PER IL PROGETTO DI EMANCIPAZIONE SOCIALE

tesi d’ottobre

I

Sfugge generalmente l’insieme della foresta a chi vive e si muove fra alberi e sottobosco: è facile credere che quella sia la realtà assoluta, che delle radure siano luoghi "altri" e, magari, che sentieri nel bosco siano vie alternative. Senza sforzare oltre la metafora, è ormai cosí rispetto al vigente modo di produzione – con le specifiche formazioni in cui si articola e di cui si compone –, in cui si vive, ma di cui si perde la visione complessiva. Modo di produzione, in cui la produzione va intesa come complessiva: materiale e "immateriale", poiché questo tende, fin dai suoi inizi, alla totalità su tutti i piani – economico, politico, culturale, permeando di sé gli esseri umani, a livello sociale come a quello individuale. Il modo di produzione tende a svilupparsi «secondo il suo concetto» (per dirla con Hegel), cioè si dispiega secondo la sua essenza costitutiva.

Il modo di produzione è una forma strutturata di forme – forme non nel senso di "formalità" ma di "entità" che hanno un’esistenza nel contempo astratta e concreta, mentale e pratica, si concretano nei suoi rapporti fondanti di produzione e di comando (implicanti la costante riproduzione di tali rapporti e la spinta a ricondurre tutto a tali stessi rapporti), e si esprimono nell’imperativo primario del profitto (l’economico-capitalistico) e nell’imperativo prioritario della potenza (il politico-statuale) – e ambedue si intrecciano e combinano, e si tengono a vicenda. Forme che si incarnano negli esseri umani concreti, sia nella minoranza che gestisce il modo di produzione secondo i suoi imperativi (la stratificazione dei dominanti), sia nella maggioranza che lo subisce (la stratificazione dei dominati).

Il modo di produzione vigente – economia politica, capitalismo – si fonda e procede, dunque, su due assi, quello della priorità dell’economico-capitalistico e quello del primato del politico-statuale, che si fondono senza confondersi (nei loro rispettivi ruoli e funzioni) nello spazio urbano e interurbano, prodotto e riprodotto, permanentemente rimesso in forma secondo le loro esigenze e strategie, traducendolo in tessuto urbano, che non è né città né campagna (unito alla museificazione e riduzione a "parco giochi" della natura prima residua e dei retaggi storico-artistici cittadini); che comandano e sussumono la scienza e la tecnica; scatenandole a proprio uso e consumo; che si espandono nella comunicazione (informazione e intrattenimento), capillare e continua, ormai immediata e globale, di primaria funzione non solo sul piano economico e politico, ma anche su quello della costruzione del consenso; che comportano organicamente complessi e possenti apparati di guerra, ma anche di controllo (in costante estensione), nonché di repressione.

Un’ideologia (coscienza mistificata) di fondo lo intesse, il liberalismo economico, politico e culturale, ossia il liberalismo-liberismo (liberalismo che non esclude il ricorso, storicamente provvisorio, per imporre il liberismo e/o per schiacciare spinte all’autodeterminazione, a forme statuali dittatoriali, le quali poi, una volta assestato il liberismo stesso, vengono abbattute, o estinte, o mutate, o, appunto, si "liberalizzano" per adeguarsi alle forme statuali, politiche, culturali proprie del liberalismo affermato).

Per indicare sinteticamente il modo di produzione si può usare il termine sistema, ma come "sistema" fra virgolette, per intendere non un’entità chiusa e conclusa, ma una morfologia gerarchica stratificata (una "piramide" di Stati e di livelli economici, nonché di condizioni interne ed esterne delle relative popolazioni), una strutturazione in continuo movimento, che distrugge le sue fasi precedenti per passare alle nuove che costituisce, e tendere poi a dissolvere anche queste. Una strutturazione pervasa da contraddizioni, contrasti, conflitti, quindi esposta alle congiunture che il suo stesso procedere determina, le quali a volte la mettono potenzialmente in discussione, ma che, effettualmente, finora sono state, e continuano a essere, riassorbite o anche riutilizzate.

II

Il modo di produzione nel suo complesso e nelle sue forme costitutive è stato creato storicamente e socialmente dagli esseri umani: è il loro prodotto, che si è, tuttavia, alienato dai suoi produttori (il quasi-concetto di alienazione è stato espunto in tutti i campi, e confinato a una vaga descrizione in campo psichiatrico, mentre mantiene appieno la sua valenza interpretativa, insieme a quanto ne costituisce una componente, l’immagine-concetto di volontà di potenza, che interseca e intesse la ricerca di profitto e di potere: l’«oscuro volere che si vuole volendo la potenza»). Il modo di produzione, forma di forme, alienazione di alienazioni, comanda e domina i suoi produttori, li vuole performati a sua immagine e somiglianza, ne contrasta le resistenze, li combatte per quello che continuano a essere, fa loro guerra – in senso lato, oltre che specifico. E nella lunga guerra condotta contro l’umanità non è mai stato cosí forte e vincente come nei tempi presenti – dalla sua espansione estensiva e intensiva su scala planetaria (la fase attuale della sua globalizzazione, estensione al mondo, che era, però, implicita nei suoi fondamenti e portata avanti in tappe successive a partire dai suoi inizi, anzi dai suoi stessi presupposti) alle sue capacità di "messa in forma" mentale.

Se, a uno sguardo al di fuori della "foresta", l’inaccettabilità del modo di produzione stesso non è mai stata cosí palese – dallo stato di situazione critica permanente, segnata da ascese e ricadute, con la crisi globale in cui è sboccato, e il seguito di lunga stagnazione, alla stato di guerra altrettanto permanente che lo accompagna e intride; dalla riduzione in superfluità di miliardi di esseri umani alle nocività (per gli esseri umani stessi e per la vita in generale) costantemente immesse nell’ambiente; dalla costruzione di uno spazio nel contempo omogeneo, frammentato e gerarchizzato, all’opera di sussunzione e decerebrazione continuativa messa in atto dall’insieme dei media, unita al crollo dei sistemi di formazione –, nel contempo le contraddizioni che ne pervadono l’insieme si muovono nel contesto della sua perpetuazione.

Frizioni, tensioni e conflitti si situano nelle spinte alla multipolarità (pluralità di centri) contro la monopolarità (la "superpotenza" Usa, con le potenze piú strettamente alleate e gli «organismi internazionali», da queste controllati), la quale sua volta cerca di mantenersi. In tale quadro si hanno contrasti piú circoscritti, confinati in rivendicazioni di obiettivi, riaggiustamenti, soluzioni parziali, sempre nel contesto dato, e scontri piú vasti, che si muovono sotto il segno della continuazione o ripresa delle antiche alienazioni nazionalistiche e delle ancora precedenti alienazioni religiose – tuttavia delle alienazioni non ne eliminano una strutturazione di altre, tanto piú globale, e infine si collocano solo nel quadro alienato del modo di produzione.

Si situano qui la permanenza e "ripresa" delle religioni, in particolare della "pianta" giudeo-cristiana-islamica, a tre "rami" iniziali e piú tarde divaricazioni dei "rami" stessi, che appaiono difendere valori di vita di qualche validità, e addirittura lo «spiritualismo» (fede e credenze in un «mondo al di là del mondo») quale versante "alternativo" (dal complementare al critico) rispetto al «materialismo» (il mondo del profitto, del consumo e della potenza). Il laicismo agnostico che vi si contrappone, in piena linea liberale, occulta le assurdità demenziali su cui le religioni si basano, il carattere psicotico di questa cosiddetta «spiritualità» (è solo l’altra faccia, a sua volta alienata, del vuoto dell’esistenza subordinata agli imperativi «materiali» del modo di produzione), l’inganno storico che costituiscono, proprio assumendo modi di vita tradizionali (mescolando aspetti positivi con la conservazione di aspetti negativi e oppressivi) per imporre il dominio imperioso sugli esseri umani che le religioni sono state e sono – dominio che ne blocca lo sviluppo, e ormai piú l’Islam che il mondo cattolico e cristiano, perché non ha vissuto la lotta secolare di liberazione portata avanti, a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento, attraverso le tremende «guerre di religione», fino all’Illuminismo; ma anche la Chiesa cattolica resta una potenza internazionale che mira costantemente a imporsi e ri-estendersi; e il giudaismo resta la base delle possenti lobbies economico-politiche ebraiche e del carattere confessionale dello Stato israeliano. Ma altre forme religiose ancora pervadono l’umanità nel modo di produzione esistente ("orientalismi" vari riciclati, sette diverse, credenze insensate, etc.): il mondo dell’alienazione si intesse di alienazioni, vecchie e nuove.

