DA - IL MESSAGGERO - L'INTERVISTA - 17 GENN.2003

Follini: no all'alibi Cofferati, serve il dialogo
«Il potere di scioglimento delle Camere resti anche al Quirinale. Ma il campo è aperto»
di CARLO FUSI

ROMA '
Marco Follini, segretario dell'Udc non cambia opinione. «C'è chi
dice: è arrivato Cofferati, sparisce la possibilità di fare la riforma a
più mani. Io rovescio il ragionamento e dico: a maggior ragione dobbiamo
insistere nel dialogo istituzionale. Per non diventare Mongolia».

Ma come si fa ad insistere nel dialogo con chi non vuole dialogare' Oppure la vostra è una posizione strumentale, volta a dividere ancor più l'Ulivo '


«La divisione del centro-sinistra appartiene a loro, noi non abbiamo il
compito nè di unirli nè di dividerli ancora di più. Io dico e ripeto che
le riforme che si fanno assieme durano per qualche generazione; le riforme
che si fanno da soli, magari gli uni contro gli altri, rischiano di durare
lo spazio di un mattino. E poichè ritengo le riforme un passaggio decisivo,
che ci porta a chiudere la transizione dopo indugi durati troppi anni, oggi
un tentativo va fatto».

Insomma lei dice: Cofferati non diventi l'alibi per chi non vuole fare nulla, il totem dell'impossibilità '

«Non dobbiamo assoggettarci anche noi a Gengis Khan».

Tuttavia Cofferati continua a bombardare il quartier generale diessino.
Che non a caso parla di delegittimazione...

«Quello di Cofferati è una sorta di richiamo della foresta per la sinistra;
usa nei confronti dello stato maggiore del centro-sinistra molte di quelle
parole d'ordine con cui una decina di anni fa la sinistra oggi riformista
è andata all'attacco dei partiti di centro. Sono convinto che in Italia
esiste un problema storico, di reciproca legittimazione tra avversari politici.
Troppe volte ci siamo abituati a trasformare i nostri avversari in nemici
e poi magari i demoni. Ed è paradossale che questo problema si sia aggravato
oggi che non c'è più un confine ideologico che separa le forze politiche.
Togliere il filo spinato che resta ancora tra i partiti e riconoscere che
l'avversario non è una minaccia all'ordinamento democratico è un passaggio
decisivo. Le riforme si devono fare per rimuovere questo macigno. Ridurre
la politica ad uno scontro tra fazioni non conviene a nessuno e direi che
meno di tutti conviene alla maggioranza, che pure è la fazione più grande».


Segretario, ma quale riforme vuol fare la maggioranza' L'Ulivo una serie
di proposte le ha messe nero su bianco; delle vostre non c'è ancora traccia.
Buffo no '

«Di cose in queste settimane ne abbiamo dette tante. E' stato detto da Berlusconi
che avremmo cercato di farle assieme all'opposizione; ed è stato detto da
Fini, che pure è la bandiera storica del presidenzialismo, che si poteva
aprire la strada del premierato. Due punti che condivido entrambi. Conservare
un capo dello Stato di garanzia è un elemento di equilibrio del sistema,
tanto più necessario quanto più resta aperto il problema della reciproca
legittimazione. Ridurre al minimo le tendenze plebiscitarie credo sia saggio,
e dopo aver visto il confronto che si è sviluppato a sinistra su questi
argomenti dico: è ancora più saggio».

Col potere di scioglimento delle Camere in mano al premier o no'

«Penso che sia più opportuno mettere in comune quel potere e non considerarlo
l'arbitrio di una sola persona. Però non penso che nessuno debba considerare
questi argomenti alla stregua dell'undicesimo comandamento. Quindi il campo
è aperto».

La Consulta ha dato via libera al referendum sull'articolo 18..

«Ha ragione Bertinotti. Se l'articolo 18 è quella bandiera di civiltà minacciata
dal governo dei padroni che ha descritto Cofferati non si vede perché non
sia più tale sotto la soglia dei 15 dipendenti. La difesa del posto di lavoro
dagli arbitri padronali è un punto fermo anche per noi, ma su questo si
è poi montata una campagna che oggi impriogiona anche quella parte del centro-sinistra
che giudica insensato il referendum».

E la maggioranza si è votata da sola la Commissione d'indagine su Tangentopoli...


«Indagare su Tangentopoli è doveroso. Un'indagine parlamentare, però, non
può processare i giudici nè può interferire su processi in corso. Chi immagina
il contrario lavora per erigere a Borrelli la statua a cavallo senza rendersene
conto».
DA - IL MANIFESTO - L'INTERVISTA - 18 GENN.2003

«Metodo e merito sbagliati»

Cesare Damiano, segreteria Ds, contro il referendum estensivo dei diritti:
«Piuttosto una legge»

LORIS CAMPETTI
ROMA

«Le lotte sociali e l'iniziativa politica del centrosinistra hanno costretto
Berlusconi a fare marcia indietro, e dimostrato la giustezza di una battaglia
per difendere i diritti dei lavoratori come strumento di modernizzazione
del paese. Adesso la via da seguire non è quella di un referendum che estenda
automaticamente l'articolo 18 alle imprese sotto i 16 dipendenti». E' Cesare
Damiano, responsabile lavoro nella segreteria dei Democratici di sinistra,
che parla. Da quel che ci dice in questa intervista, Damiano non solo eslude
che il referendum possa diventare un'opportunità per tutta la sinistra per
riprendere la battaglia per i diritti dello scorso anno, una battaglia che
ha riempito piazze e cuori. Più che un errore politico, il dirigente diessino
valuta il referendum una specie di sciagura. Riconosce che i rapporti e
l'organizzazione del lavoro sono profondamente modificati in questi anni,
così come ammette che la frantumazione del lavoro ha enormenete ampliato
i diversi livelli di tutele, in poche parole lavoratori di serie A e lavoratori
di serie B (questa aggiunta è nostra, così come nostra è la considerazione
che alla frantumazione del lavoro, alla sua precarizzazione, hanno contribuito
le politiche dell'Ulivo nei cinque anni di governo del centrosinistra).
Ma il referendum no e poi no, insiste Damiano, una legge invece. Cerchiamo
di capirne i contenuti.

Il metodo referendario per affrontare il tema dell'estensione dei diritti
ai lavoratori di aziende con meno di 15 dipendenti non piace all'Ulivo e
non piace alla maggioranza dei Ds. Ma prima parliamo del merito: è giusto
o è sbagliato il merito del referendum '

I contenuti del quesito referendario sono estremamente chiari: si chiede
l'estensione automatica dell'articolo 18. Affrontare l'ordine dei problemi
legati alle modifiche intervenute nei rapporti di lavoro con un sì o un
no è una scorciatoia, un'operazione di semplificazione che rischia di essere
controproducente e rompere il movimento che si è battuto per i diritti.
Per questo l'Ulivo ha scelto una strada diversa, una via legislativa. La
modifica del mercato del lavoro, anche grazie alle leggi dell'Ulivo, ha
introdotto modifiche forti delle tutele dei diritti di chi lavora. Le differenze
sono legate alle dimensioni dell'impresa e alla tipologia dei rapporti di
lavoro, in particolare con l'estendersi di quelli discontinui. Le differenze
riguardano molti livelli di tutele, dagli ammortizzatori sociali, ai licenziamenti,
ai diritti di maternità. Dunque, noi pensiamo che si debba individuare una
rete di diritti universali, soprattutto per intervenire a favore dei lavoratori
discontinui o precari. Non si può non convenire sul fatto che questo referendum
tende a semplificare e appiattire, invece di prevedere interventi graduati.
E' vero o no che non è comparabile il lavoratore della Fiat con quello di
un'azienda che abbia un solo dipendente'

Dunque, solo il primo va tutelato dagli arbitri del padrone e dalla deregulation
del mercato del lavoro' E se non pensate questo, come intendete muovervi
sul terreno legislativo per tutelarlo '

Come Ulivo ci ispiriamo alla Carta dei diritti (vedi l'articolo in questa
pagina, ndr) e ai Diritti di sicurezza sociale: estensione della cassa integrazione,
principio della totalizzazione dei contributi pensionistici, contributi
figurativi quando non lavori. Abbiamo in mente una riforma del processo
del lavoro con l'obiettivo di accelerarlo e rendere fruibile, per fare un
esempio, il reintegro nel posto di lavoro.

