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22 GIUGNO 2003

 

DA - L'UNITA'.

Caro presidente provo vergogna
di Alberto Asor Rosa

L'Avana: sul Malecon, poco dopo lo show room della Fiat, c'è una chiesa dove ogni mattina si incontrano i familiari di chi è in prigione. I padri che fanno la spola tra la chiesa e le carceri sono due. Gli altri danno una mano. Ogni carcerato cubano riceve un modulo da riempire: se desidera un incontro «religioso» ( sono sette le confessioni ammesse a Cuba, compreso lo spiritismo) può riempire il modulo, consegnarlo al direttore delle carceri e aspettare. Ma la richiesta di una visita da parte di chi deve consolidare lo spirito arriva con sempre meno frequenza ai sacerdoti autorizzati a visitare le prigioni.
I moduli si perdono per strada. Ogni mattina la moglie e la madre di Oscar Manuel Espinosa Chepe arrivano nel grande corridoio della speranza. Ma è una speranza rimandata.
In modo tale da rendere impossibile alla nostra magistratura di perseguire il medesimo presidente del Consiglio e alcuni dei suoi presunti complici per reati comuni (alcuni dei quali gravissimi, come la corruzione dei giudici), commessi nella fase precedente l’assunzione, in seguito al voto degli italiani, di tale prestigiosa carica.
Per ottenere tale effetto non solo, come ho già detto, il Parlamento repubblicano è stato continuamente piegato a esercitare una funzione di omertosa salvaguardia nei confronti delle azioni giudiziarie intraprese, ma è stato necessario scatenare contro la magistratura una violenta azione di demolizione e di scardinamento, opponendo al tempo stesso una strenua resistenza allo svolgimento regolare dei processi.
Affinché le iniziative intraprese potessero avere miglior successo, il collegio di difesa del premier è stato trasferito di peso sugli scanni parlamentari, ed è così potuto accadere che il capo di tale collegio difensivo, trasferendosi da Milano a Roma e dalle aule del tribunale a quelle della Camera dei deputati, potesse, qui da presidente della Commissione Giustizia, continuare a ordire il medesimo disegno impostato dall’avvocato difensore, al fine di tenere il premier al riparo dalle maglie di una giustizia, di cui vanamente si continua a leggere, come un ritornello sempre più vuoto e sempre più stanco, che essa sarebbe «uguale per tutti».
Taccio del contesto di estrema anomalia, - ormai al di là dei confini della rottura delle regole stesse che presiedono al buon funzionamento di un sistema democratico, - dentro cui questa forsennata e inedita vicenda si è svolta: il perdurante conflitto d’interessi, infatti, mette nelle mani del premier un potere immenso, rischioso e di assoluta perversione istituzionale, sull’intero sistema dell’informazione, consentendogli di fronte all’opinione pubblica una libertà di movimento che altrimenti non avrebbe.
L’approvazione da parte del Parlamento del Lodo, che ormai solo impropriamente si potrebbe definire dal nome del suo primo presentatore, l’on. Maccanico, rappresenta il culmine di tale ostinata ricerca dell’immunità e al tempo stesso il prevedibile punto di partenza per altre iniziative volte a scardinare l’ordinamento giudiziario italiano. Cinque cittadini, infatti, - cinque comuni cittadini, mi permetta questa sottolineatura, da ogni altro punto di vista, - per il fatto che occupano le più alte cariche dello Stato (motivo che, a pensarci bene, dovrebbe indurre a pensarle e sperarle più impeccabili e trasparenti di qualsiasi altra), vengono in questo modo sottratte alla giurisdizione del Codice Penale per qualsiasi reato questo contempli, sia, cosa ancor più straordinaria, per quanto eventualmente avessero a commettere in futuro.
La cosa è tanto più scandalosa in quanto, come anche un bambino non stenterebbe a capire, quattro di quelle persone si offrono in ostaggio unicamente perché alla quinta sia consentito di uscire indenne dalla moltitudine delle inchieste e dei processi che le piovono addosso.
Lei, Signor Presidente, non potrà consentire, ovviamente, con l’idea, che il premier tenta di accreditare, secondo cui egli sarebbe oggetto di una «persecuzione giudiziaria». Se questa tesi fosse minimamente fondata, infatti, l’ordine giudiziario avrebbe dovuto da Lei medesimo, che ne ha facoltà, esser chiamato a risponderne attraverso l’inchiesta più severa. Siccome sappiamo, anzi, tutti sanno che non è così, non resta che concludere che il Lodo ex Maccanico non serve che a sottrarre il premier allo svolgimento dei processi, ai quali, come qualsiasi altro cittadino, in quanto accusato di reati comuni, dovrebbe sottostare. È precisamente ciò che io trovo vergognoso, e per cui provo vergogna come italiano di fronte ai miei amici europei e di tutti i paesi del mondo. Che se poi, come si sente dire, si trattasse di garantire mediante tali procedure il normale e dignitoso svolgimento del semestre di presidenza italiana in Europa, io penso che, per il buon nome della nostra Italia, così frequentemente, e spesso anche così ingiustamente mal giudicata fuori dei nostri confini nazionali, converrebbe coraggiosamente ammettere che l’Italia non è in grado in questo momento di assolvere in maniera dignitosa a compiti di rappresentanza internazionale. Se ci sono vergogne nazionali, - e in questo momento non v’è dubbio che ve ne siano, - meglio sarebbe confessarle che sforzarsi ad ogni costo di esportarle.
L’espressione dei sentimenti, che Le trasmetto, Signor Presidente, è sincera quanto il rispetto e l’affetto, che, come Lei sa, le porto. Spero sinceramente di essere il solo in Italia a nutrire questo senso di frustrazione e di dolore, ma, se così non fosse, - e temo purtroppo che non lo sia, - la prego di leggere con animo aperto queste righe.
Suo affezionatissimo e devotissimo

