DA - IL CORRIERE DELLA SERA - L'INTERVISTA 23 GENN 2003

Il sociologo tedesco Beck critica la politica di Bush. «La soluzione è rafforzare
il diritto, non militarizzare le relazioni internazionali»

«La guerra preventiva porterà alla caduta dell'impero a stelle e strisce»


« Make Law, Not War! » , «Fate la legge, non la guerra!» E' una variazione
dello slogan del Sessantotto con cui protestavano gli studenti contro la
guerra in Vietnam («Make Love, Not War», «Fate l'amore, non la guerra»).
L'autore di quest'appello è il tedesco Ulrich Beck, ma i tempi in cui era
uno studente sono già passati da molto. Da quando ha pubblicato negli Anni
'80 il suo saggio La società del rischio, Beck è considerato uno dei sociologi
europei più importanti. Ha una cattedra sia all'università di Monaco sia
alla London School of Economics. Il suo ultimo saggio - intitolato proprio
«Make Law, Not War!» , pubblicato dal settimanale Der Spiegel - tratta della
guerra preventiva contro l'Iraq. Con la quale, secondo Beck, potrebbe «iniziare
la caduta dell'impero americano».
Professor Beck, il suo ultimo saggio è un appello rivolto direttamente
al presidente Bush'

«Sì. Bush conduce una politica di militarizzazione delle relazioni internazionali
e rende meno importanti i trattati. Ma l'opzione militare dovrebbe essere
subordinata all'ordine giudiziario».

Il diritto internazionale di oggi è in grado di risolvere i conflitti mondiali'


«Il diritto internazionale di oggi parte dalla sovranità nazionale. Ma diventa
inefficace perché le nazioni in quanto entità piccole non possono dare risposte
a rischi globali. Bisogna aprire il diritto a queste nuove sfide».

La soluzione potrebbe essere un tribunale mondiale'

«E' la direzione giusta. Il problema è chi stabilisce che cosa è il terrorismo'
Per il diritto interno di un Paese è inaccettabile che la stessa persona
sporga denuncia, giudichi ed esegua la sentenza. E non è proprio quello
che fanno gli Stati Uniti sul piano internazionale' Inoltre il tentativo
di Bush di pacificare il mondo attraverso l'aggressione militare è controproducente.
Né le armi di distruzione di massa né le cellule terroristiche si possono
cancellare con le bombe. Bisogna stipulare trattati, poi vigilare. Non c'è
altra possibilità, solo in questo modo si garantisce anche la sicurezza
interna negli Usa».

Secondo lei, la politica europea va nella direzione giusta'

«Sì e no. Sì, perché l'Europa pone l'accento sulla necessità del diritto
internazionale. No, perché non ha ancora realizzato che il terrorismo è
davvero un rischio globale che potrebbe colpire anche l'Europa. Si scopre
adesso la menzogna su cui poggia l'Unione Europea: critica l'egemonia militare
degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo dipende da lei. L'Europa di oggi
non è nemmeno capace di risolvere i conflitti vicini, ad esempio nei Balcani».


Quindi è favorevole a una forza d'intervento europea'

«Esatto. Dovremmo introdurre una specie di "euro militare". Solo così riusciremmo
anche ad avere una politica estera comune. Un allargamento delle competenze
dell'Ue in questo settore giova anche agli Stati membri - perché aumenterebbe
il peso mondiale dell'Europa».

Come valuta l'anti-americanismo che emerge in Europa'

«E' paradossalmente un anti-americanismo che è pro-americano. Lo slogan
"Make Law, Not War" ha delle radici americane. Basta ricordare i processi
di Norimberga contro i criminali di guerra tedeschi. Partiamo sempre da
principi americani, dunque si tratta di un anti-bushismo invece di anti-americanismo»
.

Nel suo saggio scrive che con la predominanza degli Stati Uniti nel campo
militare potrebbe iniziare «la caduta dell'impero americano». Perché'

«La logica militare è in contraddizione con la posizione economica mondiale
degli Stati Uniti. Le guerre preventive costano somme ingenti sul piano
mondiale e rischiano di avere un impatto negativo sull'economia. Certo,
una vittoria rapida contro l'Iraq potrebbe aiutare l'economia. Ma la guerra
contro l'Iraq non resterebbe l'unica, se si tiene conto per esempio della
Corea del Nord».

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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA 23 GENN 2003

«Diritti umani, Tripoli non ha le carte in regola ma non è l'unica»


Una riforma, che dia accesso alla Commissione solo agli Stati membri che
rispettino i diritti umani. Gli Stati Uniti vogliono cambiare le regole
dopo la nomina della Libia alla presidenza dell'organismo delle Nazioni
Unite chiamato alla tutela dei diritti dell'uomo. Vedere un'emissaria di
Gheddafi sullo scranno che per quattro anni consecutivi, dal '47 al '50,
fu affidato alla signora Roosevelt per Washington è uno shock. Ne va della
credibilità delle Nazioni Unite, sostiene l'amministrazione Usa. È davvero
così' «Per noi il problema non è tanto a chi va la presidenza della Commissione.
Il cuore della questione è come far funzionare questo organismo che attualmente
è fortemente politicizzato ed è più un luogo dove si incrociano esigenze
economiche e valutazioni strategiche che non la tutela dei diritti umani»,
dice
Marco Bertotto, presidente di Amnesty International Italia. Altrimenti
c'è il rischio di fare di quest'organo «l'ipocrisia elevata all'ennesima
potenza».