Ma tutto questo non mi sembra risponda al quesito referendario. E vorrei
ricordare che l'attacco all'articolo 18 non è stato derubricato, è ancora
nel cassetto di Berlusconi.

Ma neppure puoi negare che c'è stato un arretramento di Berlusconi sull'articolo
18, e io temo che il referendum estensivo farebbe invece arretrare la battaglia
per i diritti che ha sortito buoni risultati. Cerchiamo di intenderci: intorno
ai diritti dovremmo costruire un fronte il più ampio possibile, con i lavoratori
dipendenti, gli autonomi, le piccole imprese. Una schieramento vittorioso
come quello che abbiamo messo in campo contro i referendum dei radicali
sui temi del lavoro. Con questo referendum, invece, si spacca il nostro
fronte. Per questo pensiamo di procedere per via legislativa per estendere
le tutele, ma nel rispetto delle specificità d'impresa.

Si fa presto a dire specificità d'impresa. Oggi un'azienda può terziarizzare
servizi e pezzi di ciclo produttivo frantumandolo in X società con meno
di 15 dipendenti e così dribblare lo Statuto dei lavoratori.

Conosciamo le modifiche intervenute nel mercato del lavoro, che hanno incorporato
la flessibilità come modalità d'impresa. E' un fatto. Ma questo non vuol
dire che la flessibilità debba produrre precarizzazione, noi lavoriamo,
al contrario, per la stabilizzazione.

Credi davvero che con i rapporti di forza parlamentari dati sia pensabile
l'approvazione di una legge che estenda i diritti del lavoro'

Come Ulivo pensiamo che sia giusto avere una carta, un testo su cui batterci
per l'estensione dei diritti. So bene quali sono i rapporti di forza, dovrebbero
saperlo anche i promotori del referendum che rischiano di portarci alla
sconfitta.

Morale, i Ds si schiereranno per il No' Si asterranno'

Ripeto: percorriamo una strada diversa. Se si dovesse arrivare al voto,
discuteremo e prenderemo una decisione.


DA - IL CORRIERE DELLA SERA - INTERVISTA 18 GENN. 2003
CONFINDUSTRIA


Guidi: il vero problema

ROMA - «Qua si scherza col fuoco. Altro che referendum sull'articolo 18.
Sta per esplodere la mina dei contratti. E il tutto rischia di diventare
una miscela destinata a rendere irreversibile il declino del Paese».
Guidalberto
Guidi,
consigliere incaricato di Confindustria per le relazioni sindacali,
è appena sbarcato da Zagabria. E il suo consiglio, esteso a tutti - sindacalisti,
politici, economisti e anche molti industriali - è di fare «un salto in
Croazia per toccare con mano cosa sta accadendo».
Vale a dire'

«Che c'è la fila di imprenditori che stanno cercando accordi per delocalizzare
la produzione in Croazia. Si sta ripetendo quanto accaduto a Timisoara dove
gli italiani hanno creato oltre ottomila aziende. E' difficile resistere:
in Romania un'ora di manodopera in un'azienda metalmeccanica costa meno
di un euro, in Emilia Romagna ne vale 17».

Suona quasi come una minaccia...

«Le aziende italiane stanno creando in giro per il mondo centinaia di migliaia
di posti di lavoro. Io non do mai suggerimenti al sindacato, che rispetto
molto, ma credo che questo sia un problema concreto che va affrontato».


Articolo 18. La rifarebbe questa battaglia'

«Depurata da tutte le passioni, la questione essenziale è: sostituire il
reintegro per giusta causa con un risarcimento economico. E' così in tutti
i Paesi occidentali a parte Portogallo e Austria. Per evitare il vincolo
del reintegro, l'economia sommersa in Italia fattura il 30% del Pil. Chi
ha promosso il referendum, evidentemente, punta ad alzare la soglia al 50%».


Vittorio Merloni ha detto che l'articolo 18 è stato un autogol per la Confindustria...


«Merloni ha ragione quando dice che non è la madre di tutti i problemi.
E' stato sbagliato, da parte di tutti, farne una bandiera. E' solo un tassello
nel rinnovamento del nostro Paese».

Ma come se ne viene fuori ora

«Non c'è che una via: sedersi di nuovo intorno a un tavolo per rispondere
a una domanda cruciale. Perché le nostre imprese non crescono. Vogliamo
dire che è anche colpa nostra, che le imprese familiari non vogliono perdere
fette di potere' Io sono pronto a riconoscerlo, ma altrettanto deve fare
il sindacato. Dal 1970 stiamo perdendo competitività. Faccio l'esempio della
mia azienda, la Ducati. Oggi è un gioiello, ma con 500 dipendenti. Nel dopoguerra
ne aveva 12 mila».

Da lunedì parte il confronto sui contratti...

«Questo è un capitolo, per noi, ancora più importante dell'articolo 18.
Se non stiamo nei paletti della politica dei redditi e dell'accordo del
1993, il declino sarà inesorabile. I sindacati devono rendersi conto che
con l'euro non è più possibile scaricare sui prezzi le nostre inefficienze.
E noi non possiamo toccare i listini. Al tavolo delle trattative, insieme
alle parti sociali, d'ora in poi ci sarà anche il mercato».

Ma come fa una famiglia a vivere con mille euro al mese'

«L'accordo del luglio '93 prevede il recupero della differenza tra l'inflazione
programmata e quella reale. I salari saranno adeguati e in quella cifra
sarà compresa anche la famosa zucchina salita del 50%. Ma le proposte fatte
dai sindacati sono assolutamente fuori dalla realtà. Significa che non vogliono
chiudere la trattativa».

Vuol dire che sono irricevibili'

«Il nostro stile è di ricevere tutti. Ma poi bisogna essere concreti. Senza
pensare a cosa può succedere sui mercati con un dollaro in discesa. Ripeto.
Si sta scherzando col fuoco».

DA - L'UNITA' - INTERVISTA - 18 GENN. 2003

Giustizia, un anno passato inultilmente

Onorevole Finocchiaro come valuta la relazione del pg della Cassazione Favara
sullo stato della giustizia italiana'

«Molto interessante e positiva. Vorrei sottolinearne alcuni dati. In primo
luogo, il giudizio articolato sull'efficienza della magistratura premia
gli anni di governo del centrosinistra: per la terza volta i Procuratori
generali sottolineano che le nostre riforme strutturali conducono a una
valutazione 'ottimistica' dell'andamento del processo civile».

Quello penale va un po' meno spedito.

«C'è una convergenza della diagnosi e della cura con quello che noi diciamo
da tempo: tutelare le garanzie ma anche garantire la ragionevole durata
e l'efficacia. Cioè, il punto di scontro con il centrodestra. Come rileva
Favara, l'efficienza dei procedimenti non giova solo alla competitività
del Paese: è la base dell'autorevolezza e della credibilità dei giudici,
nonché del soddisfacimento dei diritti dei cittadini. Favara lavora sulle
analisi statistiche di tutto il Paese, ha una visione compiuta: mi conforta
che confermi i contenuti del nostro programma sulla giustizia presentato
un anno fa».