D’altra parte, è stata colpita a fondo, a livello di massa, la credibilità di ogni prospettiva di oltrepassamento complessivo dello «stato di cose presente» – e sono state colpite le stesse capacità di pensarlo in maniera adeguata (e anche di volerlo, o almeno sperarlo, o solo sognarlo) –, mentre si è rivelato appieno come le forze che ne proclamavano il superamento (per via progressiva o tramite l’abbattimento) non fossero, e non siano, altro che componenti del complesso del "sistema" stesso, e affluenti del suo dispiegamento e mantenimento.

III

Il "sistema" comporta ed esalta – sul piano economico, politico, sociale e culturale – la concorrenza (traduzione "addomesticata" del bellum omnium contra omnes) e dunque la collocazione degli individui nella ricerca individuale del proprio personale interesse («bene inteso»), situandoli nella tendenziale equivalenza dei vari individui (maschi e femmine, eterosessuali e omosessuali, bianchi e "colorati", piú o meno giovani, etc.) e ponendoli in condizioni di funzionalità stratificata o di superfluità rispetto al "sistema" stesso.

È avanzata la liberalizzazione, identificata con la liberazione – e fino a un certo punto il liberalismo-liberismo è stato, ed è, liberazione rispetto alle piú antiche forme di dominio, oppressione, sfruttamento («trono e altare», feudalità e patriarcato, servitú e schiavitú, razzismo e discriminazioni, etc.), ma nel contempo è stato, ed è, per la grande maggioranza degli esseri umani, "liberazione" da proprietà, possesso, controllo dei mezzi di produzione, "liberazione" da ogni presenza e influenza nel comando sulle "cose", "liberazione" dai rapporti di affettività, solidarietà, aiuto reciproco, dal tessuto di relazioni sociali e di radicamento nel territorio necessarie per vivere ed espandere la propria esistenza e il suo senso.

La liberalizzazione non coincide con la liberazione – tantomeno dal modo di produzione – e sotto la liberalizzazione avanza l’atomizzazione sociale: la società tende a polverizzarsi in individui scissi gli uni dagli altri, con rapporti inesistenti o comunque deboli, quando non di indifferenza od ostilità, fra di loro, in concorrenza fra loro stessi e teso, ognuno, a quanto crede (o gli viene fatto credere) essere il suo specifico, particolare, singolare interesse – che poi si traduce nella massificazione di tutti sotto una secolare riedizione della «trinità» cattolica: essere o diventare famosi e/o ricchi e/o potenti (i culti, riti, percorsi presentati e proposti sono vari e articolati, ma nella stessa liturgia), e le differenze personali sono solo delle variazioni che ribadiscono la monotonia del tema.

A fronte della concorrenza degli atomizzati si ergono le regole, necessarie perché il "sistema" stesso non si dissolva, ma che valgono per i singoli atomi solo finché non ne ledono l’interesse personale (creduto specifico, e che è quello generale indicato). Del resto, basta apparire rispettare le regole e mantenersi nei loro confini; se, invece, la loro violazione è utile, lo si fa; se è utile associarsi con altri per violarle proficuamente, lo si fa – infatti, come la microcriminalità è una punta estrema della concorrenza generalizzata, cosí la grande criminalità organizzata è parte organica dell’accumulazione del capitale su scala mondiale e nazionale – le forze repressive statuali si limitano a fare da contenimento, e non si pone nemmeno la questione se ne sia possibile l’estirpazione. Donde l’esigenza dell’imposizione delle regole stesse da parte della potenza che gestisce la violenza organizzata – lo Stato, nelle sue articolazioni, da quella centrale a quella locale –, il che comporta la continua espansione della regolamentazione legale e del controllo diffuso, dunque della repressione, latente o aperta, insieme al numero e mansioni delle forze repressive e della burocrazia.

La crescita infinita e indefinita, basata sul liberismo – denominata «sviluppo»: della produzione e del profitto, dello spazio di produzione, residenza e consumo, di «intrattenimento» –, si unisce alla crescita dello Stato, basato sul liberalismo – denominato democrazia, sempre piú formale (elettivo-rappresentiva e delegata – remissione dell’esercizio concreto del potere a uno specifico ceto, la «classe politica», con i suoi esponenti di maggior "spicco" – con conseguente concreta tendenza permanente all’accentramento autoritario). La liberalizzazione atomizzante, che promette una libertà assoluta di tutto e tutti (in primo luogo di consumare), è vuota, in quanto non stabilisce, e non può in alcuna maniera stabilire, libertà di che, da che e «perché (e finisce per negare anche quella di consumare, escludendo masse crescenti dalla produzione-distribuzione, o riducendola ai minimi termini per masse di inclusi); nello stesso tempo, proprio ciò comporta un comando esteso e capillare basato sulla codificazione, sorveglianza e repressione – che si riassume nella parola d’ordine della «sicurezza» – e vanifica la libertà totale promessa (compresa, appunto, quella di consumare, non legale se raggiunta per altre vie rispetto a quelle "ufficiali").

Liberalizzazione atomizzante e dominio oppressivo vanno insieme: contraddizione di fondo ineliminabile, e fallimento di fondo, insieme al magma di contraddizioni che avvolge il mondo, delle «magnifiche sorti e progressive» promesse dal liberalismo-liberismo.

IV

La crescita infinita e indefinita è data dal doppio e combinato "motore" del modo di produzione: profitto e potenza. E precisamente questo "meccanismo", in quanto tale, si inceppa in maniera «regolarmente irregolare», il che è funzionale a ripartire, poi, sulle sue basi e istanze di fondo – con un seguito permanente di contrasti e conflitti, anch’essi funzionali, fino a un dato livello (specifico, nelle determinate situazioni), oltre questo, disfunzionali.

Lo spettro della fine di tale crescita si agita già da tempo nella mente dei gestori del "sistema" (ufficialmente: dalla definizione della crescita zero, nel 1972). Perciò si punta a come perpetuare il "sistema" stesso: sia continuandolo, intanto, tramite i suoi "meccanismi", dopo e attraverso stato critico, crisi e stagnazione; sia definendo una linea di attestamento su una «crescita zero» in cui ne è preservato, pur in maniera piú statica, il "meccanismo" (profitto e potenza); sia aprendosi a nuovi campi, e inglobandoli, di cui quelli piú recente sono l’energia (quella senza fine del nucleare, uso dei vecchi settori come il petrolio, nel contempo «risparmi energetici», «fonti rinnovabili», etc.) e l’ecologismo-ambientalismo (che paventa catastrofi fittizie – quali la crescita delle emissioni di anidride carbonica, chiamata con la formula chimica di CO2 per farla risultare piú terrificante – e su cui si basano «protocolli» che promuovono gli investimenti in tali campi, e concorre a porle come spettro rispetto a cui tutto passa in ultimo ordine, comprese le vere nocività immesse nell’ambiente). E si arriva fino alla decrescita (piú o meno «felice»), altra faccia, di riserva ma complementare, della crescita o «sviluppo», che si presenta come alternativa totale, mentre non tocca i rapporti fondanti e dominanti del modo di produzione, e ben si coniuga con la «crescita zero» e con l’ecologismo-ambientalismo – nonché con la "performazione" degli esseri umani in atomi «politicamente», nonché «ambientalmente», «corretti» (dalle relazioni fra loro di scarsa pregnanza e valenza, magari concentrate su miniattività dette «alternative») – e sempre nel contesto del "sistema" dato.

Impresa gigantesca del modo di produzione – tramite i suoi gestori, i suoi addetti al lavoro intellettuale, la scienza e tecnica sussunte – per perpetuarsi al di là dei suoi limiti storici, ma senza poter eliminare la sua essenza costitutiva, quindi la sua contraddittorietà e generazione permanente di contraddizioni su tutti i piani – sul piano economico (-capitalistico) perché basato sulla ricerca esponenziale del profitto; sul piano politico (-statuale) perché basato sulla ricerca esponenziale della potenza, con autosaturazione coattiva degli apparati di regolamentazione, controllo, forza organizzata; sul piano dello spazio (urbano) perché basato sulla ricerca esponenziale della sua traduzione in tessuto urbano, con le sue connessioni interurbane, e con la devastazione dell’ambiente in questo spazio snaturante (se anche non fosse inquinante, come invece è, come con gli inutili e dannosi «inceneritori»); sul piano del sociale perché basato sulla ricerca esponenziale della sua dissoluzione, sostituendolo con l’evanescente figura dei «cittadini», magari interconnessi da "comunità" di reti telefoniche o informatiche; sul piano dell’individuale perché basato sulla ricerca esponenziale dell’atomizzazione (massificata); sul piano delle relazioni esterne e interne dei diversi paesi perché basato sul ricorso, scatenato o tenuto pronto, alle guerre all’esterno e, messo in atto o minacciato, alla forza armata all’interno, per affrontare controversie e tensioni.

