UN MONDO MASCHILISTA E VIOLENTO.
UN RAPPORTO DELL'ONU

di carla e beppe
 
Sapete che cos'è il date rape? E' lo stupro (o le botte) su appuntamento. Li
subisce il 40% delle ragazze americane tra i 14 e i 17 anni: escono per una
serata romantica con il boyfriend, che poi le costringe ad un rapporto
sessuale oppure le picchia. Altro caso: il 35% delle francesi denuncia
violenze psicologiche da parte del compagno sentimentale. Ancora: ogni anno
nel mondo 5.000 donne vengono ammazzate per "salvare l'onore", circa 3.000
solo in Pakistan.
Sono alcuni dei dati contenuti nell'ultimo rapporto ONU sulla violenza di
genere, un flagello mondiale che colpisce una donna su tre almeno una volta
nella vita e che in 89 stati sui 192 che compongono l'assemblea delle
Nazioni Unite non viene neppure punito. Una crisi globale, perché - come
afferma il rapporto - "la violenza contro le donne non è circoscritta ad una
specifica cultura, regione o paese, o a particolari gruppi di donne
all'interno della società". E' ovunque.
All'ONU non sfugge lo scopo di questa violenza: "mantenere l'autorità
maschile garantita dal patriarcato". Anche quando è nascosta tra quattro
mura "la violenza non è mai individuale", ma punisce la ribelle per aver
osato trasgredire le norme sociali. Hina Saleem ne è un chiaro esempio.
Le 139 pagine del rapporto descrivono le varie declinazioni della violenza
di genere. Che non è solo quella brutale delle botte, dell'omicidio, dello
stupro etnico o dell'aborto selettivo (in India 500.000 bambine mancano
all'appello), ma include l'anoressia e la bulimia: le giovani indotte a
diventare filiformi magari per apparire - mercificate - negli spot e in tv.
Come a dire che la violenza non è solo fisica, psicologica, economica, ma
anche sociale.
E di stato: in vari paesi non viene punito il marito che picchia e violenta
la moglie o abusa sessualmente delle figlie femmine, che impedisce alle
donne della famiglia di uscire di casa o che ordina la mutilazione genitale.
Non solo: a queste donne non è permesso votare, partecipare alla vita
politica, lavorare fuori casa.
Il giro del mondo attraverso le cifre è spaventoso. E, ma lo sapevamo già,
riguardano anche i paesi industrializzati. In Australia, Canada, Israele,
Sudafrica e Stati Uniti tra il 40 e il 70% delle donne assassinate, lo sono
dai mariti e dagli amanti. In Nuova Zelanda e in Australia almeno il 15%
denuncia di aver subito abusi o stupri da uno sconosciuto, e il 9% delle
teenagers americane (ancora loro) è stata costretta ad avere il primo
rapporto sessuale dal fidanzato di turno. In Perù si arriva al 40%. Le
lavoratrici devono difendersi dalle molestie sessuali in ufficio, una piaga
che coinvolge tra il 40 e il 50% delle donne europee e il 35% delle
asiatiche. A scuola: in Malawi il 50% delle ragazze dice di essere stata
toccata lascivamente dai professori o dai compagni di classe.
Poi esistono le pratiche tradizionali, quelle che coinvolgono la vita della
comunità e perpetuano il dominio culturale sulla donna: in 130 milioni hanno
subito la mutilazione genitale nel mondo, con percentuali del 99% in Guinea;
in Corea del Nord il 30% delle gravidanze viene interrotta volontariamente
non appena si scopre che il feto è femmina. Le famiglie asiatiche e
subsahariane spesso forzano le proprie bambine a sposare uomini molto più
grandi, o comunque uomini che loro, le ragazze, non avrebbero scelto. Non è
raro che i matrimoni coatti includano rapimenti, violenze fisiche nei
confronti della donna che si oppone, stupri o il carcere per le più
rivoltose. Una volta sposate, alle disgraziate può accadere che la famiglia
del marito non sia soddisfatta della dote: in India più di 6.000 donne sono
state ammazzate nel 2002 per questo motivo. Se il marito muore, la vedova
viene spinta al suicidio, oppure isolata dalla comunità, accusata di
stregoneria, persino uccisa da chi avrebbe il dovere di mantenerla, visto
che di lavorare non se ne parla.
Purtroppo non è finita qui. La tratta delle donne, la riduzione in schiavitù
e lo sfruttamento sessuale coinvolge 127 paesi di partenza e 137 di arrivo.
Fuori dai confini del crimine, a volte è lo stato a violentare le donne,
magari attraverso politiche di forzata sterilizzazione (in Europa praticata
principalmente sulle rom), stupri nelle carceri da parte degli agenti di
polizia, aborti coatti o gravidanze coatte (dove ad esempio l'aborto è
illegale).
Ma di certo la forma più grave è la violenza sulle donne come arma di
guerra. L'ONU stima che durante il genocidio del Ruanda del 1994 tra le
250.000 e le 500.000 donne siano state violentate e che tra le 20.000 e le
50.000 in Bosnia abbiano subito la stessa sorte. Per le milizie è un modo di
umiliare il nemico, impedire che si riproduca - nel caso le donne vengano
anche ammazzate - o (in Africa) diffondere il virus dell'aids.
La violenza di genere ha un costo, e lo calcola la Banca Mondiale. Un costo
psicologico e fisico per le vittime, innanzitutto: in Occidente il 5% dei
disturbi per le donne dai 15 ai 44 anni è imputabile alla violenza domestica
o allo stupro. Ma è anche un costo economico: programmi di sostegno, centri
antiviolenza, processi, incarcerazioni. Capitoli di spesa che ogni anno
costringono ad esempio il civilissimo Canada a sborsare un miliardo di
dollari canadesi. Per i paesi poveri, sicuramente meno propensi a recuperare
le vittime, la violenza di genere impedisce che una quota importante della
popolazione lavori e in generale contribuisca al benessere della società.
"Il rapporto svela l'importante ruolo giocato dai movimenti per le donne,
che hanno sollevato il problema a livello mondiale" dice il sottosegretario
generale ONU per gli affari economici e sociali José Antonio Ocampo. "Ora,
però, è un problema di tutti". Anche dell'ONU, dove il 63% dei componenti
del gabinetto sono uomini.
Laura Eduati [dal quotidiano "Liberazione" del 12 ottobre 2006.]