 

Alberto Asor Rosa

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DA - IL MANIFESTO

 

Un mega ponte per Lunardi


Il sì politico della commissione di valutazione ambientale alla grande opera sullo Stretto
Gli esperti nominati dal governo danno il via libera al ponte di Messina ma prescrivono altri studi di carattere ambientale e geologico. Per le associazioni è «una decisione pilatesca»


M. BA.
ROMA


Il Ponte sullo stretto di Messina si può fare. Ma al momento nessuno è in grado di sapere esattamente come, né a quale prezzo economico o ambientale. E' questo il senso della valutazione di impatto ambientale consegnata ieri dalla commissione speciale Via al ministero dell'ambiente. Una decisione che se negli esiti appare scontata - date le intenzioni del governo - contiene però una serie di vincoli e prescrizioni che rischiano di snaturare il progetto elaborato finora, facendo lievitare i costi già faraonici. La Società Ponte sullo Stretto di Messina Spa infatti ha ricevuto alla fine di aprile il primo mezzo miliardo di euro necessario al suo funzionamento. Uno stanziamento che si ripeterà per altri cinque anni, arrivando alla cifra record di 2,7 miliardi di euro. Che rappresentano però solo il 40% dell'opera. E il resto? Lo cercheremo sul mercato, hanno detto gli entusiasti del ponte. Ma le otto paginette della Via di ieri (a fronte di quintali di tavole, progetti, rapporti) chiedono di più e sono state scritte dopo pesanti discussioni tra i tecnici del ministero. Gli esperti hanno detto che il ponte, dal punto di vista ambientale, si può realizzare. Però, come si evince incredibilmente dalla lettura del testo, bisogna ancora presentare studi geologici, sismici e tettonici, il monitoraggio dei siti di importanza comunitaria (zone umide e così via), un modello idrogeologico di tutte le gallerie a monte e a valle, lo studio dell'inquinamento acustico. Richieste non da poco. E' spontanea allora la domanda di Edoardo Zanchini, responsabile trasporti di Legambiente: «La società del Ponte come ha fatto a disegnare un progetto senza tener conto di questi aspetti basilari?». La risposta è semplice. Il ponte sospeso più lungo del pianetea (3.300 metri) è la prima opera realizzata con le nuove norme della Legge Obiettivo elaborata dal ministro delle infrastrutture Lunardi. La nuova Via semplificata ha trasferito le valutazioni ambientali alla fase del progetto preliminare. Ecco perché, come commenta Zanchini, la «commissione ha preso una decisione pilatesca. Ha dato il via libera sulla base di un progetto non definitivo e ha poi richiesto una serie di studi e interventi che non sono ancora stati previsti». Per esempio Zanchini ricorda il caso dei Pantani di Ganzirri, due laghi di interesse comunitario accanto ai quali dovranno sorgere i due piloni siciliani del ponte, due voragini cubiche da 50 metri di lato, due palazzi di 20 piani. Su questo punto la Via chiede una completa impermeabilizzazione dell'opera, per impedire lo svuotamento dei bacini naturali. Una cosa mai realizzata e i cui costi nessuno ha ancora ipotizzato. Inoltre, ed è forse l'aspetto più singolare, manca totalmente l'assicurazione che il collegamento del ponte con la rete ferroviaria calabrese si farà. A Cannitello infatti, vicino Reggio, la ferrovia scorre a livello del mare, 70 metri sotto quella siciliana. Come si collegherà al ponte, dato che in quel punto è prevista la costruzione dei piloni di sostegno calabresi? La soluzione ipotizzata è quella di costruire una nuova linea ad alta velocità in galleria che attraversi le montagne calabresi fino al mare. Tutto perfetto, peccato che su questo punto Reti Ferroviarie non abbia disposto finora nessuno stanziamento signficativo.

