debito di Telecom Italia salito nel primo semestre 2006 a 41,3 miliardi.

Epilogo

L’epilogo è cronaca delle ultime settimane. Dopo l’annuncio dello scorporo Prodi rilascia dichiarazioni indignate affermando di avere parlato con Tronchetti Provera delle prospettive di Telecom senza che l’imprenditore accennasse a tale ipotesi (sembra quasi dire "non erano questi i patti!"). Subito il presidente della Telecom consegna alla stampa un documento su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fattogli avere da Angelo Rovati, consigliere di Prodi, che prevede lo scorporo della rete fissa e, forse, una sua riacquisizione da parte dello Stato (Cassa Depositi e Prestiti formata da Ministero del Tesoro più le Fondazioni Bancarie). Di fronte all’insorgere di alcuni partiti e testate giornalistiche che accusano Prodi di ingerenza, il presidente del consiglio dichiara di non sapere nulla del piano e Rovati conferma assumendosi tutte le responsabilità del documento. Nel casino generale Tronchetti Provera rassegna le sue dimissioni ed al suo posto torna Guido Rossi.

Alcuni giornali affermano che in quei giorni, tra Presidenza del Consiglio e Ministero dell’economia si stava trattando riservatamente per la nomina alla direzione generale del Tesoro di Claudio Costamagna, finanziere internazionale, amico di Prodi, recentemente incaricato da Rupert Murdoch proprio per la trattativa con Tronchetti Provera. Lo scoppio della polemica blocca la nomina di Costamagna al Ministero.

Al di là della collaborazione con Murdoch, Claudio Costamagna ha lavorato fino a pochi mesi fa a Londra per la Goldman Sachs (chi?!) come presidente dell’investment banking per l’Europa. Pare che sua moglie, Linda Costamagna, sia stata tra le principali finanziatrici dell’ultima campagna elettorale di Romano Prodi.

Nella stessa sede di Londra lavorava un altro amico di Prodi, Massimo Tononi, che per la Goldman Sachs era direttore per le fusioni e acquisizioni e che ora ricopre l’incarico di sottosegretario al Ministero dell’Economia.

Dato questo quadro non sono in pochi a sospettare che in realtà il piano di Rovati sia farina di Costamagna e Tononi, ossia di Goldman Sachs.

Cirino Pomicino, assieme ad altri deputati, firma una interrogazione al Governo in cui chiede se sia vero che dopo l’annuncio dello scorporo di TIM da Telecom (che tanto ha fatto arrabbiare Prodi), alcune banche creditrici abbiano comunicato a Tronchetti che non avrebbero più sostenuto l’indebitamento; se sia vero che il piano presentato da Rovati (e di cui Prodi disse di non sapere nulla), sia stato in realtà predisposto da Goldman Sachs; se sia vero che il sottosegretario Tononi sia ancora dipendente della stessa Goldman Sachs (in ogni caso lo è stato almeno fino all’insediamento del governo)

Prospettive e interpretazioni

Non sarà facile salvare Telecom. La strategia di cedere la rete fissa sembra perdente. Chi investirebbe una fortuna per comprare oggi una infrastruttura che richiede grandi investimenti per essere ammodernata (Fastweb ha un fibra di molto migliore) e che rischia di essere soppiantata in breve tempo dal tecnologie più moderne (wireless)? In questa ottica la rinazionalizzazione rischia di essere l’ennesima manovra di "pubblicizzazione" delle perdite dopo che Telecom ha incassato gli utili. Ma anche la vendita di TIM rischia di essere fuori tempo rispetto alla prossima era degli operatori virtuali che, si dice, ne dimezzerà il valore nei prossimo cinque anni. Le licenze UMTS scadono nel 2007 e da allora chiunque, con un capitale non eccessivo, potrà diventare operatore virtuale (vendere propri cellulari, proprie SIM, propri servizi…). Coop ha già annunciato che lo farà.