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DICHIARAZIONE DI RIFIUTO

Io, Omri Evron, rifiuto di servire nell’esercito perché intendo restare fedele ai principi morali in cui credo. Il mio rifiuto di arruolarmi è un atto di protesta contro l’occupazione militare protratta del popolo palestinese, un’occupazione che approfondisce e fortifica l’odio e il terrore fra i popoli. Mi oppongo alla partecipazione alla guerra crudele per il controllo dei territori occupati, una guerra condotta per proteggere le colonie israeliane e per mantenere l’ideologia della “Grande Israele”.

Rifiuto di servire un’ideologia che non riconosce il diritto di tutte le nazioni all’indipendenza e alla coesistenza pacifica. Non sono preparato a contribuire in alcun modo all’oppressione sistematica di una popolazione civile e alla privazione dei suoi diritti, così come essa viene effettuata dal regime dell’apartheid e dalle truppe israeliane nei territori occupati. Sono sdegnato per l’incarcerazione di milioni di persone dietro muri e checkpoint e per la fame che ne consegue. Mi rifiuto di arruolarmi perché non credo che la violenza sia una soluzione e che la guerra porti la pace.Mi rifiuto di servire le industrie degli armamenti, le aziende globali, gli avidi appaltatori, i predicatori di razzismo e i cinici leader, la cui attività è volta all’incremento della sofferenza e che deprivano le persone dei loro diritti umani basilari.

Il mio rifiuto serva a portare l’attenzione sul fatto che non tutti sono pronti a farsi indottrinare e cooptare per cause nazionaliste e razziste. Con questo atto voglio esprimere la mia solidarietà con tutti i prigionieri per la libertà in tutto il mondo. Mi rifiuto di credere alle bugie diffuse allo scopo di indurre divisioni e antagonismi fra i lavoratori delle due parti, così che essi non possano allearsi nella lotta per i loro diritti. Vorrei che il mio rifiuto fosse un messaggio di pace e di solidarietà e un appello, a coloro che uccidono e sono pronti a farsi uccidere per interessi che non sono i loro, a deporre le armi e a unirsi nella lotta per un mondo più giusto.Sebbene sia conscio che questo atto costituisce una violazione delle leggi israeliane, mi sento tenuto a mantenere i miei valori democratici, umanistici ed egualitari. Il governo militare di milioni di Palestinesi non è democratico. È mio dovere oppormi a qualunque legge che renda possibile privare altri dei loro diritti e della libertà, o trattarli con tale violenza da negare la loro umanità fondamentale.