Ce n'è abbastanza, secondo Legambiente, per fare ricorso al Tar e alla Corte Europea. A questo punto, dice il portavoce dell'associazione Roberto Della Seta: «I costi del progetto non sono chiari e non oso immaginare cosa succederebbe se gli studi richiesti ieri dovessero dare in futuro esito negativo». «Inoltre - ricorda Della Seta - alcuni documenti di integrazione al progetto del ponte non sono stati messi a disposizione delle associazioni come richiede la legge, impedendoci di esprimere valutazioni complete».

Anche per il Wwf «il via libera espresso dal ministero dell'Ambiente al Ponte sullo stretto di Messina appare più politico che tecnico: con le stesse motivazioni il progetto poteva essere respinto», dice l'associazione, che aggiunge: «E' un progetto pieno di carenze che non ha tenuto in alcun conto i problemi di equilibrio ambientale e naturalistico che avrebbero potuto motivare un parere negativo».

Ora il ponte aspetta l'esame del Cipe, atteso entro l'estate. Un calendario blindato che non ammette rallentamenti.

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DA - IL MANIFESTO

 

Salonicco primo atto


Contro il vertice Ue le anime più radicali del movimento europeo Un'ora di scontri tra polizia e manifestanti, pioggia di lacrimogeni e cariche anche sulla spiaggia. Cinque feriti Disobbedienti con le protezioni come a Genova, anarchici in nero all'università, Social forum diviso. Oggi sfilano in 100 mila ma senza sindacati


