I LIBRI SCRITTI DA PAOLO MIELI

  La goccia cinese. Diario di un anno tra storia e presente  
Mieli Paolo ;
Rizzoli
€ 17,50  

Dall'11 settembre 2001, Paolo Mieli ha preso il posto che fu di Indro Montanelli e cura la pagina delle lettere sul "Corriere della Sera". È stato così chiamato a commentare giorno per giorno, sulla base delle sollecitazioni dei lettori e sotto l'incalzare di eventi straordinariamente drammatici, i fatti della cronaca mondiale e italiana. Oggi quelle risposte, riviste e riordinate, diventano il diario di un anno decisivo, che ha fissato i parametri sui quali saranno a lungo misurati gli eventi futuri.

Goccia a goccia - il titolo si riferisce ironicamente alla tortura cinese della goccia che scava il cranio del condannato - Mieli distilla riflessioni che si incanalano in tre direzioni: la guerra e la pace, dall'attacco terroristico all'America alla missione in Afghanistan al conflitto fra israeliani e palestinesi; le lacerazioni della politica italiana, dove destra e sinistra rifiutano una reciproca legittimazione; il rapporto fertile e profondo fra il passato e il presente, grazie al quale il passato fornisce utili chiavi di lettura per interpretare l'oggi. E in virtù dell'acutezza della visione e del giudizio di Mieli, la cronaca si trasforma, pagina dopo pagina, in storia in diretta.


  Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo  
Mieli Paolo ;
Rizzoli
€ 17,04 

Paolo Mieli, Storia e politica

  In un panorama culturale come quello italiano, dove sembra impossibile scindere politica e polemica, dove i best sellers sono figli di uno scandalismo talvolta facile e poco ponderato, dove spesso il pubblico premia solo chi fa la voce più grossa oppure, meglio, la spara più grossa per catturare l’applauso qualunquista del popolo del Maurizio Costanzo Show, in uno scenario di questo tipo un grande nome del giornalismo come Paolo Mieli firma un volume di rara onestà e straordinario valore civile e morale. Si perché la raccolta di saggi brevi unita sotto il titolo forte e di crociana assonanza “Storia e politica” è davvero un libro di cui c’era bisogno e che dovrebbe essere letto da tutti coloro che credono nella Storia e credono nell’intelligenza umana. E che sono consapevoli del fatto che tanto spesso, troppo spesso sarebbe più giusto dire, l’appartenenza politica ha reso ciechi e sordi anche uomini di comprovato valore di fronte alle prevaricazioni, agli orrori o ai suprusi di cui si è resa responsabile la propria fazione. Tanto infatti è frequente la denuncia scandalizzata dell’altrui beceritudine, quanto parimenti assente la capacità di autocritica o anche semplicemente la professione di obiettività su determinati argomenti, veri tabù politico culturali. E allora ecco che il saggio di Mieli, con straordinaria pacatezza e levità, viene a portare una voce dissonante, viene a richiamare alla memoria vicende di cui la storiografia ufficiale ha per molti anni misteriosamente taciuto, viene a rammentare la dignità del mestiere di storico e la necessità imprescindibile di raccontare tutti i fatti e di considerare tutte le idee, indipendentemente dal credo politico che lo storico professa nella sua vita privata.
   La forza delle pagine di Mieli è tutta racchiusa nell’idea straordinaria che le sorregge: andare a scavare nei vari dimenticatoi di tutte le fazioni e credere fermamente nel fatto che non è sufficiente un’omissione nelle storie ufficiali per non farci ritenere significativi eventi, persone, idee differenti, se non esplicitamente ostili, a quanto i “vincitori” hanno voluto tramandare alla posterità. La lungimiranza dell’operazione di Mieli risiede nel suo rispetto e nella sua attenzione per le grandi e piccole eresie che hanno costellato la storia politica, sociale e culturale del nostro paese e che hanno contribuito nella stessa misura di altre grandi ideologie dominanti a dare una fisionomia e un volto all’Italia. Figure che, come ad esempio Gioberti, hanno pagato i veti incrociati delle differenti culture di massa e sono stati vittime, così come i deportati nei gulag staliniani, di tentativi di cancellazione dalla memoria collettiva, rivivono nelle pagine di Mieli, capace di restituire loro, e al tempo stesso alla storiografia e agli storici, quella dignità che deriva dall’onestà intellettuale e morale così ben rivendicata da uno dei grandi uomini di questo nostro secolo, che risponde al nome di Marc Bloch.
  