A fronte dell’indicata contraddittorietà, finora non ne affiora in maniera generalizzata (al di là di casi circoscritti) un’autonoma negazione sociale dalle radici, mentre tensioni e rivendicazioni vengono assunte e gestite dalle forze politiche esistenti nel contesto della perpetuazione del "sistema". Le forze politiche storicamente espresse dal "sistema" si articolano in destra e sinistra, con il centro fra le due. Le strategie governative e statuali – lo Stato non ha affatto il carattere di «staticità» insita nel termine, al contrario è sede di continue strategie volte all’attuazione degli imperativi del "sistema" – si attuano tramite la composizione delle indicazioni, alterne e parziali, che vengono dalle forze politiche, nonché da circoli, lobbies, centri di interessi, settori sindacali, in relazione con queste o quelle forze politiche – tutte frazioni e fazioni della classe politica, che risponde in primo luogo alla classe sociale economicamente dominante –, in relazione al controllo e conduzione delle spinte, istanze, tensioni delle classi subalterne, nonché in relazione alla collocazione del singolo Stato nel contesto internazionale.

V

La destra – caduta nel tempo la continuazione delle piú antiche forme di dominio – si collega alla conservazione, con momenti di reazione (specie sul piano delle libertà civili liberali: contenimento dei diritti), ma solo fino a dati limiti, che non intacchino il liberalismo-liberismo, per concorrere alla gestione del "sistema"; la sinistra si collega al travalicamento di ogni forma di limitazione (specie sul piano delle libertà civili liberali: dilatazione dei diritti), ma anch’essa solo fino a dati limiti, che non intacchino il liberalismo-liberismo, per concorrere alla gestione del "sistema"; il centro si situa su una conservazione piú "moderata", accogliendo anche alcune istanze della sinistra, sempre per concorrere alla gestione del "sistema". Tale articolazione fra destra, centro e sinistra si ritrova anche all’interno di ogni coalizione politica e di ogni singola forza politica – mentre tutte le forze politiche sono ormai unificate dall’adesione alla statualità e all’economia liberal-liberiste, negli Stati occidentali o di tipo occidentale, nonché in quelli che via via si "liberalizzano".

La sinistra era proceduta dall’accoglimento, da parte di comparti intellettuali di classi superiori e medie, delle istanze originarie del movimento dei lavoratori e delle classi subalterne, unito alle elaborazioni teoriche e politiche orientate da, su, a favore di, tale movimento. Le premesse e promesse della sinistra erano quelle del superamento del modo di produzione – superamento presto divaricatosi (almeno sul piano programmatico) nella strada delle riforme, da un lato (socialdemocrazia), in quella della rivoluzione, dall’altro (comunismo). Nel suo percorso storico la sinistra ha concorso non solo al mantenimento ma anche al dispiegamento del modo di produzione, sia tramite il riformismo (la partecipazione socialdemocratica alla vita politica e ai governi in Occidente) che ha dato il suo apporto al cosiddetto «Stato sociale», Welfare State o «Stato del benessere» – basato sul diretto interventismo statuale, con la denominazione, poi affermatasi, di «politiche keynesiane» –, sia tramite la rivoluzione (la «rivoluzione comunista» in paesi asiatici agrari: Russia, poi Cina, poi altri ancora, in seguito altrove), che ha dato vita al «socialismo di Stato» – via accelerata alla crescita (economica e statuale) attraverso la leva dello Stato totalitario e totalizzante –, per dissolversi, o adeguarsi, o cominciare a "liberalizzarsi", una volta raggiunto un tasso di crescita adeguato a fuoriuscire dal cosiddetto «sottosviluppo» (dimostrazione: la straordinaria rapidità di riciclaggio al capitalismo «in senso proprio» dei ceti dominanti e della «classe politica» di questi regimi). Se la seconda via – la via statuale – rimane a tutt’oggi quale possibilità per uscire dalla subordinazione e dalla dipendenza, tuttavia è ormai dimostrato che non muta la sostanza del "sistema" globale.

Nel contesto del discredito generale che investe tutte le forze politiche – tanto che i comparti popolari, che non si attestano nell’astensionismo, da tempo non vanno piú a votare "in positivo" (per) ma "in negativo" (contro), ossia per quanto viene ritenuto (o fatto credere) il «meno peggio», il male minore, pensando di evitarne uno maggiore –, lo specifico discredito attuale (particolarmente in Occidente, ma non solo) di tutte le componenti dell’insieme della sinistra, se si basa su quanto si è ampiamente mostrato nel nostro presente, tuttavia ha radici antiche e continuative.

La "faglia" (la scissione fra premesse e promesse, e azione effettiva) risale alla seconda meta dell’Ottocento e viene alla luce fra la Comune di Parigi e la costituzione del Partito socialdemocratico tedesco – ed è ben colta, per tempo e con lungimiranza, da Karl Marx nella sua Critica del programma di Gotha: repressa la Comune, si afferma in quello che va ad affermarsi come maggior partito basato sul movimento operaio, quello tedesco, e che influenzerà tutto il resto, non il superamento del capitalismo e dello Stato, bensí il «socialismo di Stato», tramite l’azione condotta nel contesto del "sistema", nella sua trasformazione ma perpetuazione. La "faglia" si esprime appieno con la prima guerra mondiale, con lo stesso tentativo apertosi in Russia (deriva della rivoluzione verso i paesi agrari, con la formazione dello Stato-partito del «socialismo di Stato») e il seguito di vicende successive. Il resto è venuto, certo non linearmente, ma sicuramente di conseguenza.

VI

La sinistra nel suo complesso, con i suoi partiti e la sua tendenza sempre partitica – e ogni partito è in quanto tale un "pezzo" di Stato in pectore (poiché mira o a inserirsi nella gestione dello Stato esistente o a sostituire lo Stato esistente con il proprio, con cui necessariamente si fonde, come Stato-partito) –, sosteneva, e ancora sostiene, di poter contrastare, o trasformare, o rovesciare il modo di produzione proprio in base a uno degli assi portanti del modo di produzione stesso, appunto lo Stato. E proprio in tal modo è confluita e confluisce precisamente nel supporto al "sistema" che diceva di combattere o di abbattere, e a cui, pur in maniera sempre piú vaga, dice sempre di opporsi.

Il che si è tradotto nella riduzione delle elaborazioni teoretiche e delle dichiarazioni programmatiche a mera ideologia – a una delle ideologie del "sistema", benché ormai in declino e in confluenza nel liberalismo-liberismo, sotto la forma del liberalismo radicale –, e soprattutto nel seguito di tradimenti continuativi e ripetitivi, senz’altro tali rispetto alle premesse e promesse (pur sempre piú vaghe e confuse), ma coerenti con quella che è la natura reale della sinistra stessa.

Tutte le istanze, tutte le iniziative, tutti i tentativi di rifare la sinistra, di rifarla «piú di sinistra», di ricomporla piú «coerentemente di sinistra», di rilanciarla come «vera sinistra», di ricostituirla come «vero partito di sinistra», e cosí via – sia in quanto aggregazione delle formazioni residue, sia in quanto partiti o partitini, sia in modalità non dichiaratamente partitiche, ma piú mascherate di associazioni, "centri", gruppi, magari mutando anche le denominazioni (rispetto a quelli storiche: «socialista», «comunista») –, non soltanto sono inutili, e destinati al fallimento (fallimento rispetto a quello che, sul piano ideologico, si afferma di voler fare), ma sono anche e soprattutto dannosi, perché continuano l’inganno, anch’esso ormai storico, di parte delle persone attive, situandole in seguiti organizzati di militanti, e di parte delle classi subalterne, situandole come riserva di voti per tali componenti, da far vedere come «meno peggio».