Rifiuto di uccidere! Rifiuto di opprimere! Rifiuto di occupare!

Dichiaro la mia lealtà alla pace e rifiuto di servire la guerra e l’occupazione!

Omri Evron - Tel Aviv 12 Ottobre 2006

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STOP AL FEMMINICIDIO

Sappiamo da tempo immemorabile che la violenza non è il frutto dei "guasti" della società: i soprusi e i maltrattamenti fino alla morte sono il tormento continuo a cui le donne sono sottoposte per controllarne il corpo e "moderarle". Qualche volta non è necessario passare ai fatti: basta la paura della violenza.

Ci sono stati anni in cui noi donne eravamo colpevoli degli stupri che subivamo perché i nostri corpi, per il solo fatto di esistere, erano responsabili delle "sollecitazioni" a cui i maschi erano sottoposti. C'è voluta tanta fatica per non viverci come vittime e c'è voluto tanto coraggio per imparare a raccontare e, con il sostegno reciproco, trasformarci in testimoni.

Con il femminismo e l'autocoscienza abbiamo imparato ad avere confidenza con il nostro corpo, cercato di essere responsabili della sua integrità e inviolabilità, ma forse la memoria di tutto questo si è persa ed è diventato necessario parlare con le più giovani perché sappiano che non esiste il "mostro": esiste il vicino di casa, il compagno di scuola, il parente prossimo. Spesso le più giovani, proprio le più esposte, si sottraggono al confronto con le altre per paura di essere ricacciate nella miseria del genere, perché si illudono di essere quelle che hanno risolto il rapporto con l'altro. Salvo sperimentare poi che la libertà non migliora automaticamente i rapporti tra i sessi, semmai li rende ancora più conflittuali.

La legge che abbiamo conquistato è solo uno strumento per la nostra salvaguardia. Oggi noi donne dell'Udi intendiamo chiamare le istituzioni di questo paese alle loro responsabilità, che non riguardano solo l'applicazione della legge, ma anche le azioni politiche con cui hanno favorito, oppure ostacolato, la costruzione di rapporti civili tra i generi.

Tale civiltà non è data in natura e quindi ci aspettiamo azioni concrete che vadano oltre il generico sdegno. La civiltà comincia dalle parole, perché anche il linguaggio è sessuato e noi chiamiamo la violenza sessuata, e non più sessuale, per segnalare l'azione brutale di un genere sull'altro, e chiamiamo femminicidio la morte violenta di tante donne a causa del dominio estremo di un uomo su di una donna. Chiamarlo omicidio è un modo per camuffare le statistiche e far scomparire un fenomeno che è la causa prima di morte per le donne in occidente e nel mondo.

La violenza sulle donne è anche una questione mondiale, com’è sempre stato; oggi però siamo sommerse di notizie, i flussi migratori ci obbligano alla convivenza e sappiamo, con dati alla mano, che in ogni angolo della terra il genere maschile ha messo in atto tutte le storture e le torture possibili sulle donne pur di sottrarsi ad un rapporto reale.

Chiamano culture le diverse facce che il patriarcato assume per imporsi e chiamano famiglia la sua struttura primaria, quella in cui si regolano i rapporti tra i sessi e si controllano le donne e i bambini. Perciò non sarà dalla tanto proclamata salvaguardia delle culture, e delle famiglie, che le donne trarranno vantaggio, quanto dallo scardinamento di un ordine sociale e politico dove c'è uno che pensa, parla, decide, annullando violentemente l'altra.

Noi siamo contemporanee alla donna che abita l'altra parte del mondo e alla donna che dall'altra parte del mondo è venuta a vivere e a lavorare nel nostro paese: questo tempo è quanto abbiamo in comune per individuare strategie e per abitare liberamente il mondo.