Rispetto alla possibilità di vendere TIM, tra i possibili acquirenti si è parlato anche della Carlyle, la cui sezione italiana è presieduta da Marco De Benedetti (figlio dell’ingegnere, che di TIM è stato anche amministratore delegato). Non sarà che De Benedetti e Prodi si sono arrabbiati con Tronchetti Provera perché invece è andato a trattare con Murdoch?

Sempre tra i possibili acquirenti di TIM o di pezzi di Telecom, come partner di Carlyle o in proprio, si è fatto anche il nome di Mediaset, anche se Berlusconi si è affettato a smentire. La cosa curiosa è che a metà aprile 2006, su Libero (giornale molto vicino a Berlusconi) è apparsa la notizia di una possibile fusione tra Mediaset, la prima Tv commerciale del Paese, e Telecom Italia, primo gestore telefonico fisso e mobile e primo Internet provider italiano. All’epoca fu Telecom a occuparsi delle smentite di rito.

Questo tipo di fusione, come quella con Murdoch, vanno nella direzione di quella che sembrerebbe la nuova frontiera delle comunicazione mobile: la TV sul telefonino, e quella che è ormai una realtà, la TV via internet. Mediaset (o Murdoch) metterebbero i contenuti, Telecom le reti mobili e fisse)

Seconda parte: il grande fratello

Cosa c’entra con tutto questo la faccenda delle intercettazioni? Da almeno un anno circolavano notizie in merito e il casino sarebbe potuto (dovuto?) scoppiare molto prima. Invece tutto tace, per scoppiare proprio in concomitanza con il cambio di vertice in Telecom. Sarà una pura coincidenza, proprio come la coincidenza tra Tangentopoli e la crociera sul "Britannia".

Negli ultimi mesi nel nostro paese il tema delle intercettazioni telefoniche ha tenuto banco a più riprese, protagoniste di numerosi scandali: la vicenda finanziaria che ha travolto Fiorani, Consorte, Ricucci e Fazio; calciopoli; l’inchiesta che ha colpito casa Savoia, i dirigenti RAI e qualche sottospecie di soubrette televisiva; il caso Abu Omar…

Sarà un caso? O come al solito si è voluta creare un’emergenza per qualche fine preciso? Per noi profani è difficile capire quale potrebbe essere il fine. Forse proprio la testa di Tronchetti Provera (e allora tutta la parte economica della vicenda potrebbe essere interpretata come un suo tentativo di difesa); oppure il varo di una legge che permettesse di fare piazza pulita di tutta una serie di archivi scottanti; oppure qualcosa di molto più grosso, che ha a che fare con la lotta intestina che sembra esserci all’interno dei servizi segreti.

Per arrivare ad una risposta mancano troppi elementi del puzzle. L’unica cosa che possiamo fare, anche in questo caso, è provare a mettere in fila un po’ di fatti perché ognuno possa farsi una sua opinione, o semplicemente disponga di qualche informazione in più sul Paese in cui viviamo.

Abu Omar e le intercettazioni

Le radici dell’inchiesta sul sistema di intercettazioni telefoniche stanno nelle indagini sulle complicità italiane nel rapimento del cittadino egiziano Abu Omar nel febbraio 2002 a Milano da parte dei servizi segreti statunitensi. La CIA chiese aiuto al Sismi che, ufficialmente, rifiutò la propria collaborazione, ma un gruppo di agenti capeggiato da Marco Mancini (numero due del Sismi) affiancato dal suo ex collega Giuliano Tavaroli e dal comune amico Emanuele Cipriani si attivò per collaborare. In pratica questa struttura parallela svolgeva compiti di sorveglianza e intercettazioni per conto della CIA.

Al momento dell’arresto Cipriani, titolare dell’agenzia di investigazioni "Polis d'Istinto", si stava preparando a trasferire 13 milioni di euro su un conto nel Liechtenstein.

