Dossier “Morire di carcere”: settembre - ottobre 2007

Dossier “Morire di carcere”: settembre - ottobre 2007

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

di ristretti orizzonti

Continua il monitoraggio sulle “morti di carcere”, che tra i mesi di settembre e ottobre 2007 registra 17 nuovi casi: 10 suicidi, 4 morti per cause da accertare, 2 per malattia e 1 per overdose.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

R.D., detenuto marocchino

25 anni

03 settembre 2007

Da accertare Ancona

Antonio D’Apote

49 anni

04 settembre 2007

Da accertare Milano (Questura)

Detenuta italiana

32 anni

12 settembre 2007

Suicidio Bergamo

Detenuto albanese

22 anni

13 settembre 2007

Suicidio Livorno

Raffaele Iuorio

32 anni

16 settembre 2007

Overdose Avellino

Fulvio Polloni

41 anni

23 settembre 2007

Suicidio Asti

Jamal Khalid

22 anni

26 settembre 2007

Da accertare Alessandria

Abeslam Slah

34 anni

03 ottobre 2007

Malattia Livorno

Aldo Bianzino

44 anni

15 ottobre 2007

Da accertare Perugia

Bruno Piccolo

29 anni

15 ottobre 2007

Suicidio Località protetta

Detenuto tunisino

23 anni

16 ottobre 2007

Suicidio Cpt di Modena

Detenuto marocchino

28 anni

17 ottobre 2007

Suicidio Cpt di Modena

Pasquale Giannuario

30 anni

20 ottobre 2007

Suicidio Foggia

Licurgo Floris

55 anni

20 ottobre 2007

Suicidio Cagliari

Chinane L.

31 anni

24 ottobre 2007

Suicidio Rebibbia (Roma)

Giorgio, detenuto italiano

48 anni

28 ottobre 2007

Suicidio Prato

Vincenzo Oliviero

46 anni

30 ottobre 2007

Malattia Parma

 

Morte per cause da accertare: 3 settembre 2007, Carcere di Ancona

 

R.D., detenuto marocchino di 25 anni, muore dopo cinque giorni di ricovero nella rianimazione dell’ospedale di Ancona. L’uomo sarebbe stato colpito da una intossicazione, dovuta probabilmente all’assunzione di farmaci, nel carcere di Montacuto in cui era rinchiuso per reati comuni. Sconvolti, il fratello e la sorella chiedono che la magistratura faccia luce sull’accaduto, e tramite l’avvocato Jacopo Casini Ropa presenteranno un esposto alla procura di Ancona.

Il detenuto avrebbe dovuto essere scarcerato domenica scorsa, dopo aver scontato una condanna a otto mesi e mezzo di carcere per il furto di un’auto. La pena iniziale di dieci mesi gli era stata ridotta, perché il giudice di sorveglianza aveva accolto un’istanza di liberazione anticipata. La scorsa settimana però, R.D. era stato sottoposto ad un ricovero d’urgenza per un malore, forse connesso a farmaci che aveva assunto in cella. A chiarire i motivi della morte sarà l’autopsia. (Corriere Adriatico, 5 settembre 2007)

 

Morte per cause da accertare: 4 settembre 2007, Questura di Milano

 

Antonio D’Apote, 49 anni, muore nella “camera di sicurezza” della Questura di Milano, dove era stato rinchiuso subito dopo l’arresto: viene ritrovato già cianotico dagli agenti, che sono andati a controllare perché non avevano sentito risposta all’appello e spira prima dell’arrivo dei soccorsi.

È il secondo caso nel giro di due mesi: il 10 luglio scorso era toccato a Mohammed Darid, 32 anni, marocchino, arrestato la sera prima dagli agenti della Polfer in stazione Centrale per spaccio di stupefacenti e trovato senza vita dentro la cella di sicurezza alle 9 del mattino.

Non c’erano segni di violenza sul suo corpo, stabilì il medico legale. Arresto cardiocircolatorio, sancì l’autopsia. La stessa scena si è ripetuta intorno alle 6 di ieri. D’Apote, sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno in casa, una fedina penale zeppa di precedenti per spaccio, furto e rapina, problemi di tossicodipendenza, era stato pizzicato per strada alle 3.30 da due agenti delle Volanti, mentre chiacchierava con una ragazza.

Aveva provato a reagire, prima e dopo le manette, probabilmente sotto l’effetto di stupefacenti, e aveva continuato ad andare in escandescenze anche dopo l’arrivo in via Fatebenefratelli e l’ingresso in cella di sicurezza. Visto anche prendere a testate il muro da alcuni testimoni, D’Apote si era poi disteso pancia a terra. Intorno alle 6.15, secondo la versione fornita dalla Questura, gli agenti di sorveglianza lo hanno chiamato una prima volta, pensando che dormisse, per andare a firmare il verbale d’arresto. Poi una seconda, non sentendo risposta. Alla terza sono entrati ma l’uomo già non respirava più. La chiamata al 118 è partita alle 6.35: quando i soccorritori sono arrivati, però, D’Apote era, già morto. Arresto cardiocircolatorio, è il primo responso. La cella è stata immediatamente messa sotto sequestro dalla stessa polizia e messa a disposizione del pm di turno, Laura Pedio.

“Abbiamo immediatamente avvisato la magistratura - spiega il questore di Milano Vincenzo Indoli - vogliamo fugare qualsiasi dubbio. E un fatto sicuramente non piacevole, che ci angoscia. Ma ogni notte entrano nelle nostre celle di sicurezza 10-15 persone, e capita che alcuni di loro non siano in buone condizioni di salute, o tossicodipendenti, come in questo caso o quello del cittadino marocchino. Le celle sono state ristrutturate da poco, e visitate pure da ispettori della Ue: e tengo a precisare che la permanenza dei detenuti è solo per poche ore”, il nuovo caso in meno di 50 giorni inquieta anche i palazzi della politica milanese. “Si può pensare a una visita medica per i detenuti - osserva il presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri, di Forza Italia - o a un sistema di video sorveglianza”. Favorevoli al presidio medico ma contrari alle telecamere Marco Granelli e Giovanni del centrosinistra. (La Repubblica, 5 settembre 2007)

 

Suicidio: 13 settembre 2007, carcere di Bergamo

 

Una detenuta tossicodipendente di 32 anni si suicida utilizzando il gas della bomboletta. Ne da notizia il Sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, con questa lettera indirizzata al Capo del Dap Ettore Ferrara.

“Caro Ferrara, ieri nel carcere di Bergamo una detenuta, tossicomane si è tolta, la vita. È un ulteriore tragico caso di suicidio realizzato - ancora una volta - con Parma a portata di mano: la bomboletta del gas che viene usata dai detenuti nelle celle per scaldare o cuocere il proprio vitto. Non sappiamo, così come tante volte non abbiamo saputo, quali fossero le reali intenzioni della donna: assumere sostanze capaci di alterare lo stato di coscienza o togliersi la vita.

Dunque, nonostante gli sforzi compiuti dall’Amministrazione penitenziaria per migliorare la qualità della vita nelle carceri italiane, l’incidenza del numero dei suicidi sulla popolazione detenuta continua a mantenersi su livelli elevati, anche a fronte della sua riduzione seguita all’indulto. Un dato che deve spingere a riflettere, e che ci impone di individuare con rapidità le modalità più idonee per far sì che il numero dei suicidi, ma anche quello degli episodi di autolesionismo, decresca significativamente,

In tal senso, come noto, l’Amministrazione penitenziaria ha già attivato la riorganizzazione e il rafforzamento dei servizi dì accoglienza e di prima assistenza al fine di contenere l’impatto psicologico che comporta l’ingresso in carcere, soprattutto per coloro che vivono per la prima volta questa esperienza.

Il quadro degli interventi da realizzare si presenta assai complesso anche in considerazione del fatto che, a seguito dell’indulto, non si è ancora provveduto alla riforma di un sistema penale che in alcuni casi si presenta come inutilmente vessatorio e che contribuisce a incrementare la popolazione carceraria tra le 500 e le 1.000 unità al mese.

È soprattutto in questa direzione che va ricercata la causa dell’aumento dei suicidi o, comunque, la sua persistenza all’interno dei sistema penitenziario. È possibile però, da subito, intervenire limitando le opportunità a disposizione di quei detenuti che, in una condizione di disperazione, maturano il proposito di mettere fine alla propria esistenza.

Come noto, infatti, uno degli strumenti maggiormente utilizzati all’interno degli istituti di pena per suicidarsi è la bomboletta del gas. Si rende, pertanto, necessario fare in modo che questi strumenti non possano essere utilizzati per altri scopi, o attraverso la loro sostituzione con piastre elettriche oppure con idonei accorgimenti tecnici tali da impedire episodi di autolesionismo estremo. Mi è del tutto evidente che, con ciò, non si incide in alcun modo su motivazioni e condizioni della scelta suicidarla, ma per lo meno se ne riducono i fattori che la possano facilitare. Insomma, non si lasciano in giro coltelli affilati quando ci sono intenzionati a usarli. Ti prego di valutare tempi e modi di realizzabilità di questa piccola grande riforma del nostro sistema penitenziario.