Accettare le regole processuali, evitare formalismi e tattiche dilatorie,
coniugare efficienza e garanzie: era già tutto nella relazione del 2002.
Non è cambiato niente'

«Un anno è trascorso inutilmente, dedicato a leggi che nulla hanno a che
fare con l'efficacia generale. L'azione della CdL segue due assi direttrici.
Da un lato, appesantire il procedimento con bizantinismi per renderlo indefinitamente
lungo. Dall'altro lato, un pregiudizio nei confronti della giurisdizione.
Rispetto al 2002 vedo che le cose si reiterano, più la preoccupazione nei
giudici per una riforma che va in direzione opposta alle loro indicazioni».


L'anno scorso si ringraziava Ciampi per aver richiamato l'indipendenza della
magistratura come valore costituzionale. Ora si ammonisce contro riforme
che mettano a rischio quest'indipendenza. Come sono, un anno dopo, i rapporti
fra giudici ed esecutivo'

«Ulteriormente peggiorati. Come del resto i rapporti del governo con gli
avvocati. E ora c'è grande preoccupazione per lo schema di riforma dell'ordinamento
giudiziario che è al Senato (il ddl Castelli, ndr). Mi colpisce che Favara
abbia sviluppato accanto al richiamo alla difesa dell'autonomia dei magistrati,
anche quello forte alla loro laboriosità, impegno, professionalità. La nostra
proposta unisce proprio i due profili: il no alla separazione delle carriere
più un'efficace formazione e una valutazione meritocratica. Favara ha a
cuore i principi costituzionali ma anche la credibilità del sistema, su
cui bisogna investire. La sua è una posizione molto equilibrata».

Il documento contiene due giudizi negativi: uno sul limite alle dichiarazioni
dei pentiti e uno che viene ricondotto al ddl Pitelli.

«Quanto al limite per i collaboratori di giustizia, noi abbiamo più volte
insistito con il governo perché emanasse il provvedimento di proroga dei
termini. Eravamo tutti convinti che avrebbe reso effettivi i 180 giorni.
Si erano impegnati in molti, dal presidente dell'Antimafia Centaro al sottosegretario
Mantovano. Bene: manca ancora il decreto legge, i termini per Giuffrè sono
scaduti e altri scadranno presto».

Quanto invece al dilagare delle impugnazioni in Cassazione'

«Favara è stato molto puntuale: 'guardate, non è possibile che tutto finisca
là'. Il testo Pittelli mira a rendere imprevedibile la durata dei processi
consentendo a una difesa organizzata che non si giunga mai a sentenza. Così
rende impugnabili davanti alla Suprema Corte una serie di atti procesusali,
compresa la lista di ammissione dei testi. Noi invece proponiamo che un
principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite diventi vincolante, disincentivando
i ricorsi. Ma Favara, quando parla di 'depenalizzazione misurata', si riferisce
anche alla necessità di deflazionare quel Moloch che è il sistema penale.
È in linea con la nostra proposta di un diritto penale minimo in funzione
sussidiaria».

C'è «grande attesa» per la decisione sull'indulto, ma c'è anche l'esigenza
di costruire nuove carceri e assumere educatori. Queste osservazioni influenzeranno il Parlamento'

«Lo spero. Noi sosteniamo l'indulto non come fine ma come precondizione
per politiche che restituiscano dignità ai detenuti, come rieducazione e
pene alternative. Chiediamo più educatori e assistenti sociali (oggi ce
ne sono 1800 per 56mila detenuti) e un fondo per le politiche di risocializazione».

Come incide la relazione sulle linee dell'agenda giustizia dei Ds per il
2003'

«Le rafforza. conferma che la direzione presa e il lavoro già svolto partivano
da un'analisi corretta. C'è ancora molto da fare, ma abbiamo depositato
proposte serie. La differenza è che il centrodestra presegue obiettivi parziali
e privatistici, mentre per noi il sistema o gira tutto o non gira per niente.
E la chiave di accensione può essere solo l'interesse generale».
DA - IL CORRIERE DELLA SERA - L'INTERVISTA - 20 GENN. 2003


LO STORICO / Isnenghi: il fenomeno nato con le rivoluzioni di metà Ottocento.
Ma oggi il rapporto di legittimazione è più labile
«Da Manin a Pertini, così la piazza sceglieva i leader. Ora tocca a Bossi
e Moretti»


MILANO - Pochi giorni fa, a Firenze, durante una "manifestazione di piazza",
Nanni Moretti aveva invitato Sergio Cofferati ad assumere la guida della
sinistra italiana; ieri, intervistato dal Corriere , Massimo d'Alema ha
dichiarato: «Il partito è un'associazione volontaria. Non lo si può aggredire
dall'esterno, incoronandone i leader sulle piazze o nei sondaggi. Questo
è un metodo di destra, l'esatto contrario della nostra concezione della
democrazia». La frase di D'Alema pone un interrogativo: è proprio vero che
l'incoronazione dei leader in piazza appartenga solo al passato della destra'
O invece la storia del rapporto fra piazza e politica in Italia è più complessa
e articolata' Mario Isnenghi, ordinario di Storia contemporanea a Ca' Foscari
e autore nel 1994 del saggio L'Italia in piazza (Mondadori), ricorda che
il fenomeno nacque in situazioni di rinnovamento radicale: «Sono le rivoluzioni
di Milano e Venezia (1848) a esprimere questo soggetto collettivo: a differenza
di Cattaneo a Milano, la leadership Daniele Manin nasce con la piazza. Egli
diventa prima il capo degli insorti e poi presidente della Repubblica di
San Marco saltando su un tavolino del Caffè Florian. Non c'è piazza senza
Manin, non c'è Manin senza piazza».


Per una figura risorgimentale è difficile parlare di destra e sinistra in
termini moderni, anche se l'«incoronazione» di Manin è un fatto rivoluzionario,
di sinistra diremmo oggi, rispetto alla dominazione austroungarica. Nella
storia unitaria, però, la piazza s'impone con la sinistra politica...


«Certo, alla fine del secolo, l'anarco-socialismo, il sindacato e infine
il partito socialista riempiono le piazze. Il Primo Maggio è giorno di festa
e di lotta che si manifesta tramite la presa simbolica della piazza, dove
prendono la parola i leader espressi dalle istituzioni della sinistra nascente.
Per il capo, tuttavia, il discorso è anche un rischio, un'avventura di fronte
a folle che non accettano di essere solo uditorio. Per Bissolati e Turati,
per i primi leader socialisti la piazza è una pratica collettiva, anche
per contarsi».


A fine secolo, dunque, i capi della sinistra verificano in piazza la loro
forza, dato che le masse non danno deleghe in bianco. Come ha risposto la
borghesia'


«E' Alfredo Rocco, capo nazionalista e futuro ministro di Mussolini, a spiegare
ai suoi riluttanti lettori che la piazza va sottomessa e strappata alla
sinistra. Si apre un nuovo capitolo nella conquista di quello spazio, che
culmina con l'interventismo; e il carisma politico di Gabriele D'Annunzio
nasce proprio in piazza, con i suoi discorsi dello scoglio di Quarto e di
Roma».


Il Vate, dunque, aveva prestigio culturale ma la sua aureola di leader,
capace di guidare una spedizione militare a Fiume, si forma in piazza. E'
la premessa di quanto avverrà con Mussolini'


«Sì, ma con una differenza: il duce non nasce in piazza, ma verrà continuamente
rilegittimato da una piazza "domata", dove masse gigantesche convergono
in modo organizzato. L'adunata è la ratifica del potere attraverso la cerimonia
di gruppo».