Malattia connaturata con la militanza politica, la reticenza è appartenuta tanto alla storiografia di destra quanto di sinistra anche se, e questo emerge tra le righe, la predominanza culturale della sinistra, e in questa mi assumo la responsabilità di inserire anche la classe politica risorgimentale, ha fatto si che quantitativamente i silenzi di questa parte politica risultassero essere maggiori.  Reticenza che ha spesso sconfinato nella mistificazione o nella messa al bando di certe figure, come quella di Crispi per esempio, i cui errori oggettivi non devono offuscare quanto di positivo egli fece per il paese. L’ideologia, sottolinea con forza Mieli, è un contenitore troppo angusto dentro il quale richiudere la storia e le crepe non tardano a palesarsi. E ciò che colpisce maggiormente è il fatto che anche fazioni illuminate e giustamente celebrate, come la classe politica piemontese, e poi italiana, che osò immaginare e realizzare uno stato unito e indipendente persino dal papato, abbiano poi cercato di cancellare la memoria di ogni dissidenza, abbiano imposto un silenzio imbarazzante su questioni centrali e problematiche come lo strisciante malcontento che attraversava le regioni che i piemontesi venivano a “liberare”.
   Con una dimostrazione di quanto talvolta politica e storia siano due entità destinate a perenne divergenza, i vincitori della battaglia risorgimentale anziché cercare di smussare gli angoli più acuminati e aprire, si direbbe oggi, dibattiti sulle grandi questioni (la cui efficacia è comunque tuttora da dimostrare), anziché confrontarsi con realtà sociali ed economiche tanto diverse, preferirono imporre brutalmente il proprio modello politico e operarono, con chirurgica sottigliezza per negare al dissenso qualsiasi diritto di cittadinanza, persino tra le generazioni successive che crebbero nella mitologia di un risorgimento eroico e rivoluzionario, unanime e radioso. Quando invece ora si ammette senza problemi che la definizione di “risorgimento senza popolo” in molti casi è assolutamente corretta.
   Da questa visione, concettualmente simile a quelle che ispirarono la repressione violenta degli eretici o dei dissidenti politici in altri anni e altri luoghi (e qui divago consigliando al lettore appassionato il saggio di Giorgio Galli intitolato “Cromwell e Afrodite” che tratta proprio delle repressioni dei movimenti libertari a carattere femminile da parte di compagini passate alla storia per essere, come è vero, progressiste) da questa visione dicevo è derivata la demonizzazione, per citare un esempio, dei Borboni di Napoli e l’irrisione storiografica per i loro sovrani. Nel saggio che tratta di Filangieri, voce altissima dell’illuminismo partenopeo, e del suo rapporto proprio con la casata reale, si evince che la verità non è sempre quella diretta e semplice che da parte di qualcuno si vorrebbe. Esistono molte, moltissime sfumature e il compito dello storico è proprio quello di avere il coraggio e l’onestà per ricercarle e sottolinearle. E se anche una figura autorevole come quella di Filangieri mantenne costanti rapporti con la corte borbonica, ciò significa che, forse, il regime napoletano non era così retrogrado e oppressivo come ci è stato tramandato.
  
L’intero libro procede strutturato per brevi saggi che prendono quasi sempre spunto da un volume pubblicato e a mio avviso le pagine più belle sono proprio quelle legate all’età risorgimentale (Gioberti, Crispi, le Insurgenze) ma anche quelle in cui Mieli sottolinea con semplicità l’ostinazione ottusa di una figura per molti versi celebrata come quella di Gaetano Salvemini nei confronti di Giolitti, oppure ancora le vicende dei fascisti di sinistra (altro tabù ossimorico e lacerante per molti intellettuali di sinistra richiusi dentro schematizzazioni elementari) o le reticenze di un editore illustre come Einaudi nei confronti di una testimonianza sul gulag come quella dello scrittore polacco Gustaw Herling, la cui introduzione ai “Racconti di Kolyma” di Salamov, opera che la casa editrice torinese decise meritoriamente di pubblicare, fu in qualche modo ritenuta inadeguata e non utilizzata per “eccessivo peso delle argomentazioni storiche”. Mieli non commenta, e più avanti parlerà in toni assai lusinghieri di altri due libri stampati dallo Struzzo incentrati proprio sul riconsiderare il Novecento senza indulgere nell’ideologia, ma è evidente che per un certo tipo di cultura italiana l’idea dei “gemelli totalitari”, fascismo e comunismo, non era ancora accettabile in pieni anni novanta.
Molte sono le pagine toccanti e molte anche quelle sconvolgenti. Ma se proprio dovessi scegliere uno tra i saggi, consiglierei quello conclusivo, intitolato “I tempi della storia”, che mostra come alla fine la storia venga sempre scritta almeno due volte e come, al tempo stesso, non manchino gli storici che, dolorosamente ma in maniera inequivocabile, hanno aperto la strada ad analisi in grado di staccarsi dalle ideologie (Marco Revelli, autore di “Oltre il Novecento”) oppure di ammettere la reticenza ideologica che nel passato li contagiò (Bobbio).
  