 

Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

 

Suicidio: 13 settembre 2007, Carcere di Livorno

 

Detenuto albanese di 22 anni si impicca in cella. C’era quella bella e triste canzone di Fabrizio De André su Miché, un uomo che si toglieva la vita in carcere impiccandosi nella sua cella. Ma stavolta il dramma è diventato reale. Nella notte tra mercoledì e ieri la stessa tragica fine di Miché se l’è scelta un giovane detenuto albanese che si trovava in carcere alle Sughere in attesa di giudizio. Verso le 4 del mattino ha preso un maglione e ha deciso di farla finita.

I tentativi di rianimazione da parte della polizia penitenziaria e del personale del 118 non sono bastati a salvarlo. Che quella del giovane fosse una situazione psicologica difficile era già noto agli operatori del carcere. E poche ore prima del tragico evento - poco dopo la mezzanotte - il 22enne albanese aveva già tentato il suicidio con una cordicella trovata nella sua cella. Subito era partito l’allarme e gli uomini della polizia penitenziaria era riusciti a salvarlo.

Poi la decisione di metterlo in una cella isolata - in un reparto dove poteva essere controllato più attentamente - e dove non ci fossero oggetti pericolosi che il giovane avrebbe potuto usare per farsi del male. Ma questa cautela non è stata sufficiente. Il giovane è riuscito ad entrare in possesso di una maglia che ha usato per ricavare una corda. E poi verso le 4 del mattino ha tentato di nuovo lo stesso gesto. Quando è arrivato il controllo gli agenti della penitenziaria si sono accorti di ciò che stava accadendo. Hanno subito tentato di riportare il giovane a terra mentre si attendeva l’arrivo dei soccorsi.

Al giovane è stato praticato un massaggio cardiaco e fatte alcune iniezioni di adrenalina. Poi i medici del 118 hanno anche tentato di rianimarlo usando il defibrillatore cardiaco. Ma per il giovane detenuto non c’è stato niente da fare. E al medico non è rimasto altro da fare che constatarne il decesso. Sul fatto sarà probabilmente aperta un’inchiesta per capire cosa sia accaduto realmente nella notte in cui il giovane si è tolto la vita. Alle Sughere sono arrivati anche i carabinieri per raccogliere elementi sull’accaduto. Sembra che il giovane detenuto albanese fosse arrivato da poche settimane a Livorno dal carcere di Prato.

In passato, secondo quanto è trapelato, aveva già tentato due volte di togliersi la vita. E per questo era stato visitato e controllato da psicologi ed operatori delle due strutture carcerarie. Soltanto da due giorni il ragazzo era tornato tra i detenuti normali dopo essere stato tenuto in osservazione. Una storia estremamente drammatica che torna a far riflettere sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. (Il Tirreno, 14 settembre 2007)

 

Overdose: 16 settembre 2007, Carcere di Avellino

 

Raffaele Iuorio, 32 anni, muore nel carcere di Ariano Irpino: solo qualche giorno prima era stato ricondotto in carcere, per aver disatteso l’obbligo degli arresti domiciliari, è deceduto mentre veniva trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Ariano Irpino. Si era sentito male dopo cena e aveva chiesto aiuto, accusando forti dolori all’addome. Ma inutili si sono rivelati sia i soccorsi dei sanitari all’interno della struttura carceraria che di quelli del 118 immediatamente allertati.

Il giovane non ha fatto in tempo a raggiungere neanche il nosocomio arianese. Adesso il cadavere giace nell’obitorio in attesa che questa mattina, su richiesta della Procura della Repubblica di Ariano Irpino, si svolga su di esso l’esame autoptico. In effetti il medico legale, Michele Gelormini, non ha potuto fare altro che constatare il decesso e indicare alla Procura la necessità di procedere ad una più approfondita indagine attraverso l’autopsia.

Il suo decesso, in effetti, è avvolto dal mistero. Raffaele Iuorio, da tempo ai domiciliari, era stato ricercato dai carabinieri, a seguito della segnalazione della sua presenza nel comune di Grottaminarda. I militi temevano che, a causa dei suoi precedenti per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, potesse contattare giovani del posto. Di qui il suo arresto e la sua traduzione nel carcere arianese. Ma qui è rimasto solo poco più di un giorno, a causa dell’improvviso malore e del conseguente decesso. Cosa è realmente accaduto tra le mura del carcere? Il giovane di Torella dei Lombardi ha accusato un malore o ha ingerito qualcosa che ha causato la sua morte? Si è suicidato? A questi interrogativi la Procura della Repubblica di Ariano Irpino tenta di dare una risposta, così come se l’aspettano i parenti che avrebbero nominato un perito per seguire l’esame autoptico e le fasi dell’inchiesta in corso. Anche la direzione del carcere ha avviato un’indagine interna per far luce sull’intera vicenda. Raffaele Iuorio lascia la mamma Maria Luigia e le due sorelle Angela e Adele. (Il Mattino, 17 settembre 2007)

 

Avellino: il detenuto morto per infarto aveva assunto droghe

 

Il giovane di Torella dei Lombardi, morto nella notte tra sabato e domenica nel carcere di Ariano Irpino, aveva ingerito una quantità notevole di droga, che sarebbe stata la causa o la concausa del sopravvenuto arresto cardiocircolatorio. Questo il risultato dell’autopsia sul suo corpo, anche se per la conferma definitiva occorre attendere il verdetto delle indagini tossicologiche. Il giovane, Raffaele Iuorio, si è sentito male alcune ore dopo l’arresto, pertanto l’ipotesi più probabile, sempre che la presenza di droga nel suo organismo venga confermata, è che l’abbia assunta prima di essere fermato dalle forze dell’ordine. (Irpinia News, 19 settembre 2007)

 

Suicidio: 23 settembre 2007, Carcere di Asti

 

Fulvio Polloni, 41 anni, si toglie la vita impiccandosi con una coperta alle sbarre della cella. L’uomo era detenuto da alcuni mesi per presunti maltrattamenti in famiglia, ai danni della convivente. A Tortona, nel 2003, aveva forzato un posto di blocco, speronando l’auto dei carabinieri. Nella serata di martedì, la decisione di farla finita. Polloni, secondo i primi e ancora sommari accertamenti, avrebbe maturato la scelta del suicidio nelle ultime ore: nulla faceva presagire il suo gesto. Gli agenti di polizia penitenziaria hanno comunicato la notizia del ritrovamento del corpo alla procura, che potrebbe disporre ulteriori accertamenti. (La Stampa, 28 settembre 2007)

 

Morte per cause da accertare: 26 settembre 2007, Carcere di Alessandria

 

Jamal Khalid, 22 anni, marocchino, muore in cella. Il corpo del detenuto è stato ritrovato dopo qualche ora durante un giro di ispezione degli agenti della polizia penitenziaria. È stato chiamato il 118 ma ogni soccorso è stato inutile. Jamal Khalid, di origine marocchina, probabilmente ha seguito i precetti del Ramadan che limita l’assunzione del cibo. Forse aveva il fisico debilitato. Secondo i primi accertamenti potrebbe non aver digerito ed essere rimasto soffocato nella notte. Il corpo del ragazzo è stato portato alla camera mortuaria dell’ospedale di Alessandria. La salma è a disposizione della Procura. (La Stampa, 28 settembre 2007)

 

Malattia: 3 ottobre 2007, carcere di Livorno

 

Abeslam Slah, 34 anni, marocchino, muore in carcere per infarto. Steso sulla sua brandina sul fianco, con gli occhi chiusi e il volto all’ingiù sul cuscino, sembrava davvero che dormisse. E invece quel giaciglio nella sua cella, divisa con tre compagni, per Abeslam Slah, 34enne marocchino, era un letto di morte. È il terzo detenuto trovato senza vita nel carcere livornese in un mese.

“Alzati, altrimenti non fai in tempo a prendere il cambio lenzuola”, gli ha detto ieri mattina un compagno di cella. Ma Slah non rispondeva. Allora, è scattato l’allarme e sul posto si sono precipitate le guardie. E guardandolo con occhio più attento, è emerso che il giovane aveva dei rigurgiti e dell’urina addosso. Evidentemente, in preda a un malore, aveva vomitato, avendo perso il controllo delle funzioni fisiologiche. In base alle prime ricostruzioni, l’uomo potrebbe essersi sentito male in nottata: lo fa pensare il fatto che ieri mattina, quando è stato trovato, il suo corpo era già irrigidito. Motivo della morte sembra un malore o un infarto, così come emerso da una prima analisi del medico legale. Il giovane è dunque morto nella notte, ma fino alla mattina nessuno si è accorto di nulla. Nemmeno i suoi compagni di stanza. Anche perché il ragazzo era amante del riposo mattutino ed era solito alzarsi tardi. Così all’ora della colazione, vedendolo apparentemente addormentato, nessuno l’ha disturbato. Dopo, all’ora del cambio delle lenzuola, i compagni l’hanno chiamato, senza avere risposta. Sono in corso indagini mediche per capire come e perché il giovane sia morto: la sera prima, infatti, aveva giocato e scherzato fino a mezzanotte con gli altri, senza alcun problema. Sembrerebbe comunque un malore: nessun indizio fa pensare ad altre motivazioni. Il giovane era nel carcere livornese da pochi giorni, trasferito da Porto Azzurro, dove era detenuto per detenzione di droga, per reati commessi a Oltrarno (Firenze). Era stato portato a Livorno poiché il primo c’era stata un’udienza del processo a Firenze e doveva essere riportato a Porto Azzurro. (Il Tirreno, 5 ottobre 2007)

 

Morte per cause da accertare: 15 ottobre 2007, carcere di Perugia

 

Aldo Bianzino, 44 anni, viene ritrovato morto in cella all’alba di domenica 15 ottobre, nel carcere di Capanne, Perugia. Di sicuro si sa che era stato arrestato il venerdì prima, assieme a Roberta, la madre del più giovane dei suoi tre figli. È successo nel casale sopra Pietralunga, tra Città di Castello, Gubbio e Umbertide.