Alle indagini sulla vicenda Abu Omar stava collaborando Michele Bove, responsabile della sorveglianza TIM. Bove si "suicidò" cadendo da un cavalcavia al centro di Napoli il 21 luglio. Era in atto una operazione di disinformazione occulta che lo indicava come coinvolto nelle intercettazioni illegali e prossimo alla galera.

Le prime notizie trapelano nell’informazione ufficiale quando, in agosto, "La Repubblica" dà informazione sulla scoperta di due centraline clandestine, (esterne alla Telecom) che servono a rubare informazioni sulle utenze telefoniche e compiere intercettazioni non autorizzate o per avvisare persone tenute sotto controllo dai PM. L'articolo conclude che i responsabili dei furti sarebbero sopratutto dipendenti Telecom.

In realtà, su internet, giornalisti indipendenti avevano lanciato l’allarme già da oltre due anni. In alcuni casi anche trasmettendo le informazioni agli organi giudiziari

Dietro ai protagonisti della vicenda (Tavaroli, Mancini, Cipriani), un po’ più nell’ombra, si trovano personaggi altrettanto interessanti, probabilmente pagati con quei fondi che Cipriani stava cercando di nascondere. Tra queste figure compare Fabio Ghioni, considerato uno dei più importanti esperti di hackeraggio del mondo, che è stato un collaboratore del provider Aruba.it della Technorail Srl di Arezzo, il cui "Staff" è stato denunciato al Tribunale penale di Arezzo per pirateria informatica.

La Repubblica e il "partito americano"

Come abbiamo detto, le prime notizie trapelano attraverso La Repubblica. Queste notizie vanno a colpire Telecom, il che potrebbe rientrare nella faida economica tra De Benedetti e Tronchetti Provera. Ma forse c’è dell’altro.

Il senatore Gigi Malabarba ha scritto un libro sulla sua esperienza nel Copaco (organismo parlamentare di controllo sui servizi segreti) durante la scorsa legislatura. L’autore dedica un capitolo al quotidiano La Repubblica e a quella che sembra una strategia editoriale volta a colpire il Sismi ed in particolare il suo capo Nicolò Pollari.

La tesi di Malabarba è che ci sia un disegno trasversale che punterebbe a riformare i servizi segreti italiani unificandoli in una unica struttura, oppure a creare, come è avvenuto negli Stati Uniti, un organismo di direzione che li diriga entrambi. Al comando del servizio unico o dell’organismo di direzione sarebbe destinato il prefetto Gianni De Gennaro, attuale capo della polizia, esecutore materiale della mattanza di Genova del 2001, con forti protezioni sia a destra che a sinistra.

"Io non so come il prefetto De Gennaro abbia realmente costruito il suo potere" scrive Malabarba, "che appare superiore a quello del ministro dell’interno. In fondo, di ministri ne ha visti passare molti, mentre lui è sempre in sella. Forse bisognerebbe indagare negli anni precedenti, nelle attività contro il traffico di stupefacenti e contro la mafia. "Ci sono troppe persone che tiene per le palle" mi ha detto più d’uno e appartenente anche a differenti schieramenti politici".

Malabarba considera La Repubblica un giornale fortemente schierato con il "partito americano" in materia di sicurezza, intelligence e alleanza atlantica. "Una delle sue firme più autorevoli, Giuseppe D’Avanzo, si è distinta in una campagna denigratoria sistematica nei confronti del Sismi di Nicolò Pollari e Nicola Calipari, campagna la cui ispirazione non si può certo dire occulta, anche se c’è chi si offende quando si dice che scrive sotto dettatura. Peraltro con cadute grottesche, come l’utilizzo di una traduzione clamorosamente (e curiosamente) scorretta di un testo Usa che si riferiva a simulazioni di minacce nucleari in territorio americano - utilizzato per denunciare una campagna allarmistica da parte del Sismi".