Con le dovute differenze, quelli di D'Annunzio e Mussolini sono casi di
legittimazione da parte della piazza: la prima spontanea, la seconda predisposta.
Che cosa cambia con il ritorno della democrazia'


«La sinistra torna nelle piazze, ma in genere i capi non misurano più il
loro prestigio con l'uditorio. Togliatti è tutt'altro che tribunizio, anche
perché il Pci, nato nel 1921, non fece in tempo ad avere una storia di piazza.
L'attitudine a misurarsi con la folla per verificare la propria forza è
più viva nei socialisti, in Pertini o Nenni».


Le piazze italiane si riempiono ancora nel '68 e negli anni seguenti, ma
incoronano solo leader effimeri. E negli anni '90, si dice che la piazza
muore con la fine dei partiti...


«Oggi il rapporto di legittimazione fra leader e piazza appare più labile.
Le manifestazioni del Polo e dell'Ulivo sono passerelle di leader consolidati.
La piazza di Berlusconi, poi, è mediatica. Ma ci sono altri sintomi: per
esempio Bossi, buon erede dei leader di piazza della vecchia sinistra, la
cui rozzezza e semplicità sono funzionali alla folla, alla quale ricorre
quando ha bisogno di sentirsi legittimato per prendere un'iniziativa. E
cosa dire di Moretti' Come leader politico, il regista è stato battezzato
proprio dalla piazza, grazie a un gesto indotto dalla situazione, magari
forzando la sua stessa natura. Il caso Bossi e il caso Moretti non combaciano
con la storia recente della piazza».
Sta di fatto che, dal Risorgimento ai giorni nostri, il rapporto di legittimazione
fra capi politici e piazza ha preso varie forme, avuto vario peso e attraversato
tutti gli schieramenti dalla sinistra alla destra: e trova ancora linfa,
anche se la tv avrebbe dovuto sciogliere l'uditorio.

DA - IL CORRIERE DELLA SERA - INTERVISTA : 20 GENN. 2003

«Basta con la D'Eusanio. Costanzo' In Rai non c'è posto»

L'INTERVISTA / «Sgarbi al dopo Festival' Il Consiglio di amministrazione
non può leggerlo sui giornali. E poi c'è una regola sui politici in tv che
vale anche per lui»


Albertoni, consigliere di area leghista: approvato il piano, a Raitre mezz'ora
in più al giorno sulle regioni e un tg culturale

ROMA - Il Cda Rai ha approvato il nuovo progetto culturale. Di cosa si tratta,
consigliere Ettore Adalberto Albertoni'

«E' un indirizzo dettagliato sul ruolo del servizio pubblico, la qualità
della programmazione (che subirà una autentica rivoluzione) e il rispetto
di un reale pluralismo. Metodo che deve tenere conto di una novità. Da una
parte c'è l'Europa che vulnera la dimensione nazionale: niente frontiere
né moneta locale. Dall'altro c'è il Titolo V, seconda parte, della Costituzione
che ora prevede i quattro livelli di potere: Stato, Regione, Provincia,
Comune. Il documento è stato distribuito ai 150 top manager. Ne discuteremo
insieme il 4 febbraio. Ma il dibattito si allargherà all'esterno e all'interno
dell'azienda».


Quindi dobbiamo immaginare una Rai che si federalizza'


«Esatto. Proprio nel rispetto della mozione che presentai in Consiglio il
16 aprile e che parlava di una Rai federalista. E le novità saranno molte
e ben visibili».


Per esempio'


«La mezz'ora al giorno in più che Raitre dedicherà alle regioni. E' un emendamento
al contratto di servizio della commissione di Vigilanza che volentieri abbiamo
approvato. La politica in questo caso è un passo avanti rispetto alla Rai:
capita. E poi c'è il Tg culture, arti e spettacoli. Un appuntamento sul
nostro grande patrimonio culturale: occuparsene è prima di tutto un dovere
morale e di conoscenza. L'abbiamo progettato con Luigi Zanda. Mi dispiace
anzi che sia andato via. Ora diventerà realtà e sarà incastonato nella TgR
: 15 minuti al giorno dal lunedì al venerdì verosimilmente alle 18.45 su
Raitre, un magazine domenicale di 45 minuti. Redazione centrale a Milano,
nucleo operativo a Firenze per i beni culturali, snodo istituzionale col
ministero a Roma, forte redazione a Palermo per Sud e area mediterranea».



Lei dice che il nuovo indirizzo «informerà» tutta la programmazione. Compreso
l'intrattenimento'


«Direi in particolare. Ma ci vorrà un grosso sforzo. Questa azienda, per
costume o malinteso senso delle autonomie, stenta a tradurre operativamente
gli indirizzi che provengono dal Cda».


Faccia un esempio concreto.


«Il Consiglio non può leggere sui giornali che un direttore di rete come
Fabrizio del Noce o un conduttore come Pippo Baudo buttano lì la proposta
di affidare al deputato Vittorio Sgarbi la conduzione del dopo-festival
di Sanremo senza nemmeno consultare i vertici. Il Cda deve applicare alcune
deliberazioni, anche precedenti a questa gestione, che disciplinano negativamente
l'uso dei politici nei programmi. Massima stima per Sgarbi storico dell'arte
ma c'è un metodo che vale per tutti. Nessuno escluso. Tutti liberi di ideare.
Ma le verifiche aziendali sono doverose. E si fanno prima di decidere».



Magari avrà in mente altri casi...


«Penso all'affare Lewinsky, di cui nessuno in Cda sapeva alcunché, così
come il direttore generale. E penso al caso Costanzo, il quale fa sapere
di aver avuto contatti con la Rai. Ma la Rai non è un taxi che si prende
o si lascia quando si vuole. Siamo contrari alla rissa in tv. E proprio
Costanzo ha rivendicato due giorni fa la paternità di quel genere tv. Lui
e la signora Maria De Filippi sono due seri professionisti che, per i loro
prodotti, appartengono sicuramente alla concorrenza. La Rai non ne ha bisogno».



Il documento culturale si occupa dunque di qualità. Antonio Socci ha dedicato
al problema una puntata e in quel contesto Alda D'Eusanio si è autodefinita
la Bin Laden della tv italiana: una specie di capro espiatorio delle polemiche,
insomma...


«Socci ha il merito di affrontare con competenza temi scottanti. In quanto
ad Alda D'Eusanio rappresenta in questo momento un modello televisivo non
compatibile col nuovo progetto culturale».


In che senso e perché'


«Fa parte di quella che Aldo Grasso definisce la "tv piagnona". Roba da
cancellare anche per il cattivo gusto di alcune battute e talune situazioni.
Certi personaggi hanno una precisa vocazione televisiva' Vadano sulle tv
commerciali. Il che non vuol dire che professionisti come la stessa D'Eusanio
non possano riuscire in futuro a dedicarsi a progetti diversi. Ma senza
coinvolgere i minori. E senza ricorrere a volgari magliette "personalizzate"».



In che cosa si vedrà questa nuova Rai «etica»'


«Attenzione ai minori, agli anziani, ai disabili, alle minoranze religiose
e linguistiche. E al dibattito culturale nel Paese. La Rai ha grandi potenzialità
professionali. Più vado avanti lavorando qui dentro più le individuo, le
vedo inutilizzate. E più mi arrabbio».


Lei parla come se avesse un grande futuro davanti a sé. Eppure Il Riformista


vi chiama «il Cda Smart». Siete solo in due: il presidente Antonio Baldassarre
e lei...
«Citerò Giolitti che, a chi gli chiedeva un commento su un'importante legge
approvata con soli tre voti di scarto, disse: ce ne sono due di troppo,
in democrazia ne basta uno solo. Io sono un uomo di legge: ho avuto un incarico
che svolgerò fino in fondo, cioè ripensare e aggiornare il ruolo del servizio
pubblico. Ho la legge dalla mia parte, anche la Corte dei Conti lo ha confermato».