Prima la perquisizione alle 7 del mattino, con il cane antidroga che non trova nulla nel casale. Ma poi, dietro un cespuglio spuntano alcune piante di marijuana. I giornali locali riportano cifre consistenti. Un centinaio di piante ma forse hanno fatto la somma con le piante maschio trovate in fosso secche e inutilizzabili. Di sicuro sappiamo che Roberta e Aldo sono stati portati al commissariato di Città di Castello per le formalità di rito e da lì trasferiti, con un mandato d’arresto spiccato dallo stesso pm che si occupa della morte di Aldo, al carcere di Capanne, struttura di media sicurezza, dove non c’è il regime duro dell’articolo 41, come a Spoleto o Terni. Struttura moderna, nuova, inaugurata da Castelli quand’era Guardasigilli di Berlusconi.

Di sicuro si sa, l’ha detto la famiglia, che il comportamento degli agenti di Città di Castello sia stato corretto. Roberta e il suo compagno si sono persi di vista solo all’arrivo in carcere, pomeriggio di venerdì 13. Di sicuro, un avvocato d’ufficio li ha visti il giorno appresso, prima lui poi lei. Aldo stava in condizioni normali, solo era preoccupato per Roberta. Roberta che sarebbe stata rilasciata la mattina dopo. Di sicuro si sa che il medico legale avrebbe presto escluso l’ipotesi di una morte per infarto.

Anzi, avrebbe riscontrato quattro emorragie cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e milza. Di sicuro, e di strano, si sa che non c’erano segni esteriori. Tanto da lasciare perplessi i consulenti incaricati della perizia. Di sicuro si sa che le ferite al fegato non sono idonee a cagionare la morte, spiega a Liberazione uno dei legali della famiglia. “Di sicuro sappiamo che è arrivato a Capanne in condizioni di assoluta normalità e da lì non è uscito”.

Trauma non accidentale, non è morto perché caduto dal letto a castello. Lesioni compatibili con l’omicidio, scrivono i giornali locali. Ci si chiede se siano opera del caso oppure opera dell’uomo. Un arrestato resta in isolamento fino a quando non lo vede il giudice delle indagini preliminari. Dunque Aldo Bianzino non dovrebbe aver avuto contatti con altri detenuti. “Una risposta importantissima verrà dall’analisi dell’encefalo - continua l’avvocato - ora messo sotto formalina in attesa che raggiunga una certa rigidità, che “0 materiale si fissi”, come dicono gli specialisti”.

Intanto, però, i familiari non hanno ancora potuto vedere il corpo, né sanno quando sarà possibile organizzare i funerali. Di sicuro si sa che Aldo era particolarmente mite, “ghandiano”, pacifista, totalmente incensurato. La notizia piomba nella piccola comunità spirituale di cui Roberta e Aldo, che era arrivato dal Piemonte una ventina d’anni fa, passando per l’India, fanno parte. E piomba in un giorno di festa religiosa trovando tutti increduli. Aldo che era magro, etereo, alto, con certi occhi azzurri dietro le lenti. “La mitezza in persona”, racconta una voce a Liberazione. “Così rispettoso e riservato da metterti in soggezione, quasi a farti dire ho paura di entrare nella sua sfera”. “Infarto? Come può essere? L’hanno pestato, ma perché dovrebbero averlo menato? Il dubbio sottile passava tra una mente e l’altra”, continua il racconto dell’incredulità di quella domenica.

Chi lo conosceva dall’84 lo immagina “calmo” dentro quella cella, “in preghiera, a chiedersi il perché di quella condizione”. Persona riservata colta, segnato da un’esperienza spirituale con un maestro induista “che non indottrina, non chiede proselitismo, non chiede di stare fuori dal mondo, che non impone precetti rigidi ma solo il principio quasi benedettino di pregare e lavorare, i comandamenti di verità, semplicità e amore”.

Era questo ad aver portato Aldo in Umbria alla ricerca di una dimensione diversa più vicina alla natura, in una comunità a maglie larghe, “che a volte il mondo frantuma perché ognuno di noi si deve affaticare nel mondo”. Ma lo stile cercato è quello di “vivere più semplicemente possibile, con tutte le difficoltà di questo mondo che, lo si voglia o no, si ripercuotono sempre anche su di noi”.

Di sicuro si sa che due poliziotti sono tornati a casa di Roberta, sconvolti, quasi a scusarsi per averlo condotto in galera. Roberta è più scossa di loro. Di sicuro si sa che era un bravo falegname, suonava l’armonium e cantava il canto rituale di devozione. Di sicuro si sa che a giugno del 2006 è morta suicida un’italiana di 44 anni nel centro clinico del penitenziario, nel vecchio carcere, e che qualche giorno dopo i Nas hanno scoperto medicinali e materiali scaduti nello stesso centro dopo la morte di un detenuto tunisino di Capanne che aveva appena subito un intervento chirurgico. Di squadrette, finora, non ha parlato nessuno. Di sicuro si sa che il proibizionismo ha ucciso ancora. (Liberazione, 23 ottobre 2007)

 

Perugia: il mistero di Aldo

 

Una domenica come un’altra un uomo di 44 anni viene trovato morto nel carcere di Perugia. C’è stato trasferito due notti prima, venerdì 12 ottobre, dopo che la polizia lo ha arrestato con la sua compagna. Gli avrebbero trovato in casa, la famiglia di Aldo Bianzino abita nella campagna di Città di Castello, una piccola piantagione con diversi fusti di marijuana.

I due vengono trasferiti a Perugia e da lì al carcere. Sabato il legale d’ufficio incontra Aldo alle 14 e riferisce a Roberta, la compagna, che Bianzino sta bene e si preoccupa per lei. Ma la mattina seguente Daniela, un’amica di famiglia, viene avvisata di correre la carcere in tutta fretta. “C’è un problema”, le dicono. Il problema è che Aldo non respira più e Roberta, in evidente stato di choc, non ha nemmeno potuto vedere il suo corpo.

Le indagini autoptiche (ancora in corso) cominciano a confermare, qualche giorno dopo, quel che tutti già pensano nella piccola comunità di amici di Aldo e Roberta. Le voci raccolte dalla stampa locale parlano di lesioni massive al cervello e all’addome, forse, un paio di costole rotte anche se all’esterno il corpo di Aldo non evidenzierebbe ematomi o contusioni. Ce n’è abbastanza però per far saltare la prima lettura del decesso, liquidato come un problema cardiaco.

La storia di Aldo Bianzino ha contorni dunque che è poco definire oscuri e la procura di Perugia ha deciso di aprire un’indagine sul decesso affidata nelle mani dello stesso pubblico ministero, il magistrato Giuseppe Petrazzini, titolare dell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Aldo e di Roberta. Che sta aspettando i risultati definitivi dell’autopsia.

Tutto comincia dieci giorni fa. Aldo è nella sua casa di Capanne, una frazione di Pietralunga, poco distante da Città di Castello, quando uomini della squadra mobile della cittadina umbra perquisiscono giardino e casa e lo portano in carcere a Perugia con l’accusa di detenzione illegale di stupefacenti. Accuse pesanti: nella conferenza stampa delle forze dell’ordine si parla di 110 piantine di hashish, una metà in giardino e una parte già raccolta, insieme a 15 involucri contenenti erba. Rivelazioni che lasciano increduli quanti conoscevano Aldo da tempo e che non ritengono possibile che l’uomo coltivasse hashish per poi rivenderlo.

Bianzino avrebbe dovuto incontrare il gip che segue le indagini il lunedì successivo per la conferma dell’arresto. Ma all’appuntamento col gip non arriva. E non è chiaro se in cella fosse solo o in compagnia di un altro detenuto. “Ufficialmente era solo - dice l’avvocato incaricato dalla famiglia Massimo Zaganelli - perché la procedura richiede l’isolamento prima dell’incontro col gip”.

Sulla salute dei due indagati al momento dell’arresto Zaganelli non ha dubbi: “Furono portati in carcere in perfetta salute e durante il viaggio non fu torto loro un capello”. I dubbi iniziano dopo: “Per quel che sappiamo il decesso è riconducibile a un trauma ma non a un trauma accidentale” che rimanda quindi “alla responsabilità di terzi”. L’avvocato resta prudente: “Non è bene in questi casi fare due più due quattro e abbiamo piena fiducia nella magistratura che, ne siamo certi, sta facendo il suo lavoro”.