Secondo Repubblica, prosegue Malabarba, fu proprio il Sismi a confezionare le prove false che Bush utilizzò come pretesto per la guerra in Iraq.

"Evidentemente la finalità del quotidiano romano è un’altra. E infatti c’è di più. Mentre tutto il mondo politico nella primavera del 2005 si indigna, più o meno ipocritamente, ma comunque si indigna, per l’assassinio di Nicola Calipari, l’unica voce che si permette di rilanciare la posizione più volgare dei falchi del Pentagono è proprio Repubblica, che persino con un articolo di Eugenio Scalari - sull’onda del D’Avanzo pensiero - attacca i "furbetti" del Sismi e Nicola Calipari, perché avrebbero cercato di aggredire gli americani, nascondendo loro le trattative per la liberazione di Giuliana Sgrena."

Alla luce di questa interpretazione proviamo a rileggere le intercettazioni pubblicate da La Repubblica che cerca anche di dimostrare di essere vittima di una persecuzione da parte del Sismi.

Una telefonata tra Pio Pompa e Nicolò Pollari alle 10.20 del 4 giugno.

Pompa: "Oggi c'abbiamo un ottimo articolo che ieri con "Betulla" <http://www.carmillaonline.com/archives/2006/07/001850.html>abbiamo concordato, a firma di Oscar Giannino... in sostanza dice: "Vogliono scaricare (ci si riferisce a La Repubblica) sui servizi perché gli fa comodo". Il titolo è: "Se Repubblica attacca Telecom".

Pollari: "Va bene. Su quale giornale è uscito?".

Pompa: "Su Libero, sì, in prima pagina, scritto molto bene, perché poi è venuto da me, se lo ricorda, vero? Hanno fatto proprio un'intera paginata... è proprio indirizzato a Repubblica".

Pollari: "Sono molto contento. Va bene, perfetto. Grazie".

Subito dopo, alle 10.59, Pompa telefona ad un personaggio non identificato.

Massimo: "Il capo ha letto l'articolo di Oscar Giannino e lo ha definito un capolavoro... è scritto molto bene e poi va a toccare i nervi scoperti".

Pompa: "Se tu vai a leggere il libro di Pons (giornalista di Repubblica) e Oddo (Sole 24 Ore) che si alternano a D'Avanzo e Bonini sulla questione Telecom... vedi che quella è la linea che seguirà l'inchiesta".

Altre intercettazioni pubblicate da La Repubblica fanno riferimento alla vicenda Telecom e Tavaroli e coinvolgono il giornalista e vice-direttore di Libero Renato Farina, molto vicino al Sismi. Il 21 maggio alle 21.12 - dice: "Un mio amico mi ha detto che l'intenzione non sarebbe quella di colpire a un livello alto, ma di fermare i due, Tavaroli e l'altro. Mi sono sentito con Lerner il quale dice che questa vicenda per Repubblica è una manovra per fare fuori parecchie persone, vuole fare fuori Tronchetti Provera e tutti i suoi nemici".

Il 26 maggio alle 19.43 Pompa parla di Telecom direttamente con Pollari: "Telecom ha prodotto due documenti che ha inviato all'Authority e alla Procura, dove dice: "Allora questi sono i sistemi di intercettazione dichiarati..." e poi hanno aggiunto altri sistemi che non erano dichiarati ma che dicono di aver scoperto solo ora! Le chiamano "strutture nascoste di intercettazioni"".

Pollari: "Ma erano irregolari".

Pompa: "Ma certo che erano irregolari".

Pollari: "Allora erano abusive".

Pompa: "Erano abusive assolutamente. Loro adesso dicono: "Ce ne siamo accorti adesso"... questo disegna la linea difensiva".