Il vostro rapporto annuale non è tenero con la Libia. Tripoli non sembra
avere le carte in regole per ricoprire l'incarico.

«Non ha assolutamente le carte in regola. Cito qualche dato: 150 oppositori
politici tenuti in carcere, divieto di costituire partiti politici, giornali
controllati dal regime, dissidenza politica duramente repressa. Direi che
la Libia ha un serio problema di tutela dei diritti umani al suo interno».

Con queste credenziali non c'è il rischio che la presidenza libica finisca
per screditare il lavoro della Commissione e di gettare ombre sul funzionamento
delle stesse Nazioni Unite'

«In realtà sia la candidatura libica sia la resistenza degli Stati Uniti
possono essere lette come una strumentalizzazione politica. La Libia ha
già ricoperto nel 2001 la vicepresidenza della Commissione e nessuno in
quell'occasione ha avuto da ridire. Esiste un sistema di rotazione, quest'anno
toccava all'Africa e i paesi africani hanno designato Tripoli. Ma non è
questo il punto. Il punto è che tutti i paesi che fanno parte della Commissione
dovrebbero farsi garanti del rispetto dei diritti umani in casa propria
e del funzionamento della Commissione stessa».

E non è così'

«No. La Commissione in teoria è l'organo supremo per la tutela dei diritti
umani, dovrebbe promuovere il monitoraggio delle situazioni a rischio e
avere una funzione di indirizzo. In realtà è talmente condizionata da altre
valutazioni - di ordine politico, economico, strategico - che spesso è condannata
all'inazione o all'omissione di intervento, dove sarebbe il caso. Faccio
due esempi. Non è mai stata approvata una risoluzione di condanna della
Cina, che pure è un paese dove i diritti umani sono calpestati. Allo stesso
tempo è stata condannata la Russia per la situazione in Cecenia, come pure
Israele per i Territori Occupati, risoluzioni che però sono state del tutto
disattese. Non si può essere membri della Commissione e rifiutarsi di applicare
le sue risoluzioni o di ammettere gli ispettori, come è stato il caso di
Israele. Non si può tacere di casi eclatanti come la Cina e lo Zimbabwe.
Il rischio è di fare di questa Commissione l'ipocrisia elevata all'ennesima
potenza».

Con o senza la Libia'

«Il fatto è che troppo spesso scatta un'indignazione selettiva. L'uso strumentale
dei diritti umani prevale sulla tutela reale delle vittime. Fa parlare il
burqa delle donne in Afghanistan e non quello delle donne in Arabia Saudita.
Anche ora si sta per scatenare un nuovo conflitto in nome dei diritti umani».

Gli Stati Uniti e Human Rights Watch invocano una riforma della Commissione.

«La riforma è un tema già all'ordine del giorno della sessione che si aprirà
in marzo. Anche noi abbiamo avanzato le nostre proposte per garantire il
rafforzamento delle cosiddette 'procedure speciali' per monitorare lo stato
di salute dei diritti umani. Questo implica una maggiore disponibilità di
risorse rispetto a quelle attuali. Ma quello che serve è anche una maggiore
pressione sugli Stati membri perché garantiscano la tutela dei diritti umani
e l'attuazione delle risoluzioni della Commissione. Altrimenti si resta
al punto di partenza».

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA - L'INTERVISTA 24 GENN 2003


Monsignor Caniato: tristissimo gioco politico sulla pelle
dei reclusi.
Circolano proposte di difficile applicazione
Il cappellano delle carceri: basterebbe ridurre di sei mesi la pena a tutti

«Così finora in una ventina di Paesi è stato realizzato il segno chiesto
dal Pontefice»


ROMA - «Le divisioni si accentuano, i tempi si allungano ed è tristissimo,
per noi cappellani, questo gioco politico sulla pelle dei carcerati. Ma
che sia caduta la possibilità dell'indulto non è una tragedia, del resto
non era questo che chiedeva il Papa»: così parla monsignor Giorgio Caniato,
ispettore generale dei cappellani delle carceri.


In che senso, monsignore, il Papa non chiedeva l'indulto'

«Ha chiesto, sia durante il Giubileo, sia in occasione della visita al Parlamento,
un segno di clemenza, consistente in una riduzione della pena per tutti
i detenuti e questa può essere realizzata con lo strumento giuridico della
liberazione anticipata, senza ricorrere a provvedimenti molto più macchinosi,
come l'indulto».

Lei dunque spera che, caduto l'indulto, il Parlamento riesca a realizzare
il «segno di clemenza» con l'indultino'

«Non entro nel merito del dibattito parlamentare, ma temo che anche il cosiddetto
indultino venga proposto, dai più, con l'accompagnamento di distinzioni
tra i vari tipi di reati e di modalità di attuazione troppo complesse. Io
credo che occorra semplificare».

Semplifichiamo, monsignore...

«Potrebbe trattarsi di una piccola riduzione di pena, poniamo sei mesi,
uguale per tutti, indipendentemente dal tipo di reato. Un beneficio che
non escluda nessuno e che sia di immediata attuazione, senza rimando a commissioni
e casistiche».