Attendete dunque il reintegro'


«Sono questioni che riguardano la politica e non noi, che proseguiamo nel
nostro lavoro. Solo la commissione di Vigilanza con un voto di due terzi
dei suoi membri potrebbe sfiduciarci».


Non pensate dunque a dimettervi'


«L'abbiamo detto altre volte: no».


Baldassarre promette: mai più appalti esterni. E' solo uno slogan'


«No. Sarà realtà. Raitre propone in questi giorni la serie di fiction di
Gilberto Squizzato, interamente prodotte dalla Rai di Milano a bassissimo
costo. Un esempio per tutta l'azienda da parte di un ottimo professionista».



A proposito di Milano: dove sorgerà la nuova sede'


«Proprio domani, lunedì, ci sarà una riunione operativa. E lì esamineremo
nel dettaglio le due proposte: spostamento alla Fiera di Milano o adesione
al progetto della Città della comunicazione a Sesto San Giovanni. Tutte
le sedi Rai sono prossime al 100% delle loro capacità produttive in base
agli impulsi che il Cda ha dato all'intera azienda. Ma per Milano un'ulteriore
espansione è possibile solo risolvendo la questione logistica. E anche un'altra
di natura direi ancora una volta culturale»,


In che senso, consigliere Albertoni'


«Milano sembra aver assorbito in parte la cultura del piagnisteo. Eppure
è la capitale dell'editoria, della moda, della Scala, del Piccolo Teatro.
Non posso accettare che un'edizione della TgR lombarda apra, com'è accaduto
giorni fa, con l'esplosione in una fabbrica di bottoni che ha provocato
lievi feriti. Parliamo di una Lombardia che in termini numerici equivale
al Belgio, all'Austria. Occorre cambiare una mentalità e una cultura aziendale
mettendo il territorio, con tutti i suoi problemi e le sue energie positive,
al centro di un servizio pubblico in cui finalmente riconoscersi».

DA - IL CORRIERE DELLA SERA - INTERVISTA - 20 GENN 2003

Il presidente della Bpm: insieme al Crédit Mutuel pronti a crescere nell'Europa
dell'Est 
«Un patto tra Popolari per Mediobanca»

Mazzotta: puntiamo a una banca d'affari. L'istituto è una risorsa del Paese

MILANO - «La Popolare di Milano non è rimasta single . L'accordo con il
Crédit mutuel è serio, impegnativo, reciproco. E' un'aggregazione in piena
regola, con possibili e importanti sviluppi azionari». Roberto Mazzotta,
presidente della Bpm, è un banchiere di lungo corso. A chi gli fa notare
che, in fondo, il suo istituto sembra rimasto fuori dalle danze che hanno
coinvolto le banche cooperative del Nord, risponde così: «Con una battuta:
ai matrimoni preferisco le convivenze. Purché siano sorrette da seri progetti
industriali». E a proposito di piani strategici, delinea ulteriori alleanze
anche domestiche e un «patto» fra le Popolari, un comune e ambizioso disegno:
«Mediobanca' Potrebbe essere un eccezionale esempio di impegno condiviso:
le principali aggregazioni di banche regionali e interregionali sono in
grado di risolvere molti problemi, ma non di mettere in piedi una struttura
di merchant bank forte. Ebbene, in Italia c'è la straordinaria esperienza
di Mediobanca, con un passato e un assetto di management non riproducibili.
Dovrà dare una risposta su quale lavoro intende fare, e il tema non può
che interessarci».

Sta candidando le Popolari a soci di Mediobanca in caso di riassetto'


«Faccio solo un'ipotesi. Affascinante. Per le banche regionali e interregionali,
radicate nel territorio e che conoscono la clientela delle aziende piccole
e medie, una struttura efficiente ed esperta di merchant banking è fondamentale».



Ma per Piazzetta Cuccia quali sarebbero i vantaggi'


«Senza entrare negli argomenti delicati di cui si occupano ogni giorno le
cronache finanziarie, non è difficile individuare l'acquisizione di due
possibili punti di forza: un forte placing power , e cioè una grande capacità
di collocare prodotti e servizi, e una specializzazione in merchant banking
per la piccola e media impresa, un mestiere difficile e che nessuno, di
fatto, oggi svolge. Con tutte le dovute "muraglie cinesi" e separazioni
varie, sarebbe possibile coniugare la professionalità e l'esperienza di
Mediobanca con le conoscenze storiche dei singoli istituti regionali e interregionali,
ciascuno dei quali ha nell'archivio di relazioni il proprio vero patrimonio.
Sarebbe una razionale e interessante opportunità, per le Popolari e per
il sistema-Italia».


Per le prime è chiaro, ma il sistema cosa c'entra'


«Un processo aggregativo fra istituti "locali" che, pur lasciando autonomia
nel retail, nei servizi al pubblico, porti a progetti comuni nelle attività
ad alto valore aggiunto, mi sembra possa interessare anche al sistema industriale
nel suo complesso. In virtù di alcune riflessioni».


Quali'


«Siamo chiari, soprattutto oggi non si possono perdere di vista tre cose.
Primo: è in corso una rapida deindustrializzazione. Con le grandi imprese
ci stiamo comportando come le persone ricche che buttano via i gioielli
senza avvedersene. Secondo: il cuore imprenditoriale dell'Italia è costituito
da piccole e medie aziende. Non lo dico con entusiasmo, bensì con qualche
rammarico, perché non sono convinto che piccolo sia bello. Anzi. Ma piccolo
è senz'altro meglio di niente. Deve però crescere e ha bisogno più di istituti
"vicini" che di colossi del credito. Terzo: in questo senso si può dire
che le banche regionali e interregionali abbiano oggi un ruolo quasi "storico".
Anche loro però devono crescere, rafforzarsi. Abbiamo già perso, o meglio
ci siamo già giocate le casse di risparmio (e glielo dico con il cuore in
mano, da ex presidente della Cariplo). Cerchiamo di non fare lo stesso con
le Popolari».


Scusi, mi sembra piuttosto che alcuni istituti, come anche la Popolare di
Milano, hanno fatto di tutto in passato per restare fuori dal mercato, per
non essere contendibili.


«La Bpm ha cambiato la governance , con un nuovo statuto e introducendo
il voto di lista. Un tradizionale motivo di "ostilità" nei confronti del
sistema di governo di questa banca sta dunque venendo meno. Inoltre l'istituto
ha un portafoglio crediti equilibrato e coefficienti patrimoniali collocati
nella fascia alta del sistema. E' un'azienda sana, posizionata e radicata
in un'area fra le più ricche. E con il Mutuel conta di fare altri accordi
simili per seguire i mercati dell'Est europeo».


A proposito di alleanze, avete dossier sul tavolo'


«Quelli, per così dire, non mancano mai. Riteniamo che i matrimoni finora
portati a termine rispondano a progetti razionali. Ma Verona-Novara e Bergamo-Comindustria
non hanno certo esaurito le possibilità di unione. Con i presupposti che
le ho illustrato non mi sembra manchino opportunità per chi, come noi, non
ha intenzione di comportarsi da "ombelico del mondo", e cioè da polo aggregante
(espressione priva di significato) procedendo per acquisizioni, ma vuole
crescere insieme ad altri "uguali"».


Insomma: dossier'


«Diciamo che guardiamo con attenzione a Lombardia, Veneto ed Emilia. Inoltre
tramite la controllata Legnano, che è una spa, stiamo dialogando con istituti
collocati nelle aree Nord Milano, Varese e Como per ricreare banche di territorio
attraverso partnership operative».