Farina il primo giugno alle 20.44 riferisce: "C'è anche quest'altra notizia che Tavaroli avrebbe accompagnato Ludwig sei mesi dopo il sequestro per prendere un colloquio di lavoro dal responsabile della sicurezza Pirelli... che è quello che ha preso il posto di Tavaroli! quando lui è passato da Pirelli a Telecom, però questo non ha odorato positivamente Ludwig e non se n'è fatto nulla".

E Farina aggiunge: "Ti dico anche questa: coincide con il periodo con cui Pironi avrebbe voluto passare al Sismi".

Quindi i due cominciano a parlare di Telecom Brasile. Pompa chiede a Farina: "Ma tu l'hai capita l'operazione che stanno mettendo in piedi? È che la Cia in Brasile aiuta Telecom".

Farina: "Ho capito il concetto, la Cia aiuta in Brasile Telecom e in cambio si fa aiutare".

Pompa: "E la Telecom che sale la "forcible abduction"".

Il 24 maggio alle 11.08, Pio Pompa parla con una donna la cui identità non è stata ancora accertata.

Donna: "Hai visto Repubblica, c'è una frase che parla della spy story di Abu Omar e di Tavaroli, dice che presto potrebbero emergere collegamenti con operazioni della Cia compiute in Italia".

Pompa: "Ho letto l'articolo, è coerente".

Il giorno dopo, alle 21.12, ecco di nuovo ricorrere il nome di Tavaroli. È sempre Pompa a parlarne e a metterlo in relazione con la Cia parlando con Farina: circola una voce, dice l'uomo del Sismi, "cioè che Tavaroli era stato pagato quindicimila dollari o euro al mese dalla Cia ed è una cosa che circola tra gli investigatori... a questo punto vuol dire che il nesso Tavaroli, Cia e Abu Omar è chiaro".

Pompa e Farina, il 10 giugno alle 16.09, fanno una ricostruzione che raccoglie voci di ogni tipo.

Farina: "si sente dire che nel rapimento di Abu Omar, dinanzi al "no" del Sismi, Gianni Letta bypassando Ganzer avrebbe incaricato, non so attraverso quali anelli di congiunzione, il Ros di fare quell'operazione d'accordo con la Procura, cioè l'anello sarebbe Letta-Dambruoso".

Questa versione sembra confermata da una testimonianza rilasciata da Fabio Ghioni ai magistrati che indagano sul caso Telecom, seconda la quale gli americani avrebbero chiesto a Marco Mancini, allora capo centro del controspionaggio per il nord Italia, di aiutarli nel sequestro. Mancini avrebbe riferito a Pollari, che però avrebbe negato il consenso. A questo punto Mancini si sarebbe rivolto a Gianni Letta. Ghioni riferisce che in base alle sue informazioni sarebbe stato proprio Letta ad autorizzare il sequestro.

Da parte sua Pollari, di fronte ai giudici che lo interrogano, dice di essere impossibilitato a difendersi perché vincolato dal segreto di Stato. I giudici gli rispondono che sul caso Abu Omar non è stato posto il segreto di Stato e Pollari ribatte che il segreto di Stato è posto su altre vicende strettamente legate al caso Omar. Rivelando quello che sa sul caso Omar indirettamente svelerebbe informazioni coperte da segreto. Pollari dichiara anche che esistono documenti che sanciscono il tutto. I magistrati chiedono di che documenti si tratti e Pollari risponde "Se io rivelassi ciò, rivelerei il segreto di Stato. Non posso rivelare i contenuti dell’attività di interposto soggetto. Non so quanto risalenti nel tempo possano essere fatti o situazioni coperti dal segreto di Stato". Pollari invita anche i magistrati a chiedere al presidente del Consiglio di autorizzarlo a rispondere, nel qual caso lui sarebbe stato ben felice di farlo. La Procura formula la richiesta e il presidente del Consiglio, senza specificare, risponde che il segreto di Stato a cui si riferisce Pollari è confermato. Non a caso alcuni parlamentari che fanno parte del Copaco, che hanno qualche informazione in più, che a loro volta non possono rivelare, e che si rendono conto di trame pericolose, chiedono il venir meno del segreto di Stato e anche una riforma del Copaco stesso, oggi impossibilitato a svolgere in maniera adeguata la sua funzione di controllo sui servizi segreti.