ANGELO MASTRANDREA
INVIATO A SALONICCO


Dieci minuti per trecento metri di strada attorno all'ecomostro di Porto Carras, un vero e proprio obbrobrio urbanistico a pochi metri da una delle spiagge più belle e incontaminate della Grecia che ospita il vertice dell'Unione europea. Tanto è durato l'accerchiamento della zona rossa che ha portato fin dalla mattina di ieri circa 10 mila attivisti a montare su un autobus o in auto per spostarsi nella amena località di villeggiatura di Neos Marmaras, un pugno di case raccolte attorno a un golfo nella penisola Calcidica. Ma è bastato che qualche centinaio di disobbedienti locali, con protezioni in polistirolo e gommoni come a Genova durante il G8, si mettesse a fronteggiare la polizia mentre dal più ampio spezzone del blocco nero che seguiva poco dietro volava qualche sasso, a provocare un vero e proprio diluvio di lacrimogeni, che in pochi minuti hanno dissolto il corteo e provocato un'ora abbondante di battaglia prima attorno al ponte dove era avvenuto il fronteggiamento, a due chilometri circa dall'albergo del summit, poi nei campi che circondano il paesino, sulla spiaggia e lungo la strada che la costeggia, in uno scenario da cartolina. Al termine, fonti di polizia parlano di tre feriti tra i manifestanti, «caduti mentre correvano lungo la spiaggia», e altrettanti tra gli agenti, colpiti da sassi. Nulla di grave ma nemmeno di esauriente, se percorrendo a ritroso il percorso del mini-corteo abbiamo incontrato nell'ordine un fotografo professionista con la macchina fotografica distruttagli da un colpo di karate (che il malcapitato mima) di un poliziotto delle unità speciali antisommossa nascoste tra gli ulivi come nei campi (le stesse che a battaglia finita raccoglievano bandiere rosse e anarchiche a mo' di trofeo), e un manifestante con la schiena tumefatta da lacrimogeno soccorso da un ristoratore che aveva aperto le porte del locale a chi cercava riparo. Altri flash della giornata: un anziano abitante del luogo che con calma olimpica cerca di spegnere il fuoco appiccato a una barricata; un gruppo di «neri» che spegne un incendio provocato da un lacrimogeno finito nelle sterpaglie e che stava pericolosamente estendendosi; un gruppo di militanti «no border» che va a portare simbolicamente del cibo agli immigrati reclusi in un centro di detenzione a pochi chilometri dal luogo in cui si discute anche di come impedire ai migranti di arrivare in Europa; un Buddha bar di fronte al mare, simbolo della globalizzazione, stretto tra un cordone di poliziotti e i container che delimitano la zona rossa. Non è stata una manifestazione di massa, quella di ieri a Neos Marmaras, ma piuttosto di quelle componenti del movimento che volevano far sentire la loro pressione sui partecipanti a un vertice organizzato in modo da renderne il più sconsigliabile possibile la contestazione: disobbedienti (ma solo una parte del social forum ha accettato di andare in piazza ad aprire il corteo con gommoni e protezioni); blocco nero, «Stalin bloc», Iniziativa Genova 2001 e poco altro. Sono invece attese almeno centomila presenze al corteo che sfilerà oggi in una Salonicco affatto «chiusa» e che vedrà insieme tutte le componenti che hanno dato vita alla tre giorni di mobilitazioni contro il summit Ue: le cento e passa organizzazioni del Forum sociale greco; i militanti di Iniziativa Genova 2001; sindacati di base (per la prima volta da oltre due anni a questa parte, a un controvertice europeo spicca l'assenza dei confederali della Confederazione europea dei sindacati); i comunisti ortodossi e antieuropeisti del Kke, raccolti nel cartello Azione Salonicco 2003; i numerosi anarchici che hanno occupato la facoltà di Filosofia in polemica con il social forum che aveva contrattato con le istituzioni la concessione della stessa e che hanno esposto provocatoriamente lo striscione «black bloc squat» rivendicando per la prima volta l'appartenenza a una pratica, con il risultato che alcuni dei forum del controvertice previsti all'interno sono stati spostati altrove. Domani, invece, ultimo giorno di forum e assemblea dei movimenti in cui si tireranno le somme di questa tre giorni che un po' tutti hanno voluto somigliasse a Genova 2001, tanto che come allora a catalizzare maggiormente l'attenzione sono stati i momenti di conflitto (cortei e azioni dirette) piuttosto che quelli di discussione. Poi si torna in Italia, e i no global partenopei presenti a Salonicco già pensano al primo appuntamento del semestre italiano, il 5 luglio a Napoli quando si incontreranno i ministri dei trasporti dell'Ue.