È un inganno del tutto dannoso, perché perpetua la saldatura indebita fra le istanze volte a un mondo "altro" e "oltre" – almeno quelle ancora in qualche misura esistenti, e non semplicemente quelle che esprimono il ricordato liberalismo radicale – alla sinistra data, alle sue modalità storiche e presenti, al suo ormai assodato "modo d’essere".

E chi magari arriva a riconoscere la sequela di limiti, omissioni ed errori della sinistra, e anche di fallimenti e tradimenti, ma rimane bloccato nella saldatura indebita indicata – senza riconoscere che non si tratta di una serie di fuorvianze, bensí del "modo d’essere" della sinistra stessa –, per cui continua a insistere sulla "necessità" di salvare la sinistra, di contrastare una sua scomparsa (presunta: resterà perché è funzionale al "sistema"), puntando a una sorta di sua "riforma" o "autoriforma", e operando a questi fini – ebbene, ha le stesse prospettive di successo di chi voleva l’"autoriforma" di quella che fu l’Urss, mentre concorre a condannare le istanze residue di trasformazione alla loro ennesima vanificazione in quanto tali, per farle servire solo da ulteriore sostegno al "sistema".

In fondo e in realtà, si tratta di un inganno non dissimile, e finalizzato agli stessi scopi, da quello che si fa in settori della destra, dicendo di voler riprendere e difendere la «tradizione» – peraltro con risvolti estremi del tutto esecrabili: reazionarietà di massa, razzismo, rimandi al nazifascismo –, o in settori sempre della destra nonché, in particolare, del centro, dicendo di voler "moderare" le trasformazioni, limitandosi a quelle "necessarie", e ispirandosi sempre e comunque ai «valori cristiani» – con alle spalle l’oscurantismo della Chiesa, le sue permanenti ingerenze e costanti richieste di privilegi e finanziamenti, e le sue spinte ineliminabili a mantenere e possibilmente riestendere il suo dominio sulle coscienze e sulla vita.

VII

Il modo di produzione è un "tritasassi" globale, in particolare nella sua fase attuale di preservazione al di là dei suoi limiti storici, ben attestati dal suo presente carattere di prevalenza dell’esclusione (dalla collocazione in produzione, distribuzione, comparti direttamente o indirettamente connessi, quindi dal consumo, nel contempo martellato come vero modo di vita) e dal confinamento nella superfluità di masse enormi di esseri umani – al contrario dei processi precedenti portati avanti sempre dal modo di produzione, che erano di dissoluzione dei vecchi assetti, ma di integrazione nei nuovi (il che consegue dalla stessa introduzione delle nuove tecnologie a base informatica, che permettono una produzione a enorme tasso esponenziale con personale ridotto, e proprio ciò denuncia l’incompatibilità del livello di forze produttive conseguito con il mantenimento dei rapporti, di produzione e complessivi, esistenti).

Questo "tritasassi" tende a omogeneizzare il mondo, modellandolo tutto sulla sua morfologia gerarchica stratificata – stratificazione degli Stati e delle economie, stratificazione dei dominanti, stratificazione degli inclusi, stratificazione degli esclusi –, e quindi pervadendolo della contraddittorietà mobile e continua che l’intride. E in questo "tritasassi" globale a venire colpiti e sempre piú distrutti sono la società e l’individuo.

Distruzione materiale: dalla guerra che devasta intere aree del mondo, alle masse di sradicati e messi in moto nei flussi migratori (a causa dell’estensione intensiva del capitalismo, piú che dalle guerre, con la messa "mobilità" di schiere di esseri umani), fino allo spazio urbano rimodellato permanentemente a servizio non solo di investimenti immobiliari e rendita fondiaria, investito da afflussi di esseri umani estranei all’assetto precedente e spesso estranei fra loro stessi, ma anche e soprattutto modellato e rimodellato a immagine e somiglianza degli imperativi prioritari di produzione, distribuzione, trasporti, consumo, con l’isolamento in habitat ridotti al mero "razionale", nell’omogeneizzazione, frammentazione, gerarchizzazione delle aree di residenza (con l’annientamento delle relazioni sociali iscritte nello spazio storico precedente), e nell’estensione di regolamentazione e controllo, e della repressione (latente o aperta).

E distruzione mentale: lo strabordare capillare dei media (le risorse per tale insieme di comparti, sul piano mondiale, sono seconde solo a quelle destinate agli armamenti), con la loro opera immensa non solo di deformazione, omissione, menzogna mediatica organizzata (tg, notiziari, dibattiti, etc.), ma anche e soprattutto di fuorviamento, trastullo, divagazione (il complesso dell’«intrattenimento», marea di musica compresa, e compreso lo sport, ridotto a campo di massicci investimenti capitalistici), che si intreccia con la moda (da intendere sia in senso specifico, sia lato: come penetrazione di "modi d’essere"), nonché con l’onnipresente pubblicità (che fonda l’imperativo del consumo su una pari diffusione di "modi d’essere") – e tanto piú nella distruzione progrediente dei precedenti apparati di formazione (esclusi i necessari «centri di eccellenza» e le formazioni tecniche), il che priva di un minimo di "contraltare" critico a livello di massa.

La tendenza è a una vera e propria decerebrazione: accecamento del pensiero nella penetrazione di un immaginario preformato, che assorbe e irreggimenta le pulsioni, arrivando a colpire le capacità di condurre le connessioni logiche – il crollo in corso è ben visibile a chi lo voglia vedere: caduta verticale delle conoscenze di base, ivi comprese quelle linguistiche, della ricezione di conoscenze, per non parlare delle capacità di elaborazione. E particolarmente significativa è la condizione giovanile (almeno nei paesi che erano detti «avanzati», ma non solo), essendo i giovani i piú recettivi alla "messa in forma" mediatica: irreggimentati in mode assurde e rivalità insensate, con la testa che si vuole sempre piú svuotata, ma repleta di immagini preconfezionate, e di musica a getto continuo.

VIII

Al posto della società si sta sempre piú espandendo la tendenza all’astratta comunità di produttori-consumatori-utenti-elettori, raccordati solo da produzione-mercato (quando non si è esclusi, in parte o del tutto, da tale multipla e nello stesso tempo unitaria collocazione subalterna) e dalla sovrapposizione del politico-statuale, con legami sociali che si riducono (quand’anche solo si riducono, e non invece cadono del tutto o quasi) a ristrette cerchie familiari e amicali. E al posto degli individui tende ad avanzare senza freni la riduzione delle persone ad atomi, detti «individualisti», che lo sono nel senso che ognuno è spinto in primo luogo a "pensare per sé", ma che sempre piú sono del tutto massificati nelle necessità e nelle aspirazioni.

Ma società e individualità vanno insieme: l’individuo si forma e sviluppa come tale in un contesto di relazioni sociali fattive – senza di che non si darebbe lo stesso linguaggio. La società si stabilisce e si sviluppa in connessione agli individui che la compongono e al loro sviluppo.

Se l’insieme società-individualità è soggetto a distruzione, si mette in discussione l’esistenza degli esseri umani sul piano antropico – con conseguenze finali di cui chiari indici sono la diffusione dei cosiddetti «comportamenti devianti» (concreti e mentali), ben scadenzato dagli stessi «fatti» riportati ormai ogni giorno dalla cronaca, e l’esempio della realtà Usa, dove le relazioni fra gli esseri umani si stanno sempre piú situando sul doppio binario o del ricorso continuo a regolamentazioni giuridiche e avvocati, o dello scatenamento della violenza (con il condimento dell’estensione degli psicanalisti, nonché di "reverendi", telepredicatori, santoni, "orientalisti", etc., nella frantumazione in ghetti, bande, sottogruppi, in scontro fra loro, e nell’isolamento sempre piú generalizzato).

L’immensa opera del "sistema" volta a "performare" l’umanità sul proprio "modello" – va ripetuto e ribadito: priorità dell’economico-capitalistico e primato del politico-statuale, nella ristrutturazione dello spazio in tessuto urbano e interurbano, sotto la spinta al consumo e l’imperio della visione preformata dai media, con l’"ideale" di essere o diventare famosi, ricchi, potenti –, e a bloccare in maniera definitiva gli esseri umani in questa fase storica, assolutizzandola, comporta un rischio mortale.