Scontro di potere

Questi testi sembrano dire che in effetti gli uomini del Sismi hanno "forzato" la stampa, e il giornalista Farina ha anche confessato di essersi prestato a questo gioco. Ma l’azione del Sismi contro La Repubblica sembra poca cosa rispetto a quanto raccontato da Malabarba rispetto agli attacchi del quotidiano al Sismi. Si ha più l’impressione di una mossa difensiva che di una campagna di aggressione.

L’altra cosa che sembra emergere è che Pollari e Pompa, dai discorsi che fanno, danno proprio l’impressione di non essere coinvolti nel rapimento di Abu Omar, per cui la struttura di Mancini sembrerebbe veramente essere una scheggia autonoma del servizio. Di certo non è normale che Mancini abbia scavalcato il suo capo rivolgendosi direttamente al potere politico nella figura di Gianni Letta.

Se queste ipotesi e l’interpretazione di Malabarba sono corrette, in Italia ci sarebbe uno scontro di poteri, che va al di là delle divisioni tra destra e sinistra, tra chi cerca di mantenere (o riconquistare) una certa autonomia dei servizi segreti dall’ingerenza e dalle pressioni statunitensi e, dall’altra parte, quello che il senatore di Rifondazione Comunista chiama "il partito americano". Nelle file del primo gruppo stava Nicola Calipari e sta ancora Nicolò Pollari, nel secondo La Repubblica, Gianni De Gennaro, Gianni Letta e una folta compagnia. L’indipendenza del Sismi di Pollari dalla Cia è emersa chiaramente nella vicenda della liberazione di Giuliana Sgrena, ed è stata duramente pagata da Calipari. La stessa indipendenza sembrerebbe confermata dal rifiuto di collaborazione al rapimento di Abu Omar, collaborazione concessa invece da un gruppo "deviato" del Sismi su indicazioni provenienti da uomini del governo Berlusconi.

Il falò

Intanto una cosa lo scandalo delle intercettazioni sembra averla prodotta: un accordo tra maggioranza e opposizione per varare in fretta una legge che, tanto per cominciare, permetta di distruggere tutto il materiale delle intercettazioni abusive. Siccome di scheletri nell’armadio ce ne sono in quantità ciclopiche, su entrambi gli schieramenti, prima gli scheletri si bruciano e meglio staranno tutti.

15 aprile 2006

I parassiti del paese diviso.

Cosa vuol dire paese diviso? Se una coalizione avesse vinto con il 2% di scarto, o con il 4%, il paese non sarebbe stato ugualmente diviso? Questa retorica del paese diviso è una cazzata. Abbiamo (a dire il vero, non io che ero con una minoranza di italiani a votare contro il referendum di Segni) voluto il maggioritario, la semplificazione della politica, il bipolarismo? Eccolo, questo è il bipolarismo. Questa è la democrazia matura. Negli USA, che continuano ad essere il nostro modello (!), Bush non ha vinto per 25.000 voti, ma per uno solo: quello del membro della corte di giustizia che si è divisa 4 a 3 rispetto alla validità delle elezioni palesemente falsate dai brogli. Su una cosa la nostra democrazia non è ancora abbastanza matura, e ce lo ha ben spiegato Paolo Mieli. Io non l’ho visto perché non ho la TV, ma mi hanno detto che Mieli è andato ad una trasmissione televisiva a dire che non c’è da essere particolarmente contenti per la grande affluenza alle urne, dato che nelle democrazie mature il numero dei votanti è molto basso (negli USA intorno al 50%).