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DA - IL MANIFESTO

 

I gay sulla road map


«Pride» a Gerusalemme, per un «amore senza confini contro i muri di Sharon»


MICHELE GIORGIO
GERUSALEMME


Gay pride a Gerusalemme. E' un raduno omosessuale diverso da quelli delle altre città del mondo. Un po' perché nella bigotta Gerusalemme, città santa per tre monoteismi, gay e lesbiche fanno più scandalo. Non è un caso che si sia stato solo il secondo gay pride per Gerusalemme, occupata per metà (la zona araba, da 36 anni) e amministrata (la zona ovest) da alcune settimane dal suo primo sindaco ebreo ortodosso che, suo malgrado, è stato costretto ad autorizzare la sfilata omossesuale finendo nel mirino della potente comunità haredim (i «timorati»). Molto di più perché Gerusalemme è al centro del conflitto israelo-palestinese e la città respira l'aria dell'Intifada palestinese contro l'occupazione. «Amore senza confini», lo slogan del gay pride e sembra fare riferimento al quel muro che Israele sta costruendo per rinchiudere la Cisgiordania e i palestinesi in una enorme prigione di cemento armato. Così un anno dopo, con molte centinaia di morti in più - tra cui Alan Bier, attivista di «Open House», l'associazione che tutela gli omossessuali promotrice del gay pride, morto dell'attentato dell'11 giugno a Gerusalemme -, tante distruzioni in più nei Territori occupati e un piano di pace Usa, la «road map», al quale si affidano ingenui e disperati, inevitabilmente l'occupazione e l'Intifada occupano il posto centrale del raduno omosessuale che anticipa quello che si terrà tra qualche giorno a Tel Aviv. Gili, 27 anni lesbica e militante del gruppo «Kvisa Shchora» (Biancheria sporca), tiene in alto uno striscione: «Non c'è orgoglio nell'occupazione, fermatela». Con lei avevamo parlato già un anno fa, al primo gay pride di Gerusalemme. Cos'è cambiato nell'ultimo anno? «Direi che sia dal punto sociale e politico le cose sono peggiorate nella società israeliana e verso i palestinesi - ci ha detto - c'è stato un aumento della disoccupazione, tanti sono diventati poveri a causa della politica economica di questo governo di destra. La società è diventata più violenta verso qualsiasi minoranza e i palestinesi, certo è meno tollerante verso gli omosessuali». Gili vede a Gerusalemme «confini senza amore». «In questa città tutto è diviso: israeliani e palestinesi, uomini e donne, ricchi e poveri, disabili e non. I problemi si stanno aggravando, primo fra tutti il razzismo ma anche il militarismo sfrenato. Questa società è stata rovinata dallo sciovinismo, dall'aggressività. Qualche anno fa ho fatto il mio periodo di servizio militare, oggi invito tutti i giovani non solo a rifiutarsi di andare nei Territori occupati palestinesi ma a boicottare totalmente il servizio di leva. E' un nostro dovere combattere il militarismo che offusca la mente». Ai margini del raduno un uomo sbraitava contro gli omosessuali: «Siete la vergogna di tutti noi, siete il cancro della società, sparite, andate via». Un religioso ultraortodosso, in lontananza ricordava a un gruppetto di persone che la Bibbia prevede la lapidazione per gli omosessuali. Presa di mira è stata in particolare Samira, araba israeliana (palestinese con cittadinanza israeliana) di Haifa, lesbica e militante di «Kvisa Shchora». «Che ci fai qui, vai da Arafat, sharmuta (puttana) torna dai tuoi palestinesi, lascia subito la nostra terra», gli gridava un religioso. «Sono doppiamente discriminata, come lesbica e palestinese, sono abituata a questo tipo di insulti», ha commentato accennando un sorriso. Poco dopo è giunta la delegazione italiana composta da Arcigay, conil responsabile esteri Renato Sabbadini, Antagonismo Gay e dal Movimento Omosessuale Sardo: le associazioni promotrici dell'iniziativa di pace gaylesbica «Queerforpeace». Lo slogan della loro partecipazione ha un contenuto politico che non lascia dubbi: «Fai dell'amore la tua unica occupazione». Sabbadini assieme a Massimo Mele e ad un'altra ventina di componenti della delegazione hanno avuto incontri in Israele ma hanno anche visitato i Territori occupati allo scopo non solo di rendersi conto della difficile realtà degli omosessuali palestinesi, ancora costretti a nascondersi, ma anche dell'assedio militare israeliano che subisce l'intera popolazione palestinese. Ieri hanno incontrato l'esponente palestinese Hanan Ashrawi che, oltre ad esprimere il suo profondo scetticismo verso la «road map», ha ipotizzato il riconoscimento dei diritti degli omosessuali palestinesi tra gli articoli sui diritti civili della futura carta costituzionale dello Stato di Palestina. «Siamo per una società migliore dal punto di vista sessuale ma non solo. Siamo venuti qui per dire no a questa occupazione militare e per sostenere la nascita di uno Stato palestinese libero», ha spiegato Stefano Barozzi, di Rovereto. «Certo volevamo incontrare i gay locali, ma più di tutto volevamo conoscere la condizione del popolo palestinese. Ho visto in Cisgiordania le città circondate che non possono respirare. L'obiettivo, oggi irrealistico, è la formazione di uno Stato unico, che non si chiami più Israele, in cui (israeliani e palestinesi) possano vivere insieme. Più realisticamente si deve puntare al ritorno di Israele ai confini del 1967 e fare di Cisgiordania e Gaza i territori dello Stato palestinese con capitale Gerusalemme est».