Ma il progetto di Superpopolare del Nord è definitivamente abbandonato'



«Ora siamo in una fase che al Nord darà vita a tre-quattro nuclei aggregativi.
Poi si vedrà».


Cosa pensa delle megafusioni che hanno cambiato la geografia bancaria italiana'



«Chi ne è felice, vada pure avanti».


Insomma, una freddezza così proprio da lei, che da presidente Cariplo ha
meditato a fondo la «conquista» dell'Imi...


«Ma l'Imi non era un istituto retail , era un patrimonio di intelligenza,
un grande istituto finanziario».


E comunque oggi gli istituti protagonisti delle grandi fusioni guidano un'ampia
azione di sostegno al sistema industriale.


«E' vero. Vorrei però farle notare una cosa. Se un collaboratore mi spiega
che un finanziamento va trasformato in partecipazione, io non lo lodo. Una
banca deve solo prestare quattrini. E recuperarli».
DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA 20 GENN 2003

Non si può aggirare l'Onu, anche in casi estremi"

CITTÀ DEL VATICANO Per 16 anni
mons Renato Martino è stato osservatore della
Santa Sede all'Onu. Nel 1991 era nell'ufficio del segretario generale delle
Nazioni Unite, Perez de Cuellar, quando arrivò la notizia della decisione
di Bush padre di attaccare l'Iraq. Iniziò la guerra del Golfo. «Io ero lì
a New York a cercare di fare qualcosa per impedirla. Ci fu una lettera a
Bush padre ed una a Saddam, poi vari tentativi all'Onu».

Rievoca quei momenti
l'arcivescovo, recentemente chiamato a Roma dal Papa per guidare il Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace. La sua esperienza preziosa è ora
completamente al servizio della pace. E a chi lo dà in partenza per Washington,
latore di un messaggio personale del Papa per Bush j. e per il segretario
dell'Onu, Kofi Annan, risponde: «Non lo escludo. Ma è solamente una possibilità.
Non è un progetto. Se mi dicono di andare vado».

Non è ancora tempo di interventi diplomatici di quel tipo'

«Mi auguro che la guerra non sia così vicina. Preferisco interpretare tutte
le misure militari che si stanno prendendo come un'azione di deterrenza
verso Saddam piuttosto che come la decisione di andare domani alla guerra.
La data del possibile attacco inizia a slittare. Si parla dell'autunno.
E questo può favorire il lavoro degli ispettori dell'Onu che hanno chiesto
tempo supplementare per condurre a termine le loro ispezioni. Fra tutte
queste nuvole ecco uno squarcio di sole che fa sperare».

Ma il presidente Blair e lo stesso Bush mordono il freno, ritengono non
ultimativo un pronunciamento dell'Onu...

«La risoluzione 1441 del Palazzo di Vetro nasce dal "multilateralismo" costruito
dal segretario generale Kofi Annan. È stato un risultato ponderato, raggiunto
con la partecipazione dei membri del Consiglio di sicurezza, specialmente
di quelli "permanenti". E oggi, volenti o no, bisogna attenersi a quella
risoluzione. E in ogni modo, nel caso che tutti gli altri tentativi di negoziato
e di dialogo fallissero, il ricorso estremo alla guerra dovrà essere deciso
sempre dall'Onu e dalla comunità internazionale».

Lei ha fatto cenno al "multilateralismo" di Kofi Annan, ma dall'altra parte
abbiamo l'"unilateralismo" di Bush. Non lo ritiene pericoloso per l'equilibrio
internazionale e per il ruolo dell'Onu'

«Partiamo da un dato. Tutta l'opinione pubblica mondiale si è mobilitata.
In tutti i paesi, anche in quelli i cui governi sono favorevoli all'intervento
armato, si è organizzato un dissenso verso la guerra in Iraq. Questo è un
fatto e mi auguro che i governanti tengano conto del sentimento dei loro
cittadini. Anche questo aiuta la pace. Mi domanda dell'Onu. Le rispondo
con le parole di Paolo VI: "L'Onu è il cammino obbligato della civiltà moderna".
La comunità delle nazioni deve avere un'istanza che possa coagulare il proprio
consenso. Vi possono essere limiti nella sua azione. Giovanni Paolo II nel
suo messaggio per la pace ha auspicato un suo continuo processo di riforme,
ma non ha affermato che servono nuove organizzazioni. Non ha chiesto un
"superstato globale", ma che si possa assicurare l'esercizio dell'autorità
internazionale in un modo più democratico, con la partecipazione di tutti.
Non servono gendarmi globali».

Per garantire la pace, occorre coniugarla con giustizia e sviluppo'

«È il progetto di bene comune internazionale auspicato dal Papa. Se nel
mondo c'è un paese che soffre, che non è sviluppato, tutti gli altri ne
soffrono per riflesso. È interesse dei paesi ricchi e sviluppati favorire
il suo sviluppo».

I sei imperativi (il no alla morte, all'egoismo e alla guerra, i sì alla
vita, al diritto e alla solidarietà) contenuti nel discorso di Giovanni
Paolo II al corpo diplomatico non sono un forte richiamo all'Occidente'

«Ha detto no all'egoismo. In altre occasioni ha parlato di "globalizzazione
della solidarietà". Il mondo occidentale deve rinunciare a qualcosa nei
suoi stili di vita. Le faccio un esempio. Questo è l'anno internazionale
dell'acqua. Il consumo nei paesi industrializzati è di 1.500 litri d'acqua
a persona al giorno. Negli Stati Uniti arriviamo a 2.500 litri. Nel sud
del Sahara non riescono a racimolare neanche 20 litri a persona. E quanti
bambini muoiono per questo. L'acqua è un elemento vitale, se non la si ha,
si muore».

Vi è un nesso tra mancato sviluppo e le minacce alla pace'

«Certo. Per vincere il terrorismo non basta eliminare uno, mille o diecimila
terroristi. Bisogna agire sulle cause politiche, economiche e culturali
che lo determinano. L'Occidente deve farsi un esame di coscienza e pensare
all'effetto delle "promesse non mantenute", cui faceva riferimento il Papa
nel suo messaggio per la Giornata della pace. Quando gli aiuti promessi
ad un paese povero non arrivano, subentra la frustrazione. È anche così
che si fa strada il terrorismo, con giovani per i quali non vi è differenza
tra vivere e morire e che alla fine compiono la scelta aberrante di farsi
saltare per aria, credendo di immolarsi per la propria patria e che questo
sia un atto nobile».

Non è anche effetto dei fondamentalismi religiosi'

«Si tratta anche in questo caso di forme di aberrazione perché il ruolo
delle religioni è pacifico. Lo abbiamo visto con la Giornata di preghiera
ad Assisi. Non si può accusare nessuna religione di fomentare la violenza.
Ma nessuno ha l'esclusiva di queste aberrazioni. Sono presenti sia nel campo
cristiano che in quello musulmano».

Cosa risponde a chi accusa il Papa di pacifismo unilaterale, di essere critico
solo verso l'Occidente'

«Lo invito a leggere con attenzione il discorso del pontefice al corpo diplomatico,
dove chiaramente e in modo assolutamente non parziale si fa riferimento
a tutte le situazioni di conflitto. E a chi gli rimprovera di non aver fatto
niente per Timor Est dico che non esiste affermazione più falsa di questa.
Nel 1989 in piena occupazione del territorio di Timor Est, Giovanni Paolo
II è andato di persona a celebrare una messa proprio per accompagnare il
popolo timorese nel suo difficile cammino verso l'indipendenza e la libertà.
Sono questi i mezzi di cui dispone il Papa. Lo scorso 20 maggio il Papa
ha mandato me a rappresentarlo alla cerimonia dell'indipendenza di Timor
Est, ne sono stato felice e le assicuro che per quella regione la Chiesa
ha fatto moltissimo, ma in silenzio, con discrezione per non pregiudicare
i risultati».