Sei mesi non sono pochi' Si era parlato di tre anni, poi ridotti a due...


«Quelle erano utopie e già sono cadute. Sei mesi non sono affatto pochi,
se fatti valere per tutti. Ma anche tre mesi sarebbero un segno, per chi
vive contando i giorni che gli restano da scontare. Alcune migliaia di detenuti
uscirebbero dalle carceri, poniamo cinque o settemila, ci sarebbe un alleggerimento
della sovrappopolazione e tutti, comunque, ne avrebbero un vantaggio».

Lei è contrario all'indulto e diffida dell'indultino per ragioni giuridiche'


«No, nelle ragioni giuridiche non voglio entrare, come in quelle politiche.
Ne diffido per realismo. Parlare di amnistia, come pure qua e là si fa,
o di indulto significa mirare a provvedimenti che richiedono l'approvazione
da parte dei due terzi del Parlamento. La cosa non risultò realistica nel
2000 e altrettanto ricapita ora».

L'indultino è stato escogitato proprio per evitare quella strettoia: ricorre alla legge Gozzini, che è una legge ordinaria e ne amplia alcuni benefici...


«Ma, a stare alle proposte che circolano, ne risulta difficile l'applicazione.
Il singolo detenuto vedrebbe rimandato il suo caso a una commissione, che
dovrebbe valutare l'applicabilità dei benefici. Già il fatto dell'attesa
potrebbe vanificare l'effetto psicologico del segno di clemenza e in molti
casi, per chi sta scontando gli ultimi mesi di carcere, anche l'effetto
pratico».

Qual è dunque la via che lei preferirebbe'

«Un provedimento di pochissime norme, due o tre, che si richiami all'istituto
della liberazione anticipata e ne estenda i benefici, che ora sono subordinati
alla buona condotta, a tutti i detenuti, incondizionatamente e in misura
uguale per tutti. E' per questa via che in una ventina di Paesi è stato
realizzato, nel Duemila, il segno di clemenza chiesto dal Papa».

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA - L'INTERVISTA - 24 GENN 2003

«Programmi al limite del porno, la Rai dovrà cambiare»

Baldassarre: resto al mio posto. Basta spese folli come Morandi, la sede
di viale Mazzini sarà venduta

ROMA - Presidente Antonio Baldassarre, è davvero finita la stagione degli
appalti esterni Rai' Il settore è in agitazione.


«Chiariamo. Ho detto che si punterà al massimo sulle produzioni interne.
Dal 6 gennaio quasi tutto è prodotto in Rai. Compreso Amendola su Raiuno
dove c'è un produttore esterno che usa le strutture interne Rai. Tutti i
centri Rai lavorano quasi al 100 per cento. L'obiettivo di risparmio alla
fine del 2003 è di 20 milioni di euro. C'era il bubbone di un sistema antieconomico.
Siamo intervenuti col bisturi».

I sindacati dicono che a Milano non è così...

«Lì siamo ancora all'80 per cento, è vero. Ma presto arriveremo al 100 per
cento. Per Milano è in vista il secondo centro, una grande scommessa imprenditoriale».


Punterete sulla Fiera o su Sesto San Giovanni'


«Personalmente ritengo più vantaggioso un avvicinamento al centro, verso
la Fiera. Ma si deciderà. In quanto a Roma, grazie alla collaborazione col
sindaco Walter Veltroni abbiamo varato il progetto per Saxa Rubra Due: 50
mila metri quadrati, una città della televisione».

Addio a viale Mazzini, dunque'

«Ci vorrà del tempo. Ma la sede verrà ceduta. Resterà, per ragioni storiche,
l'antica sede della Radio in via Asiago. Un'idea di Veltroni che abbiamo
accolto volentieri».

Parliamo ancora di appalti esterni. C'è la fiction. C'è l'intrattenimento,
per esempio quello di Raiuno, in gran parte affidato a Ballandi con Morandi,
Celentano...

«Nessuna tv al mondo può rinunciare all'acquisto di prodotti o alle committenze.
Ma una cosa va ripetuta. La Rai ha speso molto nell'intrattenimento. Anzi,
troppo. Abbiamo approvato il contratto Morandi perché è arrivato a ridosso
della Lotteria ed era impossibile intervenire. Ma non voterò mai più un
contratto così costoso».

Morandi è costato troppo per lei'

«Secondo me sì. C'è una questione economica e insieme morale: i soldi della
Rai sono quelli dei cittadini».

E i costi della fiction'

«Abbiamo eliminato l'anomala figura del produttore esterno che usa soldi
e progetti Rai. D'ora in poi ogni produttore dovrà assumersi la piena responsabilità
del prodotto».