Lavoro intanto che aspetta i risultati definitivi delle prove autoptiche sulla materia cerebrale di Aldo: l’entità cioè del trauma al cervello. La famiglia non potrà rivedere il corpo di Aldo prima di fine settimana. Il mistero per giorni è rimasto confinato nelle cronache locali dei pochi giornali che, come la Nazione, hanno provato a ricostruire la storia di Bianzino.

E sono molti gli interrogativi al momento senza risposta considerando che, dal giorno della conferenza stampa della polizia, non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali e ancora resta ancora da chiarire se, al momento della morte, Bianzino fosse solo nella cella dove è stato trovato. Nella frazione di Pietralunga il clima è sempre più teso e il dolore degli amici si mischia allo sgomento della famiglia che resta ancora in attesa di potere vedere la salma.

Nel frattempo amici e parenti si stanno adoperando per assicurare a Aldo una cerimonia funebre che però non ha ancora una data certa. Ma la notizia è circolata rapidamente tra gli amici di Aldo, molti dei quali vicini all’esperienza spirituale maturata da Bianzino attraverso la filosofia indiana e una lunga frequentazione con una comunità allargata di amici incontrata nel suo percorso interiore.

Un aiuto gradito visto che sono molte le persone vicine a Roberta a lamentare una scarsa solidarietà in paese, forse anche per le abitudini diverse di un uomo che da tempi aveva scelto una vita appartata e basata sulla meditazione. I radicali e gli anti proibizionisti locali però si sono già mossi. E così il sindaco di Pietralunga Luca Sborzacchi. E del caso si sta occupando anche l’osservatorio che fa capo a Heidi Giuliani. (Il Manifesto, 23 ottobre 2007)

 

La morte Aldo Bianzino: un suicidio o un omicidio?

 

“Domenica scorsa Aldo Bianzino, 44enne di Pietralunga, arrestato per detenzione illegale di stupefacenti, è morto in carcere. La vicenda ha contorni che è poco definire oscuri e la Procura di Perugia ha deciso di aprire un’indagine sulle cause del decesso del detenuto”.

È quanto ricorda, in una nota il capogruppo di Rifondazione comunista Stefano Vinti preoccupato perché “fatti come questi rischiano di assumere un tono scontato, quasi di normalità”.

“È del tutto evidente - evidenzia il capogruppo del Prc-Se - che la magistratura farà il suo lavoro, ma l’episodio ci lascia inquieti perché il medico legale avrebbe già escluso l’ipotesi di una morte per infarto. Inoltre - aggiunge - un arrestato resta in isolamento fino a quando non lo vede il giudice delle indagini preliminari, senza entrare in contatto con altri detenuti.

Ora - dice - attendiamo i reperti istologici e gli esami tossicologici per capire come è morto il detenuto”.Vinti chiede, quindi, di sapere “se la morte in carcere di Aldo Bianzino sia opera del caso o opera dell’uomo. Questo - commenta - perché il carcere resta ancora oggi una realtà chiusa e la chiusura aumenta quando succede un fatto grave come quello di un decesso. Il sistema delle nostre carceri purtroppo lo conosciamo.

La vita delle persone che vi entrano - sottolinea - sembra valere immediatamente di meno. Per questo abbiamo sostenuto con forza l’istituzione nella nostra regione del Garante delle carceri avvenuta con legge regionale il 18 ottobre dello scorso anno. È stata una scelta che abbiamo definito di civiltà perché convinti che la Regione dell’Umbria non possa disinteressarsi dei problemi nelle nostre carceri.

A distanza di un anno, però, - spiega - occorre che l’intera comunità politica regionale riconosca la necessità della nomina del garante, con la duplice funzione di controllo, per le competenze proprie dell’amministrazione regionale, e di moral suasion, per le competenze del ministero della Giustizia, al fine di imboccare un percorso virtuoso per la piena affermazione, senza se e senza ma, del pieno riconoscimento della dignità umana”.

“La morte di Aldo, - aggiunge Vinti - incarcerato per possesso di marijuana, non può diventare improvvisamente un fatto normale, proprio oggi che apprendiamo dal decimo rapporto Sos Impresa” (Confesercenti) che l’azienda italiana con il maggior fatturato è la mafia”. Vinti, in conclusione, fa sapere che “è contro questa assurda normalità che Rifondazione comunista dell’Umbria si pone, mettendo l’informazione e la trasparenza al centro dei percorsi di cambiamento della cultura penitenziaria. Chiediamo chiarezza sulla morte di Aldo Bianzino, chiediamo la verità, chiediamo una spiegazione coerente con quello che è accaduto”. (Ansa, 24 ottobre 2007)

 

La morte di Aldo Bianzino: interrogazioni al Senato

 

“Se fossero accertate le gravissime lesioni che sarebbero state riscontrate sul corpo di Aldo Bianzino, deceduto nel carcere di Perugia in circostanze oscure, saremmo di fronte a un fatto di inaudita gravità”.

Il senatore di “Insieme con l’Unione” Mauro Bulgarelli, ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda avvenuta la scorsa settimana nell’istituto di pena, dove un uomo, arrestato con l’accusa di coltivare piante di cannabis presso la propria abitazione, è improvvisamente deceduto nella notte tra il 13 e il 14 ottobre senza una valida motivazione.

“È sconcertante che a 24 ore dall’arresto, le cui circostanze sono peraltro da chiarire, un uomo muoia in carcere per cause che potrebbero essere non accidentali e far addirittura ipotizzare un pestaggio. Così come - continua Bulgarelli - è grave che a 10 giorni dalla morte i familiari non abbiano ancora potuto vedere il corpo del loro congiunto e la direzione del carcere non abbia fornito loro spiegazioni su quanto accaduto e non si sappia nemmeno se l’uomo fosse tenuto in isolamento o in compagnia di altri detenuti.” Il parlamentare sottolinea infine la necessità di chiarire al più presto le cause del decesso e soprattutto che vengano accertate tutte le eventuali responsabilità, a partire da quelle della direzione dell’istituto di pena. (Ansa, 24 ottobre 2007)

 

Interrogazione con carattere d’urgenza al Ministro della Giustizia

 

Premesso che, da notizie apprese dalla stampa, nella notte di venerdì 12 ottobre è stato arrestato nella propria abitazione, nel Comune di Petralunga (PG) per violazione dell’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, il signor Aldo Bianzino; dopo l’arresto, lo stesso sarebbe stato condotto assieme alla moglie nel commissariato di Città di Castello per le formalità di rito e quindi trasferito nel carcere di Capanne (PG); i due coniugi sarebbero stati divisi non appena entrati in carcere, e sarebbero state riscontrate da parte dell’avvocato d’ufficio condizioni normali di salute in entrambi; nella notte di sabato 13 ottobre il signor Aldo Bianzino è deceduto all’interno della struttura penitenziaria; il signor Bianzino, secondo le normali procedure, sarebbe stato ristretto in cella da solo, prevedendo la prassi l’isolamento dell’arrestato prima dell’incontro con il Giudice preliminare; le lesioni riscontrate sul corpo del signor Aldo Bianzino, dopo il suo decesso, configurerebbero la compatibilità con l’omicidio, in quanto il medico legale escluderebbe la morte per infarto, riscontrando quattro commozioni cerebrali, lesioni al fegato, due costole rotte. Si chiede di sapere quali procedure urgenti il ministro in indirizzo intenda avviare per fare completa chiarezza sulla vicenda. (Senatori: Erminia Emprin Gilardini, Giovanni Russo Spena, Haidi Gaggio Giuliani)

 

Comunicato di Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

 

Sto seguendo con attenzione e preoccupazione le notizie relative alle indagini sulla morte, nell’istituto perugino di Capanne, di Aldo Bianzino, deceduto nella notte tra il 13 e il 14 di ottobre, a poco più di ventiquattro ore dall’arresto. Ogni morte in carcere è una duplice tragedia, perché quella morte, e la perdita che comporta, avviene quando la persona si trova sotto la responsabilità dello Stato e nella sua tutela.

Gli uffici centrali del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria stanno attivamente collaborando con il pubblico ministero, affinché siano accertate le cause e le responsabilità del decesso. Sia chiaro sin d’ora che il Ministero della giustizia opererà affinché siano accertate nella maniera più completa ed esauriente le circostanze di quella morte, affinché non resti ombra alcuna sulla dinamica e le eventuali responsabilità dell’accaduto.

 

Suicidio: 15 ottobre 2007, in “località protetta”

 

Bruno Piccolo, 29 anni, collaboratore di giustizia, si uccide in un appartamento del Nord Italia, dove era stato nascosto dalla Direzione distrettuale antimafia per proteggerlo dalle continue minacce che aveva ricevuto da quando aveva deciso di collaborare con la giustizia.