E sul rapporto tra la Chiesa e l'Occidente'

«Non vi può essere alcuna identificazione. La Santa Sede non si identifica
con nessun regime e nessuna forma di governo. È per questo che può sopravvivere
in qualunque forma di regime. Ma sulla difesa della pace la Chiesa è impegnata.
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale per la pace il Papa ha riproposto
l'enciclica Pacem in Terris e ha invitato ad approfondire quel attualissimo
messaggio. Vede per la Chiesa la pace non è un valore qualsiasi, è a fondamento
della nostra religione».

DA - IL MANIFESTO - L'INTERVISTA 21 GENN. 2003

«Stanno seminando la guerra»


Parla K.G. Kannabiram, decano della difesa dei diritti civili e dell'India
plurale
MA.FO.


K. G. Kannabiram è un decano delle battaglie per i diritti civili e la democrazia
in India. Presidente della People's Union for Civil Liberties (Unione popolare
per le libertà civili), il suo impegno è cominciato nel `76, quando la premier
Indira Gandhi aveva sospeso il parlamento e dichiarato lo stato d'Emergenza,
e lui insieme ad altri ha fondato l'Istituto per le libertà civili. Da allora
ha condotto una difesa sistematica delle garanzie democratiche, rompendo
il silenzio su casi di uccisioni extragiudiziarie, accuse di «complotto»
e sovversione, habeas corpus. Ormai 74enne, e reso ancor più fragile dalla
malattia, K. G. Kannabiram due settimane fa era al Social Forum Asiatico,
a Hyderabad, per sostenere che «l'economia globalizzata ha bisogno della
guerra. Erode la sovranità dei governi, ma ha bisogno di stati capaci di
garantire stabilità e sicurezza». Guardate l'India, dice: in nome della
lotta al terrorismo il governo ha emanato leggi speciali di sicurezza interna
che si traducono in un attacco alla democrazia. Ma «Garantire legge e ordine
è un mito: il nostro governo non ha altra strategia che demonizzare il Pakistan
e i musulmani».

Nel maggio scorso, con un gruppo di magistrati e accademici, lei ha percorso
lo stato del Gujarat per indagare sulle violenze interreligiose. Cosa ne
ha concluso'

Gli eventi del Gujarat sono un'illustrazione di cosa potrà succedere a questo
paese. Guardi la successione dei fatti. C'è stato l'incendio del treno,
con 57 morti: nessuno lo nega. Probabilmente sono stati facinorosi musulmani.
Il governo ha proclamato un bandh, la chiusura generale di ogni attività,
e per 72 ore bande riottose hanno avuto mano libera. Quello che ho visto
e sentito in Gujarat mi ha scioccato. Donne sono state violentate, uccise,
pisciate e date alle fiamme. Ho parlato con bambini che hanno visto macellare
i genitori e le sorelle. Gli attaccanti erano folle di decine di migliaia
di persone guidate da attivisti del Vishva Hindu Parishad (Vhp, «Congresso
mondiale hindu») e simili organizzazioni estremiste: hanno distribuito liquore,
denaro e trishul (tridenti, celebrati nella mitologia hindu: ben affilati
sono vere armi improprie, ndr), e hanno dato mano libera. E' deplorevole
che siano stati usati per questo lavoro sporco dalits e adivasi (fuoricasta
e tribali, ndr). I movimenti per i diritti dei dalit fioriti in tutto il
paese dovranno pensarci, anche loro hanno la responsabilità di promuovere
valori laici e combattere il comunalismo. Il punto è che l'incendio di Godhra
è stato solo un pretesto: se anche non fosse successo, il seguito era già
pronto. I preparativi erano cominciati molto prima. Reazione spontanea'
Non c'è nulla di spontaneo in ciò che ho descritto.

Perché dice che tutto questo illustra cosa succederà in India'

E' quello che loro dicono: il Vhp, il Bjp (Partito Nazionale Indiano, al
governo centrale e anche in Gujarat) che in dicembre ha raccolto una vittoria
elettorale clamorosa. Il chief minister Narendra Modi aveva dichiarato che
«il Gujarat è un laboratorio» della politica della hindutva. Ora dice che
l'esperimento è riuscito e vogliono esportarlo. Dicono che ogni stato produrrà
il suo Narendra Modi. La nostra inchiesta prova che questo Modi è un criminale
e andrebbe condannato all'ergastolo. Ha lanciato il messaggio che uccidere
i musulmani è accettabile. Il fatto che sia stato rieletto con grande maggioranza
è sconcertante. Ha usato a proprio favore il voto di scambio: la gente vota
per il politico che può dare vantaggi materiali alla propria comunità, non
su discorsi di filosofia hindu o altro - del resto questi difensori della
hindutva di filosofia hindu sanno ben poco: usano l'hinduismo volgarizzandolo.
Pretendono di dare un'unità e omogeneità alla società hindu, che invece
è plurale e complicata da strutture gerarchiche di caste e sottocaste: non
è mai stata una società unitaria. Omogeneizzare gli hindu significa imporre
il dominio delle caste alte, i brahmini, ed è quello che stanno facendo.
Stanno seminando guerra. Purtroppo non vedo forze organizzate capaci di
contrare politicamente questo progetto.

Non saranno i grandi partiti laici come il Congress e i partiti di sinistra'
O i grandi movimenti popolari'

I partiti laici sono screditati. Nessuno ha cercato di ridefinire la laicità.
Nessuno ha spiegato ciò che diceva Marx, che la religione è la speranza
del disperato. Solo la pressione dell'insicurezza sociale, del lavoro, la
sopravvivenza spiega la straordinaria preminenza della religione in questo
paese. E la religione è usata in modo politico. Centinaia di «sant'uomini»
e predicatori - e sante donne: ce ne sono molte, capaci di tenere discorsi
infiammatori - fondano società benefiche, raccolgono offerte, diffondono
il revanscismo hindu... I partiti laici non hanno l'accortezza di contrastare
questa deriva. Spero molto nell'energia di un movimento nuovo, che vada
oltre il modo tradizionale di fare politica. Una forza propositiva, pienamente
democratica, capace di raccogliere forze diverse nella battaglia contro
il comunalismo e la globalizzazione, contro le discriminazioni dei dalits,
per la difesa della democrazia dalle leggi speciali. E queste forze stanno
emergendo. Sono ottimista.

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DA - L'UNITA' INTERVISTA - 21 GENN. 2003

Il candidato laburista:
«Io fermerò il declino di Israele»

GERUSALEMME Non si arrende,
Amram Mitzna. Ed anzi moltiplica il suo impegno
in quest'ultima, decisiva, settimana di campagna elettorale, e risponde
così agli esponenti del suo partito che, sulla scia di recenti sondaggi,
hanno auspicato una sostituzione «in corsa» con il più accreditato, dai
sondaggi, Shimon Peres. Ed è seguendo, e a volte «inseguendo», il leader
laburista per alcuni giorni nel suo intenso tour elettorale, dal Nord al
Sud di Israele, che abbiamo costruito questo colloquio «itinerante».
«Questa campagna elettorale - dice Mitzna - ha rafforzato le mie convinzioni
sulla necessità di una svolta profonda nella guida di Israele. Il rischio
è il declino del Paese, la sua implosione sociale; il rischio è accettare
l'ineluttabilità della guerra, è abbandonare la speranza di vivere un giorno
in un Paese normale. Non si tratta di vendere illusioni ma di prospettare
soluzioni praticabili sulla pace come per una ripresa dell'economia e dell'occupazione.
È il mio impegno che, ne sono convinto, darà i suoi frutti». Mitzna ringrazia
gli intellettuali italiani che hanno promosso un appello a sostegno del
suo programma e censura il «modo sprezzante» con cui il primo ministro Ariel
Sharon ha liquidato l'Europa: «Non si può - osserva il leader laburista
- chiedere di essere associati all'Ue, godendone dei benefici economici,
e al tempo stesso immiserire il contributo che l'Europa può dare al rilancio
del negoziato sulla base di quel "tracciato di pace" messo a punto dal "Quartetto"
(Usa, Ue, Onu, Russia, ndr.) e che Sharon ha liquidato in modo sprezzante
e ingiustificabile».