Dopo il successo di Benigni alle prese con Dante lei disse: ora nulla sarà
mai più come prima alla Rai. Invece'

«Benigni ha dimostrato come collegare la cultura agli alti ascolti e ha
sbugiardato chi teorizza una tv insulsa, banale, di basso livello. So bene
che non tutte le sere si può proporre un Benigni o un Dante. Ma la tv pubblica
deve compiere il massimo sforzo sulla qualità. Guardi, a parte le considerazioni
finali di tipo politico, io condivido le critiche espresse da Tobias Jones
sul Financial Times . E' ciò che più o meno dissi quattro anni fa, chiamato
in qualità di esperto dalla facoltà di Sociologia di Roma, a una tavola
rotonda con l'allora presidente Roberto Zaccaria e Fedele Confalonieri di
Mediaset. Tutto vero: la tv italiana insegue spesso un modello commerciale
e offre un prodotto vecchio. Si ricorre al "soft porno" con ragazze spogliate
quando non c'è alcun bisogno. Capisco un balletto: ma perché presentare
il jukebox di una lotteria con due ragazze svestite' Io non sono un femminista
ma per me si tratta di autentiche offese alla donna trattata come strumento
di audience».

Ma lei è il presidente, sulla Rai può intervenire... Non avete appena varato
un corposo piano culturale'

«Proprio ieri, mercoledì, ne abbiamo discusso in Consiglio. Il direttore
generale si è impegnato a rivedere da subito molti programmi alla luce di
questo dibattito».

Alla luce di questo piano molte trasmissioni stridono. O no'

«Certo che sì. C'è insieme una questione estetica ed etica, in questo caso
pubblica perché si parla di Rai. Per esempio condivido e faccio mie le obiezioni
del presidente Casini».

Quali trasmissioni corrono rischi' I contenitori di intrattenimento, la
tv delle lacrime'

«Diciamo quei prodotti che sfiorano il trash e che propongono ore di tv
senza contenuti».

Nei giorni scorsi anche il consigliere Albertoni ha polemizzato su Al posto
tuo
di Alda D'Eusanio...


«Il suo format, che richiama poi anche quello di Maria De Filippi, da anni
funziona benissimo negli Usa. Lì c'è l'eccellente Oprah Winfrey che tratta
i temi con equilibrio e senza sbavature: molti argomenti attirano i giovani.
Il problema è la conduzione: basta con i compiacimenti sugli aspetti deteriori.
Basta con le inutili provocazioni».

Parliamo di pluralismo. L'Ulivo parla di una Rai berlusconizzata e occupata
da uomini del Cavaliere.

«Rai berlusconizzata' Pura propaganda politica. E mi fermo qui perché non
intendo polemizzare. Il pluralismo è una misura relativa, forse è qualcosa
che si insegue e non si raggiunge mai. Ma, dati alla mano, in questo periodo
la Rai è certamente più pluralista rispetto al recente passato».

E Santoro, allora' Lo rivedremo mai sugli schermi Rai'

«Io spero di sì, l'ho detto più volte. Chiunque rispetti le nostre regole,
cioè l'imparzialità, può avere il suo spazio»

Ma Santoro non si vede e a Sesto San Giovanni ha detto, martedì sera: ci
hanno imposto il silenzio...

«Nessun commento».

Ma in questa Rai non c'è nemmeno Enzo Biagi

«E me ne dispiace molto. E' una sua scelta personale».

Breve elenco degli incarichi che lei, secondo alcuni, potrebbe accettare
in cambio della presidenza Rai e favorire un ricambio dei vertici: Inps,
Enel, Ferrovie, Inail, un'Alta corte europea' Vero o falso'

«Invenzioni pure. Totali. Messe in giro da chi vorrebbe che tutto ciò accadesse.
Ma l'aggancio con la realtà non esiste».

Lei dunque resterà dov'è: niente dimissioni, dunque'

«E perché' I conti sono migliorati, l'audience è in netta ripresa e gli
indici di qualità accertata sono saliti rispetto al 2001. Cercherò di completare
il mio incarico che ho accettato, vorrei ricordarlo, per spirito di servizio
e rinunciando alle gratificazioni anche economiche che mi venivano dalla
mia attività di avvocato. Lo so, potrei essere revocato da un voto dei due
terzi della commissione di Vigilanza che era, e resta, l'unico strumento».


Lei spera in un reintegro dei tre consiglieri dimissionari' Ironizzano molto
sul Cda biposto...

«Io non mi aspetto niente. Non dipende da me. Qualsiasi cosa accada continuerò
a svolgere il mio compito con la stessa dedizione che assicurai alla Corte
Costituzionale. Abbiamo varato il piano culturale, una vera scommessa. Presto
approveremo un radicale piano industriale. Passeremo al progetto editoriale
e alla pianificazione triennale della fiction. Garantiremo investimenti
per la tv digitale, quella del futuro. Nessuna gestione Rai era mai riuscita,
in così poco tempo, a introdurre tante innovazioni e a guardare così in
prospettiva. Poi il mio mandato finirà e tornerò alla mia vita di sempre.
Quella normale...».
Lo so, potrei essere revocato da un voto dei due terzi della Commissione
di Vigilanza sulla tv di Stato che era, e resta, l'unico strumento possibile

Per Milano ritengo più vantaggioso un avvicinamento al centro, verso la
Fiera A Roma grazie a Veltroni abbiamo varato il progetto per Saxa Rubra
Due

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DA - IL MESSAGGERO 24 GENN 2003

Bersani: «L'unica scelta possibile
è resistere. E poi investire e innovare»


di GIANNI GIOVANNETTI

ROMA '
Pierluigi Bersani, ex ministro dell'Industria del governo dell'Ulivo,
scuote la testa quando sente parlare di riconversione dell'ex grande tecno-polo
aquilano per il quale, sembra, gli attuali governi centrale e regionale
di centrodestra sono già rassegnati al de-profundis.