Era uno dei due testi che hanno incastrato gli assassini di Francesco Fortugno. A fare la scoperta gli uomini delle forze dell’ordine invitati a far visita nell’appartamento dai parenti del pentito preoccupati perché il loro caro non rispondeva da ore al telefono. La notizia del suicidio giunge proprio oggi in cui ricorre il secondo anniversario della morte dell’ex vicepresidente del consiglio regionale della Calabria ucciso a Locri. (Ansa, 16 ottobre 2007)

 

Locri: le pressioni della ‘ndrangheta sul “pentito” suicida

 

Bruno Piccolo era nato a Locri l’11 marzo del 1978 e tutta la storia del suo pentimento e soprattutto delle pressioni subite dai capicosca dei Cordì è narrata in decine e decine di pagine delle varie ordinanze di custodia cautelare dei magistrati di Reggio che indagano da due anni sul delitto Fortugno. Chi era davvero Bruno Piccolo?

Un ragazzo qualsiasi, non un picciotto di mafia ma uno che frequentava nel suo bar “Arcobaleno” gli uomini dei Cordì. Ascoltava, parlava, andava anche a pranzi e cenette. La sua vita cambiò il 14 novembre 2005, un mese dopo l’omicidio di Franco Fortugno, quando venne arrestato con Antonio Dessì e Domenico Novella per un traffico di armi. Lo spostano in varie carceri, da Reggio Calabria a Sulmona, una struttura nuova dove lo mettono al regime duro del 41 bis. Bruno non regge molto, Bruno il barista cede quasi subito e i primi di dicembre del 2005 inizia a vuotare il sacco.

Lui - scrive Enrico Fierro, giornalista dell’Unità nel suo libro “Ammazzati l’onorevole” presentato stamattina a Locri - non è un boss, non ha parenti o familiari con i cognomi importanti delle cosche, non si può aspettare niente da nessuno. La sua è una famiglia di persone perbene. È il figlio di un operaio, un uomo onesto, morto in un incidente sul lavoro. Il 6 dicembre 2005 inizia a parlare e racconta come il bar che gestiva, proprio all’angolo sopra la sede del vescovado e a due passi dallo stadio dove gioca il Locri, era via via diventato una sorta d’ufficio dei Cordì.

Della cosca fa l’organigramma ma al giudice fa capire anche il perché della sua vicinanza a quei picciotti senza scrupolo che frequentano il bar. “Volevo - dice - vendicarmi del farmacista di Locri e di quel giorno quando mio padre cadde dall’impalcatura e lui non lo aiutò. Lo trattò come un cane”. Ma il fatto che Bruno il barista potesse cedere alle pressioni degli inquirenti e quindi pentirsi arrivò all’orecchio dei capicosca, che in quello stesso dicembre 2005 cominciarono a preoccuparsi.

“Ma Bruno ce la farà?”, dicono tra di loro i capi, e Vincenzo Cordì, che ha preso il posto di comando della famiglia dopo la morte di Antonio Cordì “il ragioniere”, fa sapere che a parlare con Bruno ha mandato nel carcere di Sulmona Filippo Barreca, uno dei capi ‘ndrangheta di Reggio Calabria, lì detenuto. Le donne e i boss si attivano, dunque, per far desistere Bruno il barista e il 13 dicembre 2005 nella sala colloqui di Sulmona arrivano madre e sorella. Tremano per lui, temono vendette ma a Locri non succede niente.

Uno zio di Bruno tenta anche lui di farlo desistere: “attento Bruno - gli dice in carcere ed ovviamente è intercettato dalle cimici - non fare minchiate. Che stai combinando?”. Il 19 dicembre Vincenzo Cordì tenta l’ultima carta, gli scrive una lettera: “l’importante in questi luoghi è stare tranquilli, farsi la galera con onestà e parlare poco”.

Una lettera dal chiaro significato. Ma è tutto inutile, Bruno il barista parla e fa i nomi di quelli che nel suo bar progettavano l’assassinio di Fortugno. A Locri la voce gira, dicono che Bruno se ne è andato di testa e infatti tentano anche di farlo passare per pazzo, riportano a galla una vecchia storia del 1998 quando Bruno tentò di ammazzarsi. Una perizia pschiatrica lo dichiara però normale ma gli avvocati difensori degli arrestati lo incalzano, tentano di farlo passare per un “border line”, uno squilibrato, un cocainomane.

Lui è però un pentito vero, conferma i nomi di quelli implicati nel delitto Fortugno: “sono stati Salvatore Ritorto e Domenico Audino”. Dice anche quello che ha fatto quella domenica maledetta, il 16 ottobre 2005: era andato a Reggio con tre picciotti. A fare che? “A donne”, risponde al magistrato. Nulla dice di sapere, invece, sui mandanti. Risponde solo che quell’omicidio interessava a Ritorto.

Si fa la galera, il processo col rito abbreviato, a giugno la condanna a un anno e quattro mesi e torna a vivere quasi da uomo libero in Abruzzo, in una casetta vicina al mare a Francavilla (Chieti). Parla spesso con il vescovo di Locri, mons. Giancarlo Bregantini, fino a quando decide di dire basta con questa vita. Dicono per una travagliata relazione sentimentale. Sarà vero? Dicono che era assai depresso e lasciato solo. Muore con una corda al collo e finisce così la sua vita travagliata, da picciotto che non era picciotto, poi pentito ed isolato da tutti. “Troppo solo”, commenta sconsolato Bregantini. (Telereggio, 17 ottobre 2007)

 

Suicidio di Bruno Piccolo: Amato dispone una verifica

 

Bruno Piccolo, che aveva 29 anni, si è suicidato in una località protetta dove attualmente viveva e lavorava secondo le procedure previste nel piano di protezione.

Proprietario di un bar nel centro di Locri, fu lui, dopo il suo arresto avvenuto nel novembre del 2005 perché affiliato ad una cosca mafiosa, a consentire di fare luce sull’omicidio del vice presidente del consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno. Con le sue rivelazioni gli inquirenti ricostruirono tutte le fasi del delitto dell’esponente politico calabrese che Piccolo riferì di avere appreso dei preparativi dell’omicidio nel suo bar, frequentato dagli uomini del clan.

In relazione alla richiesta formulata dal Presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla criminalità mafiosa, Francesco Forgione, avente ad oggetto la gestione del collaboratore di giustizia Bruno Piccolo, il Ministro dell’Interno per il tramite del Capo della Polizia ha chiesto una verifica al Servizio Centrale di Protezione.

Da una prima ed immediata risposta fornita dal predetto Servizio di Protezione emergerebbe quanto segue: al collaboratore Bruno Piccolo è stato consentito, su sua richiesta, di poter lavorare in un bar della località protetta, secondo le procedure previste nel piano provvisorio di protezione, ed in vista del futuro reinserimento sociale; non vi è stato alcun controllo effettuato presso tale bar da parte dell’Ispettorato del lavoro che abbia riguardato la persona di Bruno Piccolo; un unico controllo risulta operato all’interno del bar dalla Guardia di Finanza e il pronto intervento del Servizio Centrale di Protezione ha determinato che gli esiti di tale controllo fossero custoditi nel prescritto circuito riservato senza divulgazione alcuna; la rottura del rapporto di lavoro è stata piuttosto determinata da ragioni comportamentali connesse a vicende di natura personale; il licenziamento quindi non è da ricollegare ad alcuna attività di controllo sul bar, ovvero a qualsivoglia disvelamento della identità personale del collaboratore; all’atto del sopralluogo si è constatato il funzionamento dell’impianto di erogazione dell’energia elettrica e del gas, essendo stati rinvenuti la luce ed il televisore accesi. (www.interno.it, 22 ottobre 2007)

 

Suicidio: 16 ottobre 2007, Cpt di Modena

 

Cittadino tunisino di 23 anni si uccide nel Centro di Permanenza Temporanea per Immigrati di Modena, dove è “trattenuto”. Il ministero dell’Interno ha predisposto un sopralluogo nella struttura per oggi. Un funzionario del dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale incontrerà il vice prefetto vicario, il questore di Modena e Anna Maria Lombardo, il responsabile del centro gestito dalla Misericordia di Modena.

Un Cpt, quello modenese, che fa parlare di sé fin dalla sua apertura nel novembre 2002, e non solo per il fatto che il presidente della Misericordia di Modena, ente gestore del centro, sia il fratello di Carlo Giovanardi, allora Ministro dei rapporti con il Parlamento. La mattina del 25 dicembre 2004 una donna rumena trattenuta al Cpt nonostante fosse incinta di nove mesi, partoriva una bambina che avrebbe poi chiamato Natalia in ricordo di quel giorno, senza che il personale del centro avvertisse i servizi sociali della città di Modena.

A settembre 2006, una giovane cinese, ospite del Cpt modenese, veniva ricoverata a Baggiovara per trauma da percosse. W.F., 26 anni, doveva essere rilasciata proprio il 22 settembre perché alla scadenza del suo sessantesimo giorno di permanenza al Centro, non era stata identificata. Non trovando gli operatori, la ragazza, che non parlava italiano, aveva cominciato ad agitarsi. A quel punto - secondo quanto raccontarono allora le compagne del reparto femminile - sarebbe intervenuto un agente di polizia, di turno al controllo della struttura, che l’avrebbe prima bloccata e poi schiaffeggiata, per poi calciarla una volta caduta a terra.