Ad una settimana dal voto, si sente già sconfitto?

«Per niente. C'è ancora una parte significativa dell'elettorato, oltre il
20% indicano i sondaggi, che non ha ancora deciso. Dobbiamo moltiplicare
i nostri sforzi per convincerli della giustezza delle nostre proposte. Possiamo
ancora farcela, ne sono convinto».

C'è chi, tra gli osservatori politici, ha giudicato una fuga in avanti il
suo impegno a non partecipare ad una riedizione di un governo di unità nazionale
guidato da Ariel Sharon.

«In tutta la mia vita pubblica ho sempre messo al primo posto la trasparenza
dei comportamenti e la chiarezza degli intenti. Il mio successo nelle primarie
del partito è anche il risultato del disorientamento dei nostri iscritti
nei confronti della passata esperienza di governo. Non si tratta di porre
delle astratte pregiudiziali ideologiche ma di dire chiaramente quali sono
i punti irrinunciabili per tornare a far parte, non in una posizione subalterna,
di un governo di unità nazionale?».

E quali sono per Amram Mitzna questi punti?

«La ripresa dei negoziati con i palestinesi e, nel caso che ciò si rivelasse
impraticabile, la messa in atto di una separazione unilaterale con ciò che
questa impegnativa decisione comporterebbe?».

Vale a dire?

«La creazione di una barriera difensiva - proposta sostenuta nel passato
governo da Benyamin Ben Eliezer (ministro della Difesa laburista, ndr.)
e boicottata nei fatti dalla destra - e lo smantellamento, sia pur graduale,
degli insediamenti nella Striscia di Gaza e di quelli più isolati in Cisgiordania.
Una scelta strategica che avrebbe importanti ricadute sul piano economico
e sociale, perché significherebbe trasferire ingenti risorse economiche
e finanziarie dalla voce colonie a quella di piani straordinari per creare
nuova occupazione o per rafforzare programmi di sostegno sociale alle fasce
più deboli, bambini e anziani in primo luogo».

Cosa c'entra questo con il suo non voler essere partner di un eventuale
governo a guida Sharon?

«Sharon è disposto a riprendere il negoziato o ad avviare una separazione
unilaterale? Sharon intende stornare risorse dallo sviluppo degli insediamenti
al piano di risanamento sociale e occupazionale? Bene, lo dica chiaramente,
e discutiamone. Ma Sharon non può farlo, perché, al di là delle sue reali
intenzioni, è condizionato da una destra oltranzista che mai sarà disposta
a queste aperture; una destra che ha scelto lo scontro frontale con i palestinesi;
una destra che ha già il suo premier ?ombra?: Benjamin Netanyahu, deciso
sostenitore della resa dei conti con la leadership palestinese e del pugno
di ferro nei Territori».

Quanto pesa nell?orientamento dell'elettorato israeliano la sfiducia nei
confronti di Arafat e dell'attuale dirigenza palestinese?

«Pesa molto, perché Arafat ha fatto di tutto per alienarsi le simpatie degli
israeliani, puntando sulla violenza e illudendosi così di poter ottenere
di più ad un tavolo negoziale. Ma cosa ha fatto Sharon per creare le condizioni
di un ricambio nella leadership palestinese? Confinandolo a forza a Ramallah,
Sharon ha finito per fare di Arafat il simbolo della resistenza palestinese.
E un simbolo è meno attaccabile di un leader responsabile di una politica
fallimentare. Mi lasci aggiungere che in discussione non è la lotta al terrorismo
o il diritto di Israele a difendere i suoi cittadini dagli attacchi criminali
di un terrorismo disumano; in discussione è la strategia migliore per isolare
e sconfiggere l'estremismo palestinese. E questa sconfitta non potrà avvenire
solo grazie alla nostra forza militare».

Ariel Sharon ha liquidato senza mezzi termini il ?tracciato di pace? messo
a punto dal ?Quartetto?.

«Aspetto ancora di sapere quale piano di pace che abbia una minima possibilità
di successo Ariel Sharon e il Likud sarebbero disposti davvero a sostenere.
Il ?tracciato? indicato dal Quartetto definisce un percorso di pace graduale,
fondato sul principio della reciprocità, e di certo non rappresenta una
minaccia alla sicurezza di Israele. Eppure Sharon lo ha liquidato in modo
sprezzante e ingiustificato».

Lei ha scelto di dedicare l'ultima settimana di campagna elettorale alle
questioni economiche e sociali. Perché?

«Perché la sinistra non può chiudere gli occhi di fronte alla tragedia di
decine di migliaia di famiglie costrette a vivere sotto la soglia di povertà;
non può non prestare ascolto alla sofferenza degli anziani o ritenere un
incidente di percorso la chiusura di mense scolastiche per i bambini e i
ragazzi delle classi più disagiate. Tutto ciò non è conseguenza, o quanto
meno non dipende solo dal conflitto con i palestinesi. Vede, nel 1992, Yitzhak
Rabin parlò in termini espliciti di una rivoluzione nell'agenda delle priorità
nazionali; nel 1999, Barak parlò delle anziane donne sbattute nelle corsie
degli ospedali e del diritto all'istruzione. Oggi che la situazione economica
e sociale è di gran lunga peggiore, la sinistra non può, pena la sua sconfitta,
relegare queste grandi questioni di sicurezza e di dignità sociale ai margini
della sua iniziativa».

In una recente conferenza stampa, Lei ha rivolto un appello agli elettorati
dicendo: o noi o Sharon. Paura di una dispersione dei voti?

«Israele è chiamato a scelte decisive, in un momento cruciale nella sua
storia. Ed è soprattutto in questi momenti che occorre dare prova di senso
di responsabilità e di accortezza. Likud e Labour hanno avanzato programmi
alternativi sulle questioni cruciali per il futuro di Israele, dalla pace
all'economia. Altri hanno scelto di affidarsi a messaggi suggestivi quanto
ambigui, preferendo glissare su pace, sicurezza, economia?. E di tutto Israele
ha bisogno oggi, ma non certo di ambiguità o di improvvisazione. Per questo
ho chiesto un voto di chiarezza, un voto utile. E per quanto riguarda il
Labour, un voto di svolta».

Nel suo tour elettorale tra gli arabi israeliani lei ha parlato di loro
come di una risorsa per Israele.

«Certamente. Ho detto loro, perché ne sono profondamente convinto anche
in base all'esperienza decennale da sindaco di Haifa, che gli arabi sono
una parte fondamentale della democrazia israeliana; ma ho anche aggiunto
che in una democrazia quello del voto non è solo l'esercizio di un diritto
ma è anche un dovere. Gli arabi israeliani possono contribuire anche con
il voto ad una laicizzazione di Israele e alla costruzione di un sistema
sociale fondato sulla uguaglianza delle opportunità; sottrarsi a questo
dovere sarebbe un errore gravissimo e i primi a subirne le conseguenze sarebbero
proprio gli arabi israeliani».