A quanto pare, onorevole Bersani, non c'è solo la Fiat in Italia che scopre
di essere in crisi

«Proprio così. Da due anni noi siamo in recessione dal punto di vista della
produzione industriale: nel 2001 eravamo a meno 0,9% e chiuderemo il 2002
a meno 2,5. E questo ci allontana ancora dall'Europa, che soffre le nostre
stesse difficoltà ma in misura molto meno preoccupante. Da noi i comparti
in sofferenza sono il made in Italy (tessile e calzaturiero soprattutto),
l'industria automobilistica e le telecomunicazioni».

Siamo di fronte al paradosso di un settore che ha una diffusa domanda di
mercato e, al tempo stesso, è in affanno nelle sue capacità industriali:
come mai'

«Qui si incrociano due questioni: la prima riguarda l'andamento internazionale
del mercato, sempre sull'orlo di un rilancio che invece tarda; la seconda
è legata a un eccesso di investimenti rispetto al reale sviluppo dei servizi,
e che ora senza dubbio dev'essere riassorbito. Il risultato è un ridimensionamento
di capacità produttiva e paga chi ha prodotti già invecchiati».

E per tornare alla crisi del polo aquilano, che si fa'

«Potrei usare lo slogan: resistere, resistere, resistere! Ma si resiste
se si sviluppa una capacità di innovazione reale. Questo è un settore che
nel medio periodo non è destinato a decrescere: siamo nel mezzo di un vallo
e nel suo punto più basso, dove qualcuno inciampa ma poi c'è la risalita.
Dunque resistere senza depotenziare, magari partecipando anche alle avventure
di innovazione che ci sono in giro. Non dimentichiamo che il nostro è un
Paese in cui elettronica, tlc, informatica sono sottodimensionate rispetto
alla media dei grandi paesi industriali».

Questo suo appello alla "resistenza" non sembra trovare, anche qui, l'accordo
del governo

«Ma perché questo governo commette oggi un errore gravissimo: pensa di risolvere
anche questa crisi aquilana in termini di riconversione produttiva, ricorrendo
peraltro a uno strumento - la legge 181 - che era stato pensato per le aree
problematiche della siderurgia e non per la chimica o l'auto o le telecomunicazioni.
Nessun paese europeo sta pensando di ridurre la capacità industriale in
questi settori e io trovo che ci sia in giro un'aria di anti-industrialismo
deleteria. Anche in una regione come l'Abruzzo, invece, penso che ci sia
bisogno di una sponda industriale importante ai percorsi dello sviluppo».


Ma oltre a "resistere" che altro'

«Innanzitutto è sorprendente che bisogna fare delle manifestazioni per avere
dei tavoli di confronto su questi temi. Quindi bisogna imporre di permanenti,
che valutino e verifichino gli accordi già contrattati: penso a Siemens
che ha un patto da rispettare e, mi risulta, ha largo accesso industriale
alle nostre commesse. Poi è necessario convincersi che occorre mantenere
i presidi produttivi, e qui le amministrazioni locali possono pretendere
strumenti di convenienza attraverso la miriade di incentivazioni a disposizione.
Infine puntare a grandi investimenti da concentrare in quest'area a partire
da un rapporto più stretto con il polo di Roma e poi con Siemens, Finmeccanica,
Alenia e Marconi. Insomma: non darsi assolutamente per vinti».

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DA - L'UNITA' 24 GENN 2003


INTERVISTA A
TANA DE ZULUETA.
«Il Consiglio potrebbe richiamare l'Italia»

ROMA «Parlare di conflitto d'interessi è riduttivo. Il problema è che la
concentrazione della stampa in Italia spezza gli equilibri necessari per
affermare una corretta dialettica tra i poteri. Insomma, uno squilibrio
insopportabile e pericoloso tanto più se si tiene conto che nel caso italiano
si sommano le concentrazioni private al controllo delle televisioni pubbliche».
Tana De Zulueta, senatrice ds e membro del Consiglio d'Europa, si meraviglia
che ci sia stupore per le preoccupazioni che crescono in Europa sul caso
italiano e sulla libertà di stampa nel nostro paese. Soppesa il documento
preparato dalla Commissione cultura, scienza ed educazione e aggiunge: «È
importante che questo argomento venga messo a fuoco dal Consiglio. La libertà
dei media è decisiva per la libertà in Europa».

Ci sono giudizi molto duri su Berlusconi e il suo conflitto d'interessi.
Se li avessimo espressi in Italia tanti «liberali» ci avrebbero attaccato
come visionari.

«Penso che quelle del documento del Consiglio sono considerazioni abbastanza
obiettive che in Italia sono state fatte spesso, per esempio proprio sull'Unità.
L'allarme è affiorato nelle discussioni di gruppo e anche in Commissione
fin da quando sono apparsi gli orientamenti della maggioranza che governa
l'Italia. Da qui è stata posta la necessità di un documento che facesse
una analisi più precisa».

Lo studio è di un esperto indipendente...