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DA - IL SOLE 24 ORE

 

Immigrazione: Berlusconi, situazione Italia migliore in Ue


Radiocor - Salonicco, 20 giu - La situazione dell'immigrazione in Italia "e' probabilmente la situazione migliore in Europa". Dal Consiglio europeo di Salonicco, dove e' giunta l'eco delle critiche della Lega ai provvedimenti del Governo, presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, smorza i toni e attribuisce responsabilita' ai mezzi di informazione di massa: "Purtroppo certe situazioni vengono amplificate dai mezzi di comunicazione e dalle tv prima di tutto", ha detto il premier citando l'esempio degli sbarchi a Lampedusa. In ogni caso, secondo Berlusconi, "per numero complessivo di immigrati e in percentuale sulla popolazione italiana noi siamo probabilmente il Paese che soffre di meno di questo problema. Quindi, credo che il problema sia ovviamente un problema, ma che siano state messe in atto, con l'approvazione della legge Bossi-Fini e con il nuovo decreto sulle regole di ingaggio della nostra Marina, le misure atte a contenere il fenomeno e a risolverlo".Amm

 

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DA - LA STAMPA

 

Al HackMeeting 2003


si parla di wireless e copyright
Fino a stasera a El Barrio, periferia Nord di Torino

22 giugno 2003

di Monica Perosino

TORINO. Periferia Nord di Torino: dalle finestre di El Barrio, ex scuola ora trasformata in centro di aggregazione giovanile dal Comune, escono metri di cavi di rete tirati fino al giardino, ovunque gli hacker sono all’opera, al riparo degli alberi in cortile, nelle stanze dei seminari, nella grande aula magna: è il terzo giorno dell’Hackmeeting. Oltre duemila gli hacker venuti da tutta Italia - i gruppi più numerosi da Sicilia, Veneto, Bologna, Milano e Firenze -, ma anche da Francia, Spagna, Croazia e Germania. Molti - quasi quattrocento - sono arrivati con pc e tenda, altri sono di passaggio, numertosi sono i curiosi e i semplici interessati che, nonostante il caldo, hanno deciso di seguire i seminari e gli incontri dell’edizione di quest’anno.

Il tema più discusso è stato l'EUCD (European Union Copyright Directive) e sul suo recepimento in Italia: le modifiche alla legge sul diritto d'autore, i nuovi poteri per editori e produttori di software proprietario, i danni ai diritti di utenti, ricercatori, sviluppatori di software libero.

Se nell’edizione di Bologna dello scorso anno si è parlato dell’esplosione dei computer portatili, il boom del 2003 riguarda la tecnologia wireless e le sue applicazioni.

Il pomeriggio al Barrio trascorre tranquillo, gli "acari" vivono "in autismo", come scherzosamente spiegano descrivendo l’attività che non si ferma se non per qualche pausa in giardino – magari per preparare la grigliata in programma questa sera -, o per un attimo di risposo, la testa appoggiata accanto alla testiera.

Tra i vari ospiti è arrivato in città anche il tedesco Tim Pritlove del Caos Computer Club, uno dei primi gruppi hacker europei, che dal 7 al 10 agosto organizza un camping a Berlino.