Il rischio non è dato dai catastrofismi vari su cui martellano governi e media, o dai "problemi", senz’altro terribili ma pur sempre circoscritti, nel caos di fame, miseria e sangue, di malattie, di disastri piú o meno naturali, e cosí via, che intride il complesso del "sistema" – e in cui si dispiega l’assistenza, intergovernativa, governativa, non governativa, ecclesiastica, e cosí via: l’aumento dell’oppressione e dei disastri va insieme all’ascesa dell’assistenza. Catastrofismi, piú o meno finti e piú o meno veri, e gravi "problemi" affrontati isolatamente servono, in fondo e infine, alla preservazione del "sistema".

No, si tratta di ben altro: la vera catastrofe, che non solo si annuncia, ma che sta procedendo, è quanto si delinea quale sbocco possibile: il fallimento globale della specie umana – in un circolo vizioso che si avvita su stesso, sul cui orizzonte terminale si staglia, da un lato, l’«ultimo uomo» (di nietzschiana memoria, che vive in maniera piú o meno tranquilla, ma senza senso, prospettive, aspirazioni) e, dall’altro, l’"uomo disperato" (senza proventi, risorse, basi, che si muove, si agita, combatte ciecamente per diventare a sua volta un «ultimo uomo»).

IX

Tuttavia, ancora permane la società umana, che costituisce per la specie un fondamento piú antico del modo di produzione vigente, con una base comune pur nelle differenti società storiche, che ha teso a mantenersi attraverso i pur diversi modi di produzione succedutesi nel divenire storico e nonostante le alienazioni che li hanno intessuti, e che ha teso e, nonostante tutto, tende a mantenersi anche nel vigente "sistema" – tanto che i suoi cantori liberali e apologeti liberisti la danno per scontata.

La società si fonda su relazioni "altre" rispetto ai rapporti costitutivi dominanti nel presente (nonché ai rapporti di potere e di sfruttamento diretti ed espliciti del passato), che sono lo scambio di equivalenti sul mercato, lo sfruttamento dei tanti da parte di alcuni, il dominio dei pochi sui molti. Non si basa su scambio e mercato, ma sul dono, ossia quel «dare, ricevere, rendere» che sostanzia le relazioni di comportamento di cordialità, di solidarietà, di aiuto reciproco, di affettività, di amore – rapporti che vanno oltre la famiglia, ristretta e allargata, per ampliarsi al contesto sociale in cui "è dato" di vivere (e non "è scelto": le scelte vengono poi).

Relazioni fattive che non escludono quelle negative – indifferenza, antipatie, avversioni, contrasti, scontri, ostilità, etc. –, e che però tendono a ricondurle sotto la loro preminenza: sono i mores comunes (i costumi usuali, da intendere come "modi d’essere" comuni – da cum e munus, ossia dono reciproco), cioè non un tanto astratto quanto imperioso "dover essere" (la morale stabilita e imposta "dall’alto", altra forma di dominio, da parte di "entità" a loro volta alienate dalla società, quali Stati, chiese, religioni et similia), ma il tessuto di rapporti che permette lo sviluppo degli individui come individui nell’esistenza e riproduzione della società, stabilendo ciò che è decente (e quindi ciò che non lo è), dunque le basi della decenza comune, della dignità ordinaria – del "modo d’essere" usuale, o che lo dovrebbe essere, e non quello di persone straordinarie che compiono atti eccezionali, non di «santi ed eroi».

Nella società, liberata dalle arcaiche o precedenti forme di dominio e oppressione – non solo la liberata, com’è decisivo, da quelle fra liberi e non-, o meno-, liberi, ma anche liberata, com’è altrettanto decisivo, da quelle di subordinazione dei minori e delle donne (rispetto a cui va ribadito: parità assoluta dei diritti e diritto totale alla differenza), nonché di discriminazione dei "diversi" –, si può trovare il fondamento dei due assi su cui può procedere la liberazione dalle forme di profitto e potere dominanti, e dalla loro interiorizzazione: il sociale stesso, e l’individuale, nella loro fattiva dialettica.

Si tratta del fondamento nel contempo biologico (quelle corporeità concrete che sono gli esseri umani, che esistono in quanto esseri di gruppo), antropologico (l’essere umano isolato è solo un’eccezione limitatissima o di brevi periodi, per il resto esiste, pur nella sua individualità, come membro di gruppo che si basa sulle relazioni reciproche del «dono»), storico-sociale (in quanto base della storia umana, che continua a esistere come base, non detta e non ricordata, su cui e rispetto a cui opera il "sistema"), concreto-attuale (le contraddizioni di classe, strati, ceti, fra dominati e dominanti, su tutti i piani, dall’economico al politico, dal sociale al culturale, dall’urbano all’esistenziale). È questo il sociale-individuale da cui è sorto il socialismo originario (denominazione creata dall’operaio parigino Pierre Leroux) in opposizione all’«individualismo borghese», falso, antisociale e antindividuale – ossia in contrapposizione all’atomizzazione del capitalismo nella dissoluzione della società.

Del resto, qual è il "segreto" per cui propaganda, intrattenimento, moda, pubblicità, musica, etc., "funzionano" – penetrano, sono efficaci e svolgono il loro ruolo? Tramite la forza delle immagini (evocate dalle parole, suscitate dalle musiche, stampate nella mente dalle raffigurazioni, statiche o in movimento) "mettono in forma" le esigenze e le pulsioni, i sogni e i desideri, ciò che si vorrebbe (benessere, piaceri, affettività, amore, espansione vitale, e cosí via) e che non si ha, o che è incerto, o che è messo in discussione – "mettono in forma" ciò che non è pensato, ma che è sentito e vissuto, che è ciò che "conta", e che è costituito, tutto, dalle relazioni fra sociale e individuale. Proprio per questo e su questo operano l’espropriazione dell’immaginazione, le associazioni indebite, le spinte a "piú consumo", le adesioni a "questo qui" o "quell’altro" (cosa, persona, contesto, etc.), i fuorviamenti occultanti, le menzogne continuative (il rimando continuo non è solo al valore d’uso, ma in generale all’uso – alla vita –, mascherando ciò che invece interessa, il valore di scambio, il profitto, il potere, e lo stesso ideale "trinitario" indicato – fama, ricchezza, potenza – funziona perché fa intendere che si potrà cosí avere quanto manca). E sempre proprio sulla carenza di fondo, sull’insoddisfazione risorgente, si situa la spinta a riempirsi di "cose", ma senza mai colmarsene, e la tendenza all’«evasione» (fittizia: velocità, «sballo», alcool, droghe, etc. – altro consumo ancora).

X

Il "sistema" rimanda precisamente a ciò che ogni passo ulteriore nel suo dispiegamento distrugge, e che proprio l’insieme della «comunicazione» coopera possentemente a distruggere: il sociale-individuale, che tuttavia ancora resta fra gli esseri umani, come realtà sempre persistente, al limite perfino come oscura aspirazione, magari come mancanza, non pensata ma in qualche misura avvertita – un’assenza che evoca la presenza.

Le stesse lotte piú decise ed efficaci contro il "sistema", piú circoscritte o piú ampie che siano state, non si sono fondate su un astratto rapporto fra «classe» e «potere», o sulla semplice contrapposizione fra «lavoratori» e «padronato», ma su una società, o gruppi sociali, con i loro contesti sociali di supporto, che si sono sollevati per impedire almeno ulteriori danni, e hanno sostenuto tali lotte e hanno strappato conquiste (di maggiore o minore stabilità, in rapporto ai successivi rapporti di forza).

Sono queste le congiunture, generali o specifiche, che mettono in discussione la struttura del "sistema", e rimandano a quell’aggregazione sociale che può essere cosí riassunta: chi lavora, ha lavorato, cerca lavoro, chi intanto studia o continua a studiare, e tutti coloro che esercitano la loro attività senza sfruttare, opprimere, dominare gli altri, e nemmeno intendono farlo, in modo diretto o indiretto, a livello personale. Aggregazione sociale popolare – da notare come il termine stesso sia diffamato da tempo, colpito allo stesso livello del pensiero, traducendo «popolare» in «populismo» e attribuendo a «populismo», «populista» il significato di sentina di ogni "cosa" negativa, ossia facendone penetrare l’assimilazione con demagogia, reazione, appoggio all’autoritarismo o addirittura al fascismo.

È solo dal sociale-individuale nel senso indicato che si può pensare di ripartire e di procedere, finalmente – in quanto, almeno in prospettiva, liberato dalla sussunzione assorbente alle diverse forze politiche, tutte "di sistema" in quanto tali, e dal blocco nelle sole rivendicazioni di tipo sindacale (sia di posto di lavoro, sia a livello di territorio), che, in quanto tali, per quanto decise e "forti" siano, non fuoriescono dal "sistema" stesso.