Sì, sì...

Come dire che quando si ragiona senza pregiudizi ideologici emerge una preoccupazione
grave sul berlusconismo'

Sì, la valutazione e l'allarme non sono il risultato di una lobby ma di
una preoccupazione diffusa. L'Italia viene rappresentata come un pericolo
gravissimo per le nuove democrazie. Ci potrebbe essere qualcuno interessato
a seguire questo esempio. Da qui i giudizi molto netti. Del resto, sono
giudizi molto diffusi anche nel Parlamento europeo.
Cosa accadrà del documento'

Verrà in votazione martedì prossimo.

E poi che succederà'

Ci sarà un po' d'attenzione da parte dei media nostrani. Ci sarà anche una
forte critica al Consiglio europeo da parte del nostro governo. Il documento
credo verrà acquisito come opinione del Consiglio d'Europa e quindi diventerà
vincolante per il Consiglio d'Europa a livello di governo.

Concretamente cosa significherà'

Potrebbero risultare incoraggiate le azioni da parte dei cittadini italiani.
Penso per esempio a cittadini oggetto di intimidazioni o querele ingiustificate.
Questi cittadini potrebbero chiamare in giudizio il governo italiano. Ma
io credo, soprattutto, che ci sarà una questione politica nel senso che
il Consiglio potrebbe richiamare il governo italiano perché adegui la situazione
vigente ai parametri che sono stati violati. Il Consiglio d'Europa non ha
possibilità di sanzione come l'Unione europea.

Insomma, un richiamo per superare il conflitto d'interessi'

Io credo che il termine conflitto d'interessi sia riduttivo. Il punto che
non viene affrontato. Il conflitto d'interessi riduce il problema a una
dimensione di buona pratica imprenditoriale, cioè di parità di condizioni
d'accesso al mercato. La situazione italiana invece viene ricondotta a un
problema costituzionale, cioè di bilanciamento dei poteri e senza la funzione
correttiva di una stampa libera e indipendente e di dimensioni adeguate
(non bastano uno o due giornali) viene a mancare una condizione essenziale
per la libertà di stampa.

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DA - LA REPUBBLICA - L'INTERVISTA 27 GENN 2003

Intervista al presidente della Repubblica: "Non una frequentazione
da salotto, ma un comune sguardo sull'Italia e sul mondo"
Ciampi: "Quella cena sul Colle
parlando dei nostri figli..."

"Il dialogo con lui è cominciato
quando ero alla guida della Banca d'Italia"

ROMA - "Ho perso un amico", dice Carlo Azeglio Ciampi poco dopo aver appreso
la notizia della morte di Gianni Agnelli. "Ma parlo di amicizia vera, non
di salotto o di vacanza. Un rapporto discreto e costante, una frequentazione
abituale, un modo comune di guardare all'Italia e al mondo. In fondo, si
potrebbe dire, avevamo lo stesso sguardo, pur essendo naturalmente diversi
per formazione e per esperienza".

Che tipo di sguardo, presidente'

"Se dovessi definire la nostra comunanza in una sola parola, direi uno sguardo
generazionale. Il nostro rapporto aveva questa base solida, quasi materiale,
nel fatto che ci divideva soltanto un anno di età. Io sono più giovane di
lui di appena 13 mesi. E questo vuol dire molto, perché abbiamo attraversato
le stesse cose, pur nella nostra diversità. Io sono espressione della borghesia
minore italiana, lui era nipote di un grande imprenditore, espressione di
una dinastia del capitalismo nazionale".

Ma le affinità hanno contato più di questa diversità'

"Assolutamente sì. Lei pensi solo alla guerra, e al fatto che dopo l'8 settembre
anche Gianni Agnelli, come me, voleva entrare nell'esercito della nuova
Italia. Ne abbiamo parlato spesso. Sa, alla nostra età i ricordi pesano".

Quando ha conosciuto l'Avvocato'

"Prima di diventare Governatore. Ma devo dire che il dialogo con lui è cominciato
nei miei anni alla guida della Banca d'Italia. Lui aveva avuto un forte
rapporto con Carli, come tutti sanno, e anche con Baffi. Ma quando io divenni
Governatore, veniva a trovarmi con metodo, mediamente ogni due mesi. Talvolta
si parlava di questioni specifiche, ma in genere erano conversazioni libere
su
tutto, e dunque molto interessanti".

Questa consuetudine è continuata anche fuori dalla Banca'

"Sì, non è mai finita. L'Avvocato veniva a Palazzo Chigi, veniva al ministero
del Tesoro, veniva in ufficio da me anche in quei due anni in cui sono rimasto
per così dire disoccupato. E poi, naturalmente, veniva sempre al Quirinale".

Si può dire che è nato negli anni anche un rapporto privato, non istituzionale,
tra di voi'

"Lui aveva un suo pudore interno fortissimo sulle questioni private. Era
difficile scalfirlo. Mi capitò tuttavia di dover far riferimento con lui
a suoi temi famigliari dolorosissimi. Scattò il pudore che conoscevo, ma
non in senso di chiusura, piuttosto di riservatezza. Mi dimostrò di aver
capito e gradito il sentimento di partecipazione e di affetto".