Nel clamore dell’esasperato scontro politico e ideologico che tanti danni fece e continuerà a fare al Paese, nessuna presa di posizione può essere più nobile e, lo ripeto, civile, di quella di colui che ha il coraggio di smettere gli occhiali del pedissequo copista per ritornare alla dignità libera e assoluta dello storico. Perché gli ideali non tramontano nel momento in cui una fazione giunge alla vittoria, perché il potere non autorizza ad accusare di revisionismo (orrenda parola, immagine di un secolo dominato dalle ideologie) i non allineati, come invece troppo spesso abbiamo visto accadere. Sono fermamente convinto che di questo libro, come di molti altri raccolti nella ricca bibliografia riassuntiva, la nostra coscienza abbia inesausto bisogno.

Leonardo Merlini


  Le storie, la storia. Dall'Atene di Alcibiade al giubileo del 2000 
Mieli Paolo ;
Rizzoli
€ 8,26 

Le storie La storia, o meglio Le storie della storia, come Indro Montanelli osservava, è un saggio su quel famoso o famigerato Revisionismo, che tante polemiche ha provocato nella nostra storiografia, specie per quanto riguarda le vicende nazionali dell'ultimo mezzo secolo.

Paolo Mieli ha affrontato questo scottante e tuttora controverso tema del revisionismo con esemplare equilibrio e senso della misura, ma anche prudenza, mettendosi fin dall'introduzione sotto il patronato ideologico dei suoi oramai finalmente indiscussi maestri: Romeo e De Felice, di cui da studente fu allievo e alla cui scuola è maturato. Non solo. Mieli ci spiega che il termine revisionismo ha più di un secolo di vita e fu coniato a Vienna dal capo della socialdemocrazia austriaca Kautsky contro il " compagno "tedesco Bernstein per via del suo troppo cauto riformismo e che poi, nel più crudo linguaggio di Lenin, diventò sinonimo di " rinnegamento ". Ma prima di applicarlo alla scottante contemporaneità, Paolo Mieli ha fatto del revisionismo dimostrativa applicazione su capitoli di Storia resi ormai innocui dalla loro monumentale vetustà partendo addirittura da Gerusalemme ( quella biblica di Mosè e di Dadiv ) e dall'Atene di Alcibiade. Per dimostrare appunto che la storiografia non è che un continuo revisionismo e che appunto in questo consiste il fascino. Mieli ha ragione quando dice che al revisionismo si deve la demolizione di molte menzogne passate e accreditate come verità intoccabili. E' vero. Per esempio l'interpretazione che dal satrapismo repressivo e poliziesco di Stalin dà lo storico revisionista inglese Mastny, secondo il quale Stalin " dovette " agire come agì per la fragilità di un regime nato non dalla volontà popolare, ma dal colpo di mano di una esigua minoranza, non mi persuade nè punto nè poco. Nei secoli, nessuno dei regimi russi è stato figlio della volontà popolare: nè quello di Ivan il Terribile, nè quello di Pietro il Grande, nè quello di Caterina, nè quello descritto da De Maistre: " Questo è uno Stato di polizia, che passa una metà del suo tempo a impedire che le notizie di fuori entrino dentro e l'altra metà a impedire che quelle di dentro escano fuori". Ma nessuno dei suoi predecessori riuscì ad accumulare 85 milioni di morti, anche se poi saranno stati 70, o magari 60. E che questo po' po' di macello sia stato dovuto all'atteggiamento aggressivo dell'Occidente durante la " guerra fredda ", e prima di quella " calda ", come sostiene Mastney, mi sembra che sia a sua volta da revisionare.

Che la Resistenza, da fonte battesimale e sacrale della Nazione italiana quale ci è stata per quasi un cinquantennio gabellata, abbia finalmente assunto il suo vero volto, quello di una guerra civile fra italiani, è un gran bel fatto. Ma che questo fatto venga continuamente revisionato nell'interesse

non della verità storica e per approfondirla in tutte le sue sfaccettature, ma delle polemiche di parte, non è fatto altrettanto bello, anche se forse inevitabile.

Quanto al diritto, anzi al dovere del revisionismo, smettiamo di discuterne, tanto è insito e consustanziale alla ricerca della Verità, qual è o dovrebbe essere ogni libro o saggio di Storia che come tale voglia essere considerato.