“Abbiamo assistito tutte alla scena, è stata molto violenta, abbiamo sentito le sue urla” dichiararono allora le compagne alla stampa. La giovane, trasportata all’ospedale di Baggiovara, e trattenuta al pronto soccorso venne poi raggiunta dal direttore del Cpt, Giovanni Gargano, insieme al vicedirettore, che promisero di fare chiarezza sulla vicenda. Ma i responsabili non sono mai stati puniti. E qualcosa di simile è accaduto di nuovo recentemente.

Lo scorso 2 settembre 2007 con il pestaggio di un cittadino marocchino nel centro modenese. La vicenda è persino finita in tribunale. L’hanno accusato di resistenza a pubblico ufficiale, ma stranamente è lui che riporta gravi contusioni sulle gambe e sul torace, un occhio pesto ed ematomi su tutto il corpo. Nell’udienza di lunedì 9 in cui veniva chiesto l’arresto e la custodia cautelare in carcere per il cittadino straniero, gli agenti hanno sostenuto che una volta portato nella sala di accettazione il detenuto si sarebbe messo a colpire a testate la parete e un oggetto in ferro lì presente, riportando così le contusioni. Ma l’imputato, ha parlato di un pestaggio. “È stato preso dal tetto di peso, portato in una stanza e poi pestato - dice l’avvocato difensore Vainer Burani -.

Ha ricevuto un calcio in faccia all’altezza dell’occhio, come si vede dalla ferita e dal viso tutto gonfio e poi è stato calciato sul braccio dove c’è il segno di uno scarpone, picchiato con i manganelli sulle cosce e con calci sugli stinchi dove ha una serie di contusioni”. I referti medici in seguito al ricovero al pronto soccorso riportano “trauma policontusivo per ferite e percosse, dolore in sede cervicale, lombare, toracica e ascellare, dolore su gomito sinistro, anca sinistra e gamba sinistra”, confermando il racconto del ragazzo. La prossima udienza si terrà il 30 ottobre, ma l’avvocato Burani teme che la sua espulsione possa avvenire prima. È già successo in casi simili, a Bologna, a Milano, a Torino.

E intanto sulla gestione del centro pende l’ufficializzazione del nome del vincitore del bando per la gestione. Dalla sua apertura, nel 2002, il Cpt è gestito dalla Misericordia di Modena, il cui presidente, Daniele Giovanardi, è fratello di Carlo Giovanardi, che nel 2004 era ministro per i rapporti con il Parlamento. Ma la nuova gestione, secondo indiscrezioni, sarebbe stata affidata alla Cooperativa Albatros 1973, che già gestisce il Cpt di Caltanissetta. (Redattore Sociale, 16 ottobre 2007)

 

Suicidio: 17 ottobre 2007, Cpt di Modena

 

Cittadino marocchino di 28 anni si uccide nel Centro di Permanenza Temporanea per Immigrati di Modena, dove è “trattenuto”. Nel breve volgere di due giorni, da domenica a ieri notte, ben due suicidi sono avvenuti nel Centro di Permanenza Temporanea di Modena. I due giovani suicidi il primo di origine tunisina ed il secondo di origine marocchina si sono tolti la vita impiccandosi. Come è noto, le persone che si trovano ristrette al centro di permanenza temporaneo sono destinate all’allontanamento dallo Stato italiano e subiscono una restrizione della libertà personale che può raggiungere i 60 gg. non per effetto della commissione di reati, come stabilisce l’art. 13 Cost., che sancisce la inviolabilità della libertà personale e i casi in cui la persona può esserne privata, ma per la mera irregolare presenza sul territorio, qualunque sia la causa pregressa che ha determinato tale irregolarità.

Si tratta di una condizione di privazione difficilmente accettata dalle persone che la subiscono, sia che provengano dal carcere, e che quindi hanno già scontato la pena inflitta per i reati commessi, sia per le persone che sono al Cpt per non essere muniti di permesso di soggiorno o perché lo stesso è scaduto e non è stato più rinnovato (anche solo per la perdita di un lavoro). A ciò si accompagna quasi sempre il fallimento del progetto migratorio che aveva accompagnato l’abbandono del paese d’origine, con tutto ciò che comporta di drammatico nel dover ritornare indietro. In questi mesi la sensibilità e l’attenzione per le strutture di permanenza temporanea pare avere maggiore consistenza, con la necessità di un ripensamento della normativa in tema di immigrazione (e soprattutto della legge cd. Bossi-Fini).

Il superamento di strutture come i centri di permanenza temporanea è previsto nel programma dell’attuale compagine governativa, segnale del disagio crescente verso strutture più chiuse ed impenetrabili degli istituti penitenziari, sebbene collegate, come si è detto, non alla commissione di reati, che può essere causa eventuale della perdita del permesso di soggiorno, ma più spesso alla non regolarità sul territorio.

A questo disagio si può far fronte approntando senza ulteriori ritardi in ambito parlamentare la riforma sulla legge dell’immigrazione e con l’impegno degli enti locali a svolgere un ruolo fondamentale nella gestione dei centri, finché esistenti, assicurando condizioni di vita e di assistenza rispettose delle persone, promuovendo ogni opportunità di reinserimento e di regolarizzazione ove possibile e comunque garantendo la tutela dei diritti primari delle persone.

Solo la presenza delle istituzioni locali agevola l’apertura all’esterno di questi luoghi, la comprensione dei fenomeni sociali che li hanno generati e possono impedire gli episodi drammatici occorsi al Cpt di Modena. In questo senso è utile la presenza di figure di garanzia, come inserito nello Statuto del Comune di Bologna, con il compito di tutela delle persone comunque private della libertà personale presenti sul territorio comunale.

 

Avvocato Desi Bruno, Garante dei diritti

delle persone private della libertà personale

del Comune di Bologna

 

Suicidio: 20 ottobre 2007, carcere di Foggia

 

Pasquale Giannuario, 30 anni, foggiano, ha approfittato dell’ora d’aria, lasso di tempo in cui il suo compagno di cella aveva lasciato la stanza, e si è impiccato con un lenzuolo. L’uomo, che non ha lasciato nessun messaggio, era stato arrestato la notte scorsa dai carabinieri della compagnia di Foggia, dopo aver picchiato violentemente la compagna e la figlia di quest’ultima e sequestrato il figlio maschio della stessa donna.

Ecco la cronaca dell’arresto: un’auto che sfreccia nel cuore della notte tra le vie cittadine, al volante un uomo con le mani insanguinate e con lui un ragazzino di appena tredici anni dall’espressione del volto terrorizzata. La scorsa notte la scena, appena descritta, non è sfuggita ai carabinieri fermi nelle vicinanze della stazione ferroviaria per un consueto posto di blocco. Erano le 2.30 del mattino a Foggia quando è iniziato l’inseguimento tra i militari e l’Audi 80 guidata dall’uomo. Dopo pochi metri però i carabinieri riescono a bloccare il mezzo. L’uomo si rifiuta di parlare, accanto a lui il ragazzino urla in lacrime “ha picchiato mia madre e mia sorella, e poi mi ha sequestrato”.

Alle parole del 13enne i militari costringono Pasquale Giannuario a farsi condurre presso l’abitazione della sua convivente. Lì un’altra scena raccapricciante, il 30enne aveva rinchiuso le donne in una stanza. Le due presentavano ancora evidenti tumefazioni su tutto il corpo, soprattutto la mamma aveva ancora i segni dei morsi lungo le braccia.

A quel punto i carabinieri altro non hanno potuto fare che accompagnare le vittime in ospedale, dove sono state prontamente medicate e giudicate guaribili in una settimana. Ma la follia dell’uomo non finisce così. Le donne vengono portate in caserma per il riconoscimento del 30enne, alla vista delle due Giannuario, tenta ancora una volta di scagliarsi contro di loro, provocando nella concitazione del momento, anche il ferimento di un maresciallo. (Teleradioerre, 21 ottobre 2007)

 

Suicidio: 20 ottobre 2007, carcere di Cagliari

 

Licurgo Floris, 55 anni, si impicca nella “sala di transito” del carcere, dove attendeva il trasferimento verso Sollicciano. Solo, nella sala transito del carcere di Buoncammino, ha guardato la sbarra più alta del gabbione e gli è venuta l’idea. Le cinghie che tengono insieme le bisacce bianche per la biancheria e le cose personali: ne ha agganciato una al ferro, si è tirato su con tutta la forza che aveva e poi giù, di colpo. Strappo mortale, gli ha ceduto l’osso del collo. Dovevano trasferirlo al penitenziario di Firenze, il blindato era fuori ad attendere lui e la scorta. Ma quando un agente l’ha trovato, alle 4 di notte, Licurgo Floris respirava appena, appeso a un metro e mezzo dal pavimento. Pochi attimi dopo, malgrado i tentativi disperati del medico Paolo Scarparo, il suo cuore si è fermato. Aveva 55 anni.

È la cronaca di una morte non annunciata, i cui echi ieri mattina hanno raggiunto in un baleno gli uffici giudiziari e la sezione di sorveglianza, che seguiva da tempo il suo lento ritorno a un’esistenza attiva: “Gli anni trascorsi nel carcere di Lanusei gli avevano restituito la fiducia in se stesso, la voglia di vivere” ricorda amareggiata Herika Dessì, il suo avvocato.