Avevate una passione in comune, l'Europa. E' così'

"Certamente. Diciamo che lui aveva una visione internazionale dei problemi,
come pochi in Italia. Anzi, ha contribuito essendo un personaggio pubblico
a sprovincializzare il nostro Paese. Ho sempre sentito in Agnelli un legame
profondissimo con il Nordamerica, e con l'Europa, che concepiva come un
ancoraggio necessario per l'Italia, una sorta di garanzia indispensabile.
In questo, come può capire, ci siamo sempre trovati pienamente d'accordo".

Vi vedevate anche fuori dagli incontri ufficiali nel Palazzo'

"Sì, anche se non negli ultimi tempi, naturalmente. Ricordo la prima volta,
quando ero a Basilea per un incontro bancario e lui era stato ricoverato
proprio lì in ospedale per un incidente sugli sci. Andai a trovarlo e fu
una lunghissima conversazione, perché tutti e due avevamo tempo, fuori dagli
uffici. Ho cenato un paio di volte a casa sua a Torino, da Governatore,
e una volta a Roma. Poi c'è stata una cena a quattro al Quirinale, dopo
la morte del figlio, e vidi tutta la sua tristezza. E' nato anche un rapporto
tra le nostre mogli. E Margherita, la figlia, venne una volta a cena da
noi a santa Severa, portata da amici comuni".

Poi l'ultimo incontro al Lingotto, pochi mesi fa per l'inaugurazione della
Pinacoteca, con l'Avvocato già molto malato. Cosa ricorda'

"Una profonda tristezza. Si capiva che la fine era inevitabile, in quest'uomo
sempre così attivo. Era curioso e attento come sempre, ma il corpo era ormai
bloccato sulla sedia a rotelle. Mi colpì il fatto che non muovesse una mano
per tutto l'incontro. Ma aveva voluto esserci, credo per amicizia e anche
per il senso delle istituzioni, che aveva fortissimo. Ecco, questo sintetizza
il nostro rapporto: rispetto e stima reciproci".

Le chiese aiuto per la Fiat'

"L'Avvocato non chiedeva. Esponeva problemi. Credo di poter dire che reciprocamente
non ci siamo mai fatti favori, né ne abbiamo richiesti. Non mi ha mai fatto
pressioni di nessun genere. Ma tutti e due, penso, sapevamo di poter contare
l'uno sull'altro, e in questo senso eravamo amici. Senza il bisogno di vederci
tutte le settimane. Io potevo contare sul suo modo di pensare, e così lui
nei miei confronti. Funzionavamo, posso dire, da riferimento. Per questo
mi mancherà".

Che cosa le manca'

"Quello che manca alla gente comune, anche alla gente minuta. Certo, era
un capitalista, un grande imprenditore. Ma tutti sentivano che era un italiano,
un grande italiano. E io dico che era una forza per il suo Paese. Anche
per il suo rispetto per gli altri, per le controparti. Non è mai stato un
imprenditore rabbioso, ha sempre avuto un profondo rispetto per il sindacato.
E per Luciano Lama, qualcosa di più".

Lo aveva ancora sentito, nelle ultime settimane'

"Qualche telefonata, sempre più rara. Sapevo che il male avanzava, non volevo
disturbare. Immaginavo la sua preoccupazione finale per la crisi Fiat, il
senso di paralisi per la malattia. Un'angoscia. Pover'uomo. Anche se il
grande dolore, io credo, se n'era già andato tutto per la perdita del figlio".
(e.m.)

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DA - IL MESSAGGERO - L'INTERVISTA 27 GENN 2003

Intervista al responsabile immigrazione di An: falso il buonismo del Centro-sinistra
Landi: «Ereditata una situazione disastrosa»
di ANTONIO DE FLORIO

ROMA - «Con la 'Bossi-Fini" siamo intervenuti solo nella prima parte della
Turco-Napolitano e quindi abbiamo salvaguardato tutto il capitolo sull'integrazione
e la solidarietà. La normativa dunque va letta nel suo complesso e dunque
non è esclusivamente repressiva».
Giampaolo Landi di Chiavenna, responsabile
per An della politica migratoria, non ha dubbi sulla legge che porta alche
il nome del leader del suo partito.

La Caritas è d'accordo con la Cassazione: la 'Bossi-Fini" non aiuta l'integrazione
della persona immigrata...

«L'associazione di volontariato cattolico evidentemente dà una lettura politica
della sentenza della Suprema corte: se considera repressiva la prima parte
della nuova legge deve considerare tale anche la seconda, la 'Turco-Napolitano".
A me sembra quella della Caritas una valutazione capziosa».

La Lega nord grida all'invasione di campo da parte della Corte di Cassazione.
Condivide il giudizio'

«Io non ho letto integralmente la sentenza della Suprema corte e non posso
esprimere un giudizio compiuto. Dico piuttosto che se la Cassazione ha voluto
eprimere una valutazione della legge, questo non le competeva. I magistrati
devono solo interpretare e applicare la legge in modo rigoroso. Il potere
legislativo spetta esclusivamente al Parlamento. Noi abbiamo ereditato dal
centro-sinistra una situazione disastrosa, provocata da un falso buonismo.
Ci siamo trovati dinanzi a un milione di clandestini e grazie alla 'Bossi-Fini"
sono in via di regolarizzazione circa settecentomila stranieri».