È questo il primo e, nel contempo, l’ultimo "nodo" di potenzialità e possibilità su cui fondarsi e a cui rivolgersi, essendo ben consapevoli, però, che è messo sempre piú in discussione dal dispiegamento del "sistema", dalla distruzione del sociale e dalla decerebrazione di massa – e che ciò rende sempre piú ardua l’emersione di queste potenzialità e possibilità.

Ed è soltanto su questo che si può fondare – o comunque cercare di fondare: tentarlo – l’unica e vera alternativa – e necessità sempre piú urgente, in questo "sistema" che vuole eternizzarsi –, per il sormontamento dello «stato di cose presente».

XI

La via è la socializzazione: socializzazione dei mezzi di produzione (ora sussunti all’economico-capitalistico e da esso "messi in forma", subordinando anche la scienza e la tecnica, e distorcendole), socializzazione della gestione «delle cose» (ora sussunta al politico-statuale e da esso "messa in forma", subordinata al comando, al mantenimento dell’esistente, e resa ipertrofica, oppressiva e repressiva), socializzazione dello spazio urbano (ora sussunto all’intreccio di economico-capitalistico, con l’aggiunta della rendita, e politico-statuale, e da essi "messo in forma", devastato e reso riducente ed estraniante), socializzazione della cultura, della scienza, della formazione, della comunicazione (ora sussunti al profitto e alla potenza, e da essi "messi in forma").

Socializzazione che non è, in campo economico, la mera nazionalizzazione o statizzazione (ai diversi livelli di articolazione statuale) – l’effettivo pubblico è il sociale, non lo statuale –, e nemmeno le varie forme di cooperativismo (altra via affluente alla capitalizzazione e conduzione capitalistica). Che non è, in campo politico, la mera democrazia elettivo-rappresentativa (sempre piú ridotta a semplice procedura, a sanzionare dirigismo e autoritarismo), con i vari apparati statuali scissi dalla società, e a essa sovrastanti, per esercitare il loro comando – lo statuale non è il pubblico, non è il sociale. Che non è, in campo urbano e interurbano, l’insieme di interventi di produzione dello spazio, ristrutturazioni, operazioni varie, con costruzione di ghetti, fra cui le «case popolari» – lo spazio urbano è dissolto nel tessuto urbano, se non riassunto dal sociale. Che non è, nel campo di cultura, formazione, comunicazione, la mera richiesta di attrezzature scolastiche, di piú stanziamenti per la ricerca, di pluralismo di stampa e tv, e cosí via – sempre subordinati alla conduzione "dall’alto" del politico-statuale o dell’economico-capitalistico.

La socializzazione è la riappropriazione dei campi alienati dell’esistenza, la loro conduzione sociale, articolata e ricomposta dal "basso" all’"alto" (e non viceversa), dal locale, dal cittadino, al regionale, fino al nazionale – e gestione realmente democratica (senza «politici di professione», ma con limitazione della durata e rotazione delle cariche – intese solo come assunzione di specifiche responsabilità per un limitato periodo di tempo –, con elezione diretta, revoca eventuale del mandato e anche con il ricorso a modalità di estrazione a sorte, e senza potere affidato nei fatti a «tecnici» ed «esperti», da utilizzare, invece, solo per consultazione). Questo, e solo questo, può restituire senso (valore) alle "cose" e agli esseri umani, può fondare la formazione e l’inventiva – e aprire larghe possibilità di sviluppo degli individui.

Su ciò si basa il progetto di emancipazione sociale – nella ripresa del socialismo originario e delle elaborazioni fattive a esso connesse –, che, tuttavia, non deve e non può, se vuole essere davvero efficace, essere "coniato" da teorizzazioni che finiscono per essere elucubrazioni di "qualcuno" in segrete stanze, e tantomeno concretarsi intorno a ennesime e risorgenti figure di "capi" o aspiranti tali, ma dall’interrelazione dell’elaborazione già possibile con la prassi possibile di riaggregazione sociale (la quale, di per sé, costituirebbe già il primo germe della riappropriazione) – per ora si può dire che cosa non è, che cosa va escluso e respinto, e restare attenti a ciò che è fattivo e a ciò che è, invece, fuorviante.

Per il resto, andrà visto, ritrovando il legame effettivo fra elaborazione e prassi, come procedere a sostituire i principi di utilità e necessità a quelli del profitto (quali settori mantenere anche in perdita di risorse, quali mantenere in parità fra risorse utilizzate e risorse rientranti, quali espandere puntando a un surplus sociale per svilupparli), come procedere a sostituire i principi di effettivamente democratica «organizzazione delle cose» a quelli statuali di potenza e «comando sugli uomini», e a sostituire uno spazio rioccupato e vissuto dagli esseri umani al tessuto urbano estraniante, e in un ambiente restituito alla salubrità, a sostituire all’insieme dei media forme valide di comunicazione ed espressione, a sostituire a scienza e tecnica incontrollate la loro riconduzione a funzione sociale, a sostituire a una formazione in crollo un’efficace trasmissione del sapere e del senso e valori dell’esistenza.

Ma si può davvero vincere? In astratto, , senz’altro: il "sistema" è molto piú fragile e decrepito di quanto i suoi sostenitori vogliono dare a intendere – proprio perché ha oltrepassato i suoi limiti storici, né si può fondare su una permanente repressione generalizzata. Se comincia a perdere consenso e "pezzi" si avvierà all’estinzione. In concreto, però, non ci si deve nascondere che è estremamente arduo avviare il processo – e tuttavia, ciononostante e proprio perciò, questo è ciò che va fatto. Promuovere, diffondere, concorrere a sviluppare il progetto di emancipazione sociale, da intendere come autoemancipazione, è l’effettivo compito – con, va ripetuto e ribadito, distacco deciso e scissione risoluta da tutte le forze politiche di "sistema", ossia dalla destra e dalla sinistra, nonché dal centro, in tutte le loro frazioni e fazioni, varianti, specie e sottospecie, nonché da partitini espliciti o mascherati, e gruppi e gruppetti, con leaders vari, e anche dai piú recenti "arrivi" e "apporti" dei provenienti dallo show-business: distacco e scissione da ciò che sono, dicono e fanno, dai loro "discorsi"e dalle loro diatribe.

La direzione? La prospettiva della formazione del movimento di emancipazione sociale – ossia, in questo senso, che è quello originario, quello autentico, socialista.

Il punto di partenza possibile è dato dalla pur oscura, poco o non pensata, ma sentita, anche come residualità, volontà di indipendenza – dalla sua comprensione e assunzione. Indipendenza da intendere come autonomia – non l’autonomia fittizia degli esseri umani atomizzati, «liberalizzati» nella «libera concorrenza» sul «libero mercato». Indipendenza come ricerca e costruzione di autonomia, a partire da quella mentale. E, partendo da "pezzi" del sociale, sviluppo dell’autonomia nel sociale, nella sua relazione con lo sviluppo dell’individualizzazione. Solo un processo che sorga in e da aggregati sociali, che li avvolga e coinvolga, investendo l’esistenza concreta – nelle sue relazioni e nel suo "modo d’essere" – dei singoli individui che formano tali aggregazioni, solo questo può "funzionare": attecchire, procedere, svilupparsi.

XII

L’autonomia come processo di rivendicazione e di realizzazione della riappropriazione, per attuare, gestire e concretizzare la socializzazione, è, nel contempo, il punto centrale del progetto. Se ciò ha una valenza generale, per quanto riguarda il nostro paese va rilevato che non si ha nemmeno una sua effettiva e completa indipendenza statuale, al di là del riconoscimento della sua indipendenza giuridico-formale.

La pochezza asfittica della formazione dello Stato-nazione (detta «Unità d’Italia», «Stato unitario») – in particolare rispetto al ruolo culturale e civile per il mondo che il nostro paese ha ricoperto ben due volte (nel Mondo antico e nel Basso medioevo-Rinascimento) – è chiara: un aborto (sotto una monarchia straniera, ottusa e retriva, con una chiusa alleanza fra ridotta industria e agrari parafeudali – nel fallimento di ogni prospettiva sia di rivoluzione agraria, sia di unificazione federale, sia della stessa possibilità di una repubblica, e nella subordinazione già della sinistra risorgimentale alla destra liberal-monarchica), subito dimostratosi per ciò che era, feroce e repressivo all’interno, dando come via di sbocco ai "nodi" sociali quella dell’emigrazione (rendendo per la prima volta nella sua storia l’Italia paese di emigrati), e lanciandosi, appena un po’ piú consolidato economicamente (tramite supporti statuali alle maggiori imprese), in tentativi imperiali (peraltro di scarso successo), per poi infilarsi nella catastrofe della prima guerra mondiale, per contrastare, dopo, ogni trasformazione sociale, e perciò assumere il fascismo e il regime reazionario di massa che questo è stato, e, in seguito ancora, dopo i proclami di volitivo "maschio" protagonismo e le imprese imperiali del fascismo stesso, cadere nella subordinazione dell’Italia fascista alla Germania, sboccata nella catastrofe della seconda guerra mondiale.