Ma quel filo sottile di fiducia s’è spezzato d’improvviso l’altra notte, quando una guardia l’ha svegliato per comunicargli la brutta notizia: “Sei in partenza”. Licurgo Floris ha guardato fuori: notte. Poi l’orologio: “Se mi portate via a quest’ora, dev’essere in continente...” ha detto a bassa voce, come riferisce il direttore del carcere Gianfranco Pala.

Ma il regolamento è regolamento: vietato informare i detenuti in transito sulla destinazione prevista. Così Licurgo si è vestito, ha chiesto due zaini per infilarci le cose personali e ha seguito gli agenti fino alla sala d’attesa, vicino all’ufficio matricola: “Era tutto pronto, il biglietto aereo, i soldi per il viaggio...” spiega Pala.

Prima la visita medica, neppure una parola di protesta. Poi la perquisizione di rito. L’hanno lasciato qualche minuto solo, ma Licurgo appariva tranquillo. Amareggiato ma calmo: “Cinque minuti, forse dieci...”. Abbastanza perché nella sua mente si aprisse il file del suo passato recente, che non voleva rivivere: gli anni di Firenze, dove ha collezionato altre sanzioni per resistenza, oltraggio, proteste plateali in un ambiente che considerava ostile. Lontano dalla moglie, dalla famiglia, dalla Sardegna. Finalmente quattr’anni fa il ritorno nell’isola, a Lanusei “dove il comandante delle guardie carcerarie è un uomo eccezionale - ricorda l’avvocato Dessì - che l’ha aiutato e soprattutto l’ha trattato da uomo”.

Nel penitenziario ogliastrino Licurgo era cambiato, al punto che ad aprile scorso è arrivato il primo permesso premio dal giudice di sorveglianza di Cagliari. Poi la semilibertà, il lavoro in un’impresa di Carbonia: “Era come rinato” ricorda ancora il legale. Di giorno fuori, la sera all’istituto di Senorbì, quello per semiliberi. Un canale di passaggio dal buio alla vita.

Dietro l’angolo però si profilava un nuovo precipizio: niente più lavoro, rapporto interrotto per ragioni economiche. La sua posizione di semilibero, legata all’impegno contrattuale, non poteva che cadere: il 4 ottobre l’udienza davanti al tribunale di sorveglianza, presidente Francesco Sette. La legge è legge: revocata la misura alternativa, almeno finché Licurgo non avrebbe trovato qualcos’altro da fare lontano dal carcere. Il resto s’intreccia tra procedura e burocrazia: ritornato detenuto lungodegente a tutti gli effetti Licurgo non poteva più restare a Buoncammino, un penitenziario di passaggio.

La destinazione preferita sarebbe stata Lanusei, invece l’hanno svegliato prima dell’alba: Firenze. Luogo di brutti ricordi, carcere duro fra duri, dove Licurgo aveva dato il peggio di sé. Poteva tornarci? “Doveva tornarci, in base alle norme” taglia corto Francesco Massidda, provveditore regionale degli istituti di pena. Che poi chiarisce: “A Lanusei era stato trasferito per tre mesi, un beneficio utile per incontrare i familiari. Poi c’era stata una proroga di due mesi, in attesa di un’assegnazione definitiva ad altro istituto”.

Poi ancora rinvii e rinvii. In quel limbo concesso dal Dap - il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Floris era riuscito a ritagliarsi un progetto di semilibertà, interrotto a settembre: “Finito il lavoro per la legge finisce anche la semilibertà - avverte Massidda - almeno in attesa di un altro contratto. In casi come questi le norme stabiliscono che il detenuto rientri alla sede d’assegnazione originaria, che era Firenze - Sollicciano”. Un’applicazione comunque burocratica dei regolamenti, che forse meriterà un approfondimento: a sollecitarlo è ora la consigliera regionale Maria Grazia Caligaris, per la quale “il principio della territorializzazione della pena andava rispettato”.

Ma chi poteva prevedere un suicidio? “Ho visto il suo fascicolo - spiega ancora il provveditore - Floris era un detenuto strutturato, abituato a carcerazioni difficili. Tutto ci saremmo aspettati tranne una fine del genere”. Fine decisa in un attimo, la disperazione che si fa desiderio di autodistruggersi: “Forse un giorno sapremo che ci pensava da tempo - aggiunge Massidda - chi può dirlo?”. Già, chi può dirlo ormai?

Il resto è grigia routine giudiziaria. Dopo un esame esterno compiuto a Buoncammino dal medico legale Luca Lai, il corpo di Licurgo Floris è stato portato su disposizione del magistrato di turno Liliana Ledda all’obitorio del cimitero di San Michele. I familiari sono stati informati immediatamente, già all’alba erano a Buoncammino. Sarà aperta un’inchiesta, sebbene non emergano finora ipotesi di responsabilità.

 

Caligaris: determinante il trasferimento

 

“Sono convinta che apprendere alle quattro del mattino di dover lasciare la Sardegna per tornare in Toscana a scontare la pena abbia determinato una crisi di disperazione profonda e senza scampo. Il suicidio in carcere è un evento traumatico sempre, in queste circostanze diventa un’espressione di inciviltà da parte delle istituzioni”. Lo afferma la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi - Partito Socialista) Maria Grazia Caligaris, segretaria della Commissione “Diritti Civili”.

“Il Dap - ha sottolineato - non può operare disconoscendo il fatto che il detenuto è un soggetto debole. Né i rapporti con chi sconta una pena detentiva possono essere improntati alla fredda burocrazia. Licurgo Floris, in regime di semilibertà in Sardegna, a maggior ragione poteva restare nel carcere di Buoncammino.

Disporne il trasferimento a Firenze dove scontava la pena senza tenere conto del contesto è stato un atto burocratico come i tanti che si consumano senza un vero perché ai danni dei detenuti e dei loro familiari”. “Ritengo che il rispetto del principio della territorializzazione della pena sia indiscutibile e da applicare sempre come del resto recita l’accordo tra Regione, Ministero della Giustizia e Dap e come sancito - conclude Caligaris - da un ordine del giorno del Consiglio regionale”. (La Nuova Sardegna, 23 ottobre 2007)

 

Suicidio: 24 ottobre 2007, carcere di Rebibbia

 

Chinane L., 31 anni, marocchino, si uccide in una cella di Rebibbia. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: “servono urgentemente misure di supporto psicologico per quanti, soprattutto stranieri, entrano in carcere”.

Si è tolto la vita nel primo pomeriggio impiccandosi alle sbarre della sua cella di isolamento, nel braccio G12 del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. La vittima era un cittadino di origine marocchina di 31 anni, Chinane L. A quanto risulta al Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - che ha segnalato l’accaduto - l’uomo era stato condannato in primo grado a 3 anni e 10 mesi di carcere per un reato di natura sessuale, aveva presentato appello ed era in attesa di essere trasferito nel carcere di San Remo.

Sempre a quanto risulta al Garante, l’uomo era stato posto in isolamento perché aveva litigato nei giorni scorsi con gli altri detenuti nel braccio G9 e, un paio di giorni fa, aveva già tentato di togliersi la vita. Per questo motivo stamattina aveva avuto un colloquio con uno psichiatra. “Questa morte è la conferma di come, a volte, il carcere possa anche uccidere - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - Credo che l’episodio di oggi conferma ancor di più la necessità di avere misure di supporto psicologico e di accompagnamento per quanti, soprattutto stranieri, entrano in carcere. Un mondo duro, difficile, che può schiacciare chi non è preparato ad affrontarlo”. (Garante dei detenuti del Lazio, 25 ottobre 2007)

 

Nota di Gianfranco Spadaccia sul suicidio a Rebibbia

 

“Il suicidio di un detenuto marocchino, accaduto la settimana scorsa a Rebibbia Nuovo Complesso, conferma purtroppo la recrudescenza negli ultimi mesi del fenomeno dei suicidi in carcere, che ho avuto modo di denunciare come uno dei punti di maggiore criticità della situazione degli istituti di pena nella mia relazione al Sindaco e al Consiglio comunale. La percentuale dei suicidi in carcere è quasi dieci volte superiore a quella che si registra nel resto della società. Ci si uccide in carcere per depressione, una malattia micidiale in libertà, insopportabile in condizioni di detenzione, ci si uccide per disperazione, ci si uccide per la vergogna dell’arresto e della condanna (non si vergognano solo gli innocenti).