Molti magistrati, però, lamentano che sia una legge troppo macchinosa, di
difficile applicazione...

«Se ci sono delle parti della normativa poco chiare i magistrati ci aiutino,
ci dicano dove è la macchinosità. Se è un contributo serio che prescinde
da forzature di carattere politico, la maggioranza di governo è pronta a
intervenire. Comunque deve essere fatto salvo il principio che ispira la
legge 'Bossi-Fini" e l'azione del governo del contrasto violento ad ogni
forma di immigrazione clandestina e di sfruttamento, valorizzando invece
l'immigrazione regolare di cui l'Italia ha tanto bisogno».

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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA - 27 GENN 2003

Quando stracciò l'accordo separato

ROMA Una vita spesso intrecciata, quella tra
Bruno Trentin, per molti anni
segretario dei metalmeccanici della Fiom e poi segretario generale della
Cgil, e Gianni Agnelli, l'uomo che è stato l'imprenditore più importante
in Italia.
Nella mattinata di ieri Trentin, in partenza per Bruxelles, dove prosegue
la sua attività come parlamentare europeo per i Diesse, era assillato dalle
telefonate d'amici e di giornalisti in cerca d'opinioni. Con 'l'Unità' rievoca
incontri significativi tra lui e l'Avvocato a Torino, a Roma, fatti di discussioni
e rispetto reciproco.
Come quella volta in cui proprio Agnelli ebbe il coraggio di stracciare
un'ipotesi d'accordo separato, per preferire il negoziato con tutte le Confederazioni
sindacali. O quando ancora, in pieno autunno caldo, seppe ritirare i licenziamenti
di rappresaglia per poter proseguire la trattativa sul contratto nazionale
dei metalmeccanici.
Oppure, ancora, quando firmò l'intesa sul punto unico di contingenza (la
scala mobile dell'epoca) concordata in un primo tempo con Pierre Carniti
e poi passata sotto il nome di Patto Lama-Agnelli. Un imprenditore, insomma,
che scommetteva sul dialogo. La sua scomparsa, ora, rende ancora più incerte
le prospettive per le sorti dell'industria automobilistica italiana.

Che cosa ha rappresentato Gianni Agnelli per il Paese' Solo il capo di quella
che è stata, senza dubbio, per anni la più grande impresa italiana'

«Scompare con lui una figura di grande rilievo che guardava al di là degli
interessi immediati del gruppo che rappresentava. Ci sono stati dei momenti,
delle occasioni, in cui lui ha ragionato come un uomo politico nazionale,
più che come il capo della Fiat».
C'è qualche particolare episodio che può far risaltare questo ruolo politico,
non corporativo'

«Ricordo bene il suo intervento nel 1963. Eravamo di fronte all'accordo
separato, propugnato dalla Uil e dal Sida con il management Fiat. Allora
emerse la sua capacità di stracciare quella intesa separata e di far riprendere
un confronto con tutte le Confederazioni sindacali».

Un atteggiamento responsabile, capovolto dagli orientamenti cari all'attuale
gruppo dirigente della Confindustria. Ci fu anche, se ben ricordo, una presa
di posizione importante di Agnelli nel corso dell'autunno caldo'

«Sì. Eravamo nel 1969. I licenziamenti alla Fiat avevano portato al blocco
delle trattative per il contratto nazionale. L'avvocato Agnelli venne a
Roma e cercò di rendersi conto dei motivi che avevano spinto i sindacati
a bloccare la trattativa, fino al punto di sconfessare i dirigenti che avevano
licenziato i lavoratori e consentire, quindi, la ripresa dei colloqui per
il contratto nazionale».

C'è da rievocare anche l'accordo del 1975 sulla scala mobile, passato alla
storia come l'accordo Lama-Agnelli'

«Un accordo che, a dire il vero, era, in realtà, un patto Carniti-Agnelli.
Lama, giustamente lo accettò, per ragioni unitarie. Era un'intesa, secondo
me, piena d'elementi negativi relativi al punto unico di contingenza. Anche
in quel caso, però, quello che spingeva Agnelli, allora presidente della
Confindustria, era la scommessa su un dialogo e un confronto con le grandi
Confederazioni sindacali».

Ora la situazione per la Fiat, per le sue ancora oscure e drammatiche prospettive,
diventa ancora più incerta' L'Avvocato, in qualche modo aveva una passione
per la vocazione industriale dell'azienda, era un appassionato dell'auto'

«E' così. Le prospettive, oggi, certamente sono più buie».

Molti in queste ore di commemorazioni parlano della sua scomparsa come il
segno di un'epoca, l'epoca fordista, che si conclude. E' davvero così'

«E' dall'Ottanta che il fordismo, anche se, purtroppo, non il taylorismo,
è finito alla Fiat. L'azienda ha saputo, ad un certo momento, puntare sulle
nuove tecnologie. Poi una gestione orientata ad obiettivi prevalentemente
finanziari ha fatto accumulare i ritardi nell'adattamento della Fiat alle
nuove situazioni. C'è stata una regressione sul piano della ricerca, dell'innovazione.
E' stato il prezzo pagato dalla diversificazione finanziaria degli interessi
Fiat».

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