Grazie all’episodio piú luminoso e significativo della storia italiana del Novecento, la Resistenza (formatasi "da sé", e poi raccolta, ed espropriata, dai partiti) – rivoluzione interrotta e anche tradita – si è giunti alla forma statuale repubblicana e democratico-rappresentativa, ma l’Italia della repubblica è passata alla subordinazione agli Stati uniti. E anche il ciclo di istanze e lotte piú recente – che, dopo i prodromi del ’63, dal ’68 si è protratto almeno fino all’80 – si è tradotto in una "modernizzazione" sociale e statuale, che non è fuoriuscita dal quadro della subordinazione agli Usa, connessa alla subordinazione agli «organismi internazionali» dominati dagli Usa e dalle potenze strettamente alleate, nonché dal grande capitale (transnazionale, ma sempre a prevalenza anglosassone), quali la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, etc., ivi compresa l’alleanza politico-militare della Nato, e ivi compresa la stessa Unione europea – non esiste nessuna «Europa unita», ma solo una gestione autoritaria da parte delle élites e della Banca centrale europea, sempre in subordinazione agli Usa (e perciò l’Ue si è ampliata cosí tanto e resta in indefinito ampliamento), sulla base del piú forsennato liberalismo-liberismo e dei derivanti «trattati» coartanti i popoli: l’Ue è solo uno degli organismi internazionali di dominio.

Questa subordinazione del nostro paese è ben indicata dallo strabordare dell’anglico (non si intenda il grande inglese, da Shakespeare a Dickens, Orwell, e cosí via, ma il basic anglostatunitense), usato sempre piú – una vera anglofagia – non solo da presunti intellettuali, quali gli economisti, dal linguaggio insopportabile dei managers, etc., ma da "gente" varia per darsi un tono, e diffuso anche a livello di massa a sostituire termini italiani già ben esistenti, mentre l’italiano affonda – e la lingua è il serbatoio del patrimonio culturale. Ed è ben indicata nella cosiddetta «cultura di massa» mediatica, imitazione costante del mondo anglosassone e calata nell’anglofagia culturale.

I soli momenti di ricerca di maggiore autonomia si contano sulla punta delle dita: l’Eni di Mattei (azione contenuta con la sua uccisione a opera dei "servizi", ben compenetrati da quelli statunitensi); la politica piú filo-araba di due personaggi piuttosto "opinabili", Craxi e Andreotti (che arrivarono a mandare forze armate italiane a Sigonella contro quelle Usa – il tutto concluso con la distruzione del sistema politico precedente, Dc e Psi inclusi, a partire dall’operazione «mani pulite» sull’intreccio tangentizio); le attuali iniziative, peraltro sgangherate e contraddittorie, di un personaggio anch’esso "opinabile", Berlusconi (relazioni con la Russia, gasdotto alternativo a quello Usa-Ue, soluzione delle relazioni con la Libia, minaccia di "blocco" della Commissione Ue, "altolà" alla Chiesa), per cui nella battaglia contro lui, la sua frazione politica, il suo governo, c’è anche questo "non detto": gli interessi alla subordinazione italiana.

L’ombra del mantenimento della subalternità dell’Italia si staglia sempre sullo sfondo della lotta politica "ufficiale" – ma il gioco si svolge di nascosto, e nemmeno traspare sui servili media – nello Stato italiano, fra frazioni e fazioni della «classe politica» e della classe dominante: perché l’Italia è troppo importante, per ciò che è stata e che rimane, nel cuore del Mediterraneo, sul piano geostrategico, geopolitico, geoeconomico, a livello mondiale, perché gli Usa e i loro alleati e «organismi» non cerchino di imporne e mantenerne il controllo. Poiché la sua subordinazione tende a farne solo un "pontone" al servizio di interessi economici e di potenza altrui, settori della stessa classe dominante non vogliono questa totale subalternità, ma cercano almeno una maggiore autonomia, un maggior ruolo – e ciò spiega la presenza (ma anche la debolezza) dei tentativi indicati.

A fronte di ciò, altra realtà italiana: la sinistra, prima subordinata alla politica di potenza dell’Urss e dunque non sostenitrice di una reale autonomia del paese, poi in progressivo distacco dall’Urss stessa, dopo l’implosione del «socialismo di Stato» ha saputo solo attuare il suo appiattimento dall’altra parte.

E cosí è stata la sinistra, con i "centristi" – insomma, il centrosinistra – a compiere le peggiori operazioni di subordinazione: dalla partecipazione diretta alla guerra, in ossequienza agli Usa e in violazione della Costituzione repubblicana, alla distruzione delle condizioni del lavoro e allo sviluppo del precariato, in ossequienza agli «organismi internazionali»; dall’appiattimento sui dettati Ue (con tanto di propugnata introduzione dell’euro, cosí com’è stato concepito al cambio con la lira, e come moneta circolante, e non di conto, il che è servito a dimezzare i redditi fissi) all’enorme svendita del patrimonio statale italiano (a partire dalla riunione sul panfilo reale inglese, «Britannia», nel ’92) – svendita attuata in nome del "modernismo" della «privatizzazione» e «liberalizzazione», e a tutti gli effetti un vero e proprio crimine ai danni del popolo. Ed è su tali processi aperti e portati avanti dalla sinistra, dal centrosinistra, che si sono poi situati la destra, il centrodestra, e li hanno continuati secondo la loro natura. È sempre per tali ragioni che i pur incerti e limitati tentativi di autonomia statuale sono rimasti "appannaggio" di destra e centrodestra – e di personaggi certo "opinabili"; ma va detto chiaro e forte che anche i vari personaggi della sinistra e centrosinistra non sono in niente da meno per "opinabilità". Per il resto, non sono certo destra e centrodestra, con i loro collegamenti a parte dei dominanti, che possono portare coerentemente avanti una battaglia per l’autonomia del paese – né, infatti, lo fanno (basti solo vedere la presenza militare dello Stato italiano in Afghanistan e altrove, al solo servizio degli interessi Usa, in palese contraddizione con le iniziative di autonomia).

In Italia, il processo (possibile, ma che resta per ora eventuale) di emancipazione sociale fondato sull’autonomia non può che connettersi e intrecciarsi con la rivendicazione di autonomia del nostro paese – per poter puntare a un’autonomia locale e regionale, occorre anche avere, o puntare ad avere, quella nazionale –, situandosi così nel contesto già dato delle spinte al multipolarismo contro il monocentrismo, ma mutandone il "segno" (e ciò vale per processi affini in altri paesi «avanzati»). Perciò occorre la messa in discussione degli «organismi internazionali», Ue inclusa, non accettando i diktat e la subordinazione a essi, non accettandola, e già cosí ponendoli in crisi – va da sé l’esigenza diretta di sgombrare il nostro territorio dall’occupazione delle basi militari (Usa e Nato). E l’Onu? Questo organismo mondiale degli Stati è subordinato alle maggiori potenze e alla predominanza della potenza ancora massima, perciò è stato svuotato di significato e funzioni, ed è servito da copertura alle potenze: ora è investito dallo scontro fra multipolarismo e monocentrismo, e ancora piú paralizzato – aspettarsene una riforma o autoriforma è un mero discorso retorico, perché l’Onu potrà solo seguire le sorti dello scontro in atto.

Il terreno (sempre possibile ed eventuale) di operatività è dato dal locale e dal regionale, il che implica l’interregionale, quindi il nazionale. Il contesto nazionale non può e non deve essere evitato, perché è solo in tale contesto che c’è qualche possibilità di avviare il processo. Ciò non esclude, anzi implica le relazioni con realtà e processi simili, o affini, o fattivi, a livello internazionale – e queste interrelazioni sono il vero internazionalismo possibile –, ma la dimensione nazionale non va smarrita nel confuso calderone del fittizio internazionalismo che accetta il terreno imposto dal modo di produzione, ossia il globalismo della «globalizzazione», terreno perdente in partenza perché è quello preposto dal "sistema", dove è di per sé impossibile individuare centri, "nodi", obiettivi e "leve" – no, quindi, alle modalità dei no global «altermondialisti», componente del "sinistrismo" subalterno (insieme a forze assistenziali, ecclesiastiche, etc.).