Il suicidio di ieri è avvenuto in un carcere dove è stato istituito dal giugno scorso un comitato di lavoro che coinvolge le associazioni dei detenuti e le diverse articolazioni del volontariato proprio per tentare di individuare i casi di particolare fragilità psicologica che possono spingere ad atti di autolesionismo o al suicidio. Lo sforzo della direzione del carcere è certamente meritorio perché non è pensabile evitare questi incidenti con la sola sorveglianza. Ma anche questo sforzo è destinato a rimanere frustrato se non si provvede a aumentare gli organici di coloro che si dovrebbero occuparsi del trattamento dei detenuti: gli educatori, ovunque sono un numero irrisorio, al Nuovo Complesso sono all’incirca uno ogni cento detenuti. Ugualmente carente è la presenza di psicologi, di assistenti sociali e di mediatori culturali. Nessun pacchetto sicurezza si occupa purtroppo di queste carenze strutturali da cui dipendono non solo la salute psichica e fisica e la stessa vita di molti detenuti, ma dipendono anche le possibilità di recupero e di reinserimento nella legalità dei tanti reclusi”. (Gianfranco Spadaccia, Garante dei detenuti del Comune di Roma)

 

Suicidio: 28 ottobre 2007, carcere di Prato

 

Giorgio, detenuto italiano di 48 anni, si impicca in cella con i lacci delle scarpe. Aveva passato questi ultimi sei mesi, i più terribili e oscuri della sua vita, come detenuto modello. Non una sbavatura, una parola, un gesto fuori dalle regole imposte di quel mondo parallelo. Eppure ieri tra le 18 e le 18.20 ha terminato la sua vita appeso a una corda di fortuna fatta con i lacci delle scarpe. Una brutta storia, finita nel più doloroso dei modi, quella di Giorgio, 48 anni, massese, accusato di un crimine infamante: atti di libidine su una figliastra, rinchiuso alla Dogaia da maggio.

La verità resterà chiusa in quella cella del reparto super blindato destinato ai “sex offender”: stupratori, pedofili, la feccia. Forse Giorgio (lui che si era sempre protestato innocente) non credeva di esserlo. Forse ha sopportato fin che ha potuto, poi senza una parola, un rimpianto o le scuse, si è lasciato andare. Ha scelto altro.

Una vita al limite quella dell’uomo accusato, nel 1998 dalla figlia di una delle sue tante donne, di essere un molestatore. Ha una prima moglie, poi una seconda, infine una terza, fa cinque figli, il più piccolo ancora minorenne. Si barcamena Giorgio, tra una crisi familiare e l’altra, fino a quando incappa nelle rete stretta della giustizia. Viene accusato di aver molestato sua figlia ma viene prosciolto. Cosa che non accade, invece, per la denuncia della ragazza, all’epoca sedicenne, figlia della sua seconda moglie. L’inchiesta procede: atti di libidine violenta. Passa interrogatori, udienze preliminari, processi. Ma resta a piede libero. Fino a sei mesi fa quando la Cassazione dice l’ultima parola: condanna definitiva, sei anni di reclusione. Si aprono le porte del carcere. È la svolta, il buco nero.

Giorgio alla Dogaia conduce, in apparenza, un’esistenza serena, per quel che può. Viene messo nella sezione 7, quella più protetta, più isolata, più chiusa. Una misura di prevenzione, perche i crimini sessuali sono puniti e duramente anche dalla giustizia sommaria del carcere. Entra in una cella che ha già un occupante ma i giorni scorrono. Senza traumi. Almeno così si mormora. Pasti, ora d’aria, attività nel pomeriggio, visite dei parenti, mogli e figli, che - garantiscono - continuano fitte, fitte e fino all’ultimo.

Ma non ieri, iniziata come una giornata qualsiasi. Con un’unica nota stonata, però. Giorgio rientra in cella un po’ prima del suo compagno. Sono le 18. Le attività pomeridiane stanno finendo. Alle 18,20 c’è il cambio degli agenti che controllano le sezioni, poi c’è il turno della cena e bisogna che i detenuti siano già nelle celle. Il compagno di Giorgio rientra, si dirige verso la porta del minuscolo bagno e fa per aprirla. È bloccata. La forza, ma qualcosa impedisce, fa resistenza. Chiama le guardie. In due riescono a scostarla di qualche centimetro. E diventa tutto chiaro. È il corpo di Giorgio che preme. È attaccato lassù con i lacci delle sue scarpe. Non c’è più nulla da fare. Se non le indagini per capire la verità.

 

Papà si è tolto la vita perché era innocente

 

La telefonata dal carcere di Prato è arrivata verso le 22.30 di sabato: “Pronto, volevamo avvertirvi che il signor... si è tolto la vita”. A ricevere la notizia Mirco, uno dei figli dell’uomo che si è impiccato dopo essere finito dietro le sbarre con l’accusa di aver avuto delle attenzioni particolari verso la figlia della sua nuova compagna, all’epoca appena tredicenne. Era il 1998 e dopo nove anni di tribolazioni giudiziarie per il cinquantenne massese si sono aperte le porte del carcere. Una pena di sei anni che non riusciva a comprendere e ad accettare perché si riteneva innocente.

“Mio papà lo aveva detto: io qui non resisto, aspetto un po’ di tempo e se non mi danno l’indulto mi tolgo la vita. Io quella ragazzina la trattavo come una figlia (in realtà la tredicenne aveva un altro papà), ma quando mi ha accusato di aver fatto quelle cose mi ha fatto crollare il mondo sotto i piedi”. Mirco, 26 anni, ha gli occhi ancora gonfi dalle lacrime che ha versato da quando ha saputo che suo padre ha deciso di togliersi la vita: “Le guardie mi hanno detto che si è ucciso nel bagno. Una scena raccapricciante: con la cintura dell’accappatoio ha bloccato la porta e poi con i lacci delle scarpe ha fatto un cappio che ha appeso a uno stipite. Mi vengono i brividi se penso che due settimane fa sono stato l’ultimo a parlargli e lo avevo visto particolarmente affranto, sfiduciato”.

Il giovane vuole sfogarsi per ridare dignità a un genitore che ha sentito particolarmente vicino, anche dopo la disgrazia che lo aveva colpito: “Per me e i miei fratelli è stato un padre modello, mi dispiace che sia finito in carcere per la denuncia di una ragazzina che evidentemente aveva dei problemi. Per me, nonostante la condanna, resta un uomo innocente finito in cella senza un motivo. Gli altri sono liberi di credere quello che vogliono, la sua famiglia la pensa così. E del resto se la sua seconda moglie (la mamma della ragazza che ha denunciato la violenza) ha deciso di restare con lui evidentemente anche lei era convinta della sua innocenza”.

La ragazza, adesso maggiorenne, vive al nord e si è fatta una vita propria. Ma secondo Mirco non ha voluto tagliare i ponti con quel padre che aveva mandato in carcere: “Sono confuso, è meglio che non dica niente per il bene di tutti. Quello che mi dispiace è che mio padre si sia impiccato in una cella lontano dai suoi cari e dopo nove lunghi anni di processi si sia visto ammanettare per una storia che lui credeva passata”.

L’inchiesta sul suicidio è già terminata. L’uomo aveva passato gli ultimi sei mesi, i più terribili e oscuri della sua vita, come detenuto modello. Non una sbavatura, una parola, un gesto fuori dalle regole imposte di quel mondo parallelo. Se era colpevole o meno non si potrà mai sapere, per la giustizia in ogni caso la risposta è sì. La verità resterà chiusa in quella cella del reparto super blindato destinato ai”sex offender”: stupratori, pedofili. Lui non credeva di essere così. E il figlio lo conferma: “Non ce la faceva a stare così - dice Mirco.

Anche qualche secondino mi ha detto che non era come gli altri che si era sempre comportato come uno che in quel carcere c’era finito per caso”. La sua vita però era cambiata nove anni fa, quando nel 1998 la figlia della sua seconda moglie lo aveva accusato di essere un molestatore. L’inchiesta procede: atti di libidine violenta. Passa interrogatori, udienze preliminari, processi. Ma resta a piede libero. Fino a sei mesi fa, quando la Cassazione dice l’ultima parola: condanna definitiva, sei anni di reclusione.

La minima per i casi di violenza su minori, ma pur sempre una condanna a sei anni e con un marchio infamante. Per giunta confermato da tre gradi di giudizio. Colpevole e basta, colpevole senza possibilità di ritorno. E si aprono le porte del carcere. È maggio: è la svolta, il buco nero. L’uomo nel carcere della Dogaia conduce, in apparenza, un’esistenza serena, per quel che può. Viene messo nella sezione 7, quella più protetta, più isolata, più chiusa.

Una misura di prevenzione, perché i crimini sessuali sono puniti e duramente anche dalla giustizia sommaria del carcere. Entra in una cella che ha già un occupante ma i giorni scorrono. Senza traumi. Almeno così si mormora. Pasti, ora d’aria, attività nel pomeriggio, visite dei parenti, mogli e figli, che - garantiscono - continuano fitte, fitte e fino all’ultimo. Colloqui dove lui ammetteva di essere al limite della sopportazione: “Sei anni qui non li faccio”. Sabato sembrava una giornata come le altre, con gli stessi ritmi: alle 18 rientra in cella un po’ prima del suo compagno. E si toglie la vita. Oggi pomeriggio alle 15 nella chiesa di Turano si terranno i funerali. (Il Tirreno, 29 ottobre 2007)

 

Malattia: 30 ottobre 2007, carcere di Parma

Vincenzo Oliviero, 46 anni, muore per un arresto cardiaco nel carcere di Via Burla, dove era detenuto in regime 41-bis. Esponente del clan camorristico Birra, di Ercolano, Oliviero veniva soprannominato “papa buono” o “papà buono”; era stato arrestato in giugno durante un blitz - 53 arresti in tutto - in Campania. (Ansa, 31 ottobre 2007)