Chi è Paolo Mieli? Mieli è il direttore del Corriere della Sera, il giornale che si è schierato con il centrosinistra, e che Berlusconi ha dovuto classificare tra i mezzi di informazione comunisti. Ma il Corriere della Sera appartiene alla RCS, casa editrice che fa capo alla famiglia Agnelli e ad una serie di grandi imprenditori della borghesia italiana. La borghesia italiana, come non smette di ricordarci Beppe Grillo, è una delle più cialtrone e parassitarie al mondo, quella che fa soldi con i soldi degli altri, grazie agli appoggi politici, agli amici degli amici, e alla pratica consolidata di privatizzare gli utili e socializzare (cioè scaricare sulla collettività) le perdite, senza mai rischiare niente di proprio. Paolo Mieli, il Corriere della Sera, ma anche Repubblica, l’Espresso e compagnia cantante sono espressione di quella borghesia dei Montezemolo e dei De Benedetti, dei nostrani Della Valle e Merloni. Questi sono gli eroi della vittoria maggioritaria del centrosinistra, e ora hanno già mandato i loro camerieri a presentare il conto.

Non sono contento che ha vinto il centrosinistra? Certo che sono contento, ma non festeggio. Dovevamo mandare a casa Berlusconi, anche se, concordo con Nanni Moretti, Berlusconi ha vinto comunque, e avrebbe vinto anche se il centrosinistra prendeva il 54%. Gli elettori, anche quelli comunisti e radicali, ci hanno chiesto di dare priorità a questo. Abbiamo messo il vestito buono e abbiamo fatto il nostro lavoro. Siamo stati anche premiati da una crescita dei consensi. Ora però abbiamo un compito, ce l’ha Rifondazione, ce l’hanno i movimenti, tutte le persone che guardano alla realtà con spirito critico e non si fanno incantare dalle sirene.

Cominciamo da Prodi, ricordiamoci chi è, da dove viene. Lui e il suo circondario, i vari Monti e Padoa-Schioppa (un nome che avete sentito poco, come spesso succede per gli uomini di vero potere), legati a doppio filo alle grandi banche d’affari, come la Goldman Sachs (di cui Prodi è stato dipendente), quelle che si sono arricchite facendo manbassa delle privatizzazioni italiane, precedute, “casualmente” da una svalutazione monetaria che ha permesso di comprare tutto a prezzi da ingrosso. Prezzi già di loro bassissimi, dato che le stesse imprese comprate per due lire sono state in molti casi rivendute pochi mesi dopo a valori esponenziali. E a capo del ministero che gestiva tutto questo (non il ministro, che conta poco, ma il direttore generale) c’era un certo Mario Draghi, sì, proprio quello che oggi sta a capo della Banca d’Italia, con l’entusiasmo bipartisan del centrodestra e del centrosinistra (unica eccezione Rifondazione).

Dicevamo, la borghesia sta per presentare il conto. Il paese è alla bancarotta, l’intera economia occidentale è alla bancarotta. In queste fasi il grande capitale raschia il barile, mette il malloppo al sicuro e poi da l’ultima spallata alle colonne che sorreggono il tempio, mandando a morte Sansone e tutti i filistei. Poi rimaterializza il malloppo da qualche altra parte, ricostruisce un nuovo tempio e ricomincia il gioco. Che ruolo giocherà il nuovo governo in tutto questo? Quello della Goldman Sachs, o quello dei cittadini che chiedono sicurezza, un lavoro decente, uno stato sociale capace di rispondere ai bisogni essenziali, un ambiente più sano? Questa è la vera divisione del paese, non quella emersa dalle urne. Il voto non è stato il completamento di un lavoro, è solo l’inizio. Sono contento che si possa iniziare il lavoro, ma non festeggio, perché è tutto ancora da fare. E ora che Berlusconi è in panchina, i veri avversari si chiamano Paolo Mieli, Luca C. di Montezemolo, De Benedetti, Tronchetti Provera, Merloni, Della Valle….