XIII

Il progetto di emancipazione sociale, l’eventuale possibilità di avviare il processo, l’obiettivo della sua traduzione nel movimento di emancipazione sociale – socialista –, non può che basarsi sugli esseri umani cosí come sono – non su come dovrebbero essere o si pensa che lo potrebbero –, collegandosi al versante fattivo che ancora pur sempre mantengono, al meglio che ancora sono, nell’impatto fra le contraddizioni crescenti del dispiegamento del "sistema" e aspirazioni estese a una vita decente, basata sulla decenza comune e sulla dignità ordinaria, che implicano un sociale accettabile e uno sviluppo possibile degli individui – e solo e unicamente cosí, se si aprirà una via di fuoriuscita, gli esseri umani potranno diventare quello che possono essere.

Progetto, processo, movimento che non hanno nulla a che fare con un partito o qualcosa di simile, e nemmeno con gruppi e associazioni che si pongano come motore, guida, direzione – partito in nuce. Anche le eventuali regole procedurali piú democratiche possibili di un partito, partitino, gruppo, associazione, etc., non bastano, perché non servono: non ne evitano il carattere di sovrapposizione al sociale nella scissione dal sociale stesso, anzi ne confermano, giustificandola e magnificandola, la sostanza di sfera del politico, quindi dello statuale, che a sua volta confluisce di per sé nel "far politica" – quindi nel déja vu, déja veçu, ossia negli scontati fallimenti (che dissolvono proclami e retoriche) e nei ripetitivi tradimenti (che rivelano la vera natura).

Il movimento di emancipazione socialista a cui mirare è l’organizzazione della parte – la «parte» del popolo: lavoratori e ceti alleabili –, la cui formazione coincide con l’inizio del processo di trasformazione sociale dalle radici. Perciò non si può in alcun modo basare su "capi", «gruppi dirigenti», macchinose procedure che stabiliscono «maggioranze» e «minoranze» – e nemmeno e tantomeno su quel "fare politica" inteso, com’è stato finora e continua a essere, come qualcosa "a sé", contesto separato e specifico: la politica deve essere subordinata, da subito, al sociale ed essere espressione delle sue esigenze e del suo "farsi".

A tal fine non occorre costituire e proporre un’organizzazione qualsiasi, con una qualsivoglia denominazione, a cui aderire – ciò ripropone sempre, pur sotto mentite spoglie, il partito. Occorre, invece, proporre, promuovere e sostenere l’autorganizzazione del sociale – cominciando dall’autoaggregazione, autoassociazione di suoi membri, "pezzi", momenti, parti.

Autorganizzazione che affronti anche singoli "nodi", temi e problemi, e ne supporti le iniziative relative, ma non vi si circoscriva e vi si limiti, e inquadri i singoli "nodi", temi e problemi, situandoli da subito nella costruzione e promozione della visione generale – radicalmente critica, da un lato, e nel contempo fattivamente propositiva, dall’altro: ciò richiede la prospettiva della socializzazione. Lo specifico «comitato» monotematico, unito sull’altrettanto specifico tema, ma diviso su tutto o quasi del resto, che si dice «né di destra né di sinistra» in quanto «comitato», ma che resta "al di qua" e non "al di là" di queste, mantiene nei suoi componenti referenze alle diverse forze politiche esistenti e resta quindi aperto alla presenza e azione dei militanti o simpatizzanti di queste stesse forze; rimane pertanto sempre subalterno (nonché di incerta efficacia), e anzi può concorrere a strozzare il processo possibile.

Autorganizzazione che si unifichi, fra specifici centri e "pezzi", in maniera federativa, dal "basso" in "alto", con organismi di raccordo fatti da persone designate "a termine", revocabili in ogni momento, a rotazione – ma, soprattutto, che si basi su una larga e approfondita condivisione e assimilazione della visione generale e delle visioni specifiche: nessuna costruzione di «unanimità bulgare», però nemmeno riproposizione delle «maggioranze» e «minoranze», bensí acquisizione della comprensione comune e importanza di ciascuno in tale acquisizione, perché solo ciò determina sviluppo e compattezza, decisione e individuazione delle stesse linee di azione.

Per queste ragioni è indispensabile non soltanto la messa a disposizione del livello di elaborazione già esistente – il che richiede un’attenzione costante a «separare il grano dal loglio» –, ma anche un’opera di vaglio, analisi, decrittazione – di decodificazione – della massa di "messaggi" riversati costantemente e capillarmente dai media nella loro funzione di "messa in forma" e di decerebrazione – insieme alla messa in circolazione di quanto non viene detto (occultato consapevolmente o escluso perché non includibile o neanche pensabile nell’"impianto" di "sistema" di tutti i media).

Chi ritiene di volersi assumere i compiti di elaborazione e promozione del progetto indicato non si deve e non si può considerare direzione, motore, gestore – né in maniera aperta ed esplicita, né in maniera sottesa e surrettizia –, ma solo una funzione, senz’altro necessaria e insostituibile, e tuttavia solo una funzione, nella verifica della possibilità, o meno, di avvio, eventuale o no, del progetto – e dell’auspicabile processo: se la possibilità si potrà tradurre in effettualità, in essa si tratterà poi di trasfondersi.

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Il progetto, la prospettiva, i compiti esposti sono senz’altro di estrema difficoltà, e tanto – forse troppo – vi si oppone: forse l’attitudine a delegare, a cercare un leader, è troppo radicata, o si traduce solo nel distacco rassegnato dagli interessi comuni, forse la situazione è troppo deteriorata, forse lo scoraggiamento è troppo avanzato, forse la decerebrazione è troppo proceduta … Forse.

Certamente quanto indicato può apparire impossibile – e forse lo è, forse risulta del tutto inattuabile al realismo, un "qualcosa" da lasciare all’irrealismo. Ma realismo e irrealismo non devono cadere ambedue nel non senso, come categorie ridicole, dato lo «stato di cose presente»? Precisamente ciò che appare impossibile e che forse lo è, nello stesso tempo è la sola e unica possibilità che rimane – di agire per la trasformazione sociale dalle radici di questo «stato di cose presente»: il resto è composto di "sostituzionismi", di occultamenti e autoccultamenti della subalternità di iniziative varie, quand’anche non è fatto di giri a vuoto, grida nel deserto, castelli di sabbia, acqua pestata nel mortaio.

E va assunto bene e a fondo che comunque la "faccenda" non verrà conclusa altrove – la soluzione non verrà né dall’Africa, né dall’Asia, né dall’America latina (continenti dove lo scontro fra multipolarismo e monocentrismo, intrecciato con conflitti locali, si basa sulla ricerca di un’indipendenza connessa al miglioramento delle condizioni di vita di almeno parte delle popolazioni locali, ricorrendo a un forte dirigismo e interventismo statuale, o anche a forme, piú o meno "intense", di «socialismo di Stato»: contrasti e affioramenti utili, fattivi, per concorrere ad aprire varchi e porre ulteriori condizioni per avviare il progetto e il processo indicati, ma credere che da qui venga il superamento del "sistema" è un’ennesima illusione, un’altra delega deresponsabilizzante – riproposizione del fideismo nel "faro-guida": "altri fanno e faranno", "li seguiremo …").

La fine – inizio del sormontamento del modo di produzione e dell’apertura all’"altro" e "oltre" – può venire posta, cominciando a fuoriuscire da questo mondo alienato, da questo spazio snaturante, da questo tempo sbagliato, unicamente e soltanto là dove tutto è incominciato. Ma certo va tenuto presente che, al contrario dell’adagio corrente, «il tempo (proprio perché sbagliato) non è galantuomo», non viene ormai ponendo per niente le «condizioni piú favorevoli» e non sta «costruendo le basi» di nulla. Al contrario, via via mina ogni possibilità: il tempo lavora contro.

In conclusione, è inevitabile la necessaria citazione dell’amarissima chiusa della marxiana Critica del programma di Gotha:

dixi et servavi animam meam.

Firenze, ottobre 2009

Mario Monforte