Unione Donne in Italia (www.udinazionale.org <http://www.udinazionale.org>) - Roma 12 ottobre 2006

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UNA VIOLENZA STRUTTURALE

La cronaca delle nostre città è di nuovo segnata dalla violenza contro le donne, l'ultimo caso a Roma. Donne picchiate e segregate dai mariti, donne violentate per strada, nelle loro case, nei locali notturni "bene", donne provenienti da altri paesi ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi, donne sottoposte a ricatti sessuali sul lavoro.

Nessuna area della nostra società è esente da questa tensione distruttiva e oppressiva. E' possibile continuare a relegarla in cronaca nera? O non è necessario farne il centro di un'iniziativa politica e culturale? Dico politica perché credo che la violenza sulle donne sia espressione di un sistema di valori, di un modello di relazioni, di un'idea della sessualità, che deve essere posto al centro di una pratica collettiva di trasformazione.

Se la politica non è solo gestione delle istituzioni, ma conflitto nella società, è necessario aprire nelle nostre scuole, nelle nostre città, nei luoghi collettivi di partecipazione un grande conflitto per una diversa civiltà delle relazioni tra donne e uomini. Un conflitto che come uomo sento non come una minaccia ma come un'opportunità, uno spazio per aprire anche per me occasioni di libertà. Per questo con altri uomini abbiamo lanciato un appello ad una presa di parola maschile sulla violenza contro le donne che non si fermi alla denuncia e per sabato prossimo [il 14 ottobre - ndr], a Roma, proponiamo un incontro nazionale per rilanciare questa ricerca e l'iniziativa collettiva.

Al contrario la risposta emergenziale a queste violenze ha l'effetto di marginalizzare il fenomeno, di occultarne il carattere strutturale e pervasivo, di rappresentarlo come frutto di devianza, di patologie da porre sotto controllo, da reprimere. La violenza contro le donne dimostra così radici talmente profonde nella nostra cultura, nelle forme di organizzazione della nostra società, nel nostro immaginario, che anche le strategie istituzionali, le nostre reazioni indignate, le nostre condanne rivelano una inconsapevole complicità con l'universo che la genera.

L'allarme porta il governo e i comuni a una rincorsa a iniziative basate sul controllo e la repressione, videocamere nelle strade, sistemi di allarme per le donne, inasprimento delle pene. Ma considerato che in Europa la violenza dei partner è la prima causa di morte e invalidità delle donne tra i 25 e i 44 anni e che più del 90% delle violenze avviene nelle nostre famiglie, è evidente come queste iniziative risultino, non solo per molti versi inutili, ma fuorvianti e anzi tese ad alimentare un clima che condivide lo stesso universo culturale in cui la violenza si genera.

Quando la cronaca scopre il velo sulla storia di una donna picchiata per anni dal marito che si sente in diritto di imporle di non avere rapporti con altre persone, di tenere gli occhi bassi al ristorante, di non leggere riviste a lui sgradite, tutti inorridiamo all'ascolto di anni di violenze e sevizie: si tratta di una gelosia patologica, è un malato o un immaturo incapace di stare in una relazione percependo il proprio limite e riconoscendo l'altra. Eppure non è così. Non è frutto di una patologia. Non è una storia estrema, isolata.

Il desiderio maschile segna quotidianamente gli spazi sociali, oggettivizza i corpi delle donne e riduce il loro diritto di cittadinanza nei luoghi pubblici. E' un motore che muove montagne e attorno al quale ruotano miliardi di dollari l'anno. Si fa leva sul desiderio maschile per vendere auto, bibite, settimanali di politica ed economia. Per soddisfare il mercato indotto dal "desiderio" maschile nelle città dell'occidente, ogni anno migliaia di giovani donne vengono ridotte in schiavitù. Quando leggiamo della ragazza rumena portata con l'inganno in Italia, spesso da un amico di famiglia che la violenta, la costringe a prostituirsi per poi venderla, rimane in ombra il fatto che se i "gestori" sono stranieri i "consumatori" sono italiani. E italiani di tutte le classi, di tutte le età, che pagano per poter fare sesso senza la "fatica" di una relazione, per sentirsi forti, per chiedere e ottenere quello che vogliono, per complicità col gruppo di amici con cui si passa insieme la serata, per un'idea di sesso che è bisognoso di uno sfogo frettoloso, in una strada di periferia.

Ma non solo la violenza contro le donne è sessuata. Anche le esplosioni di violenza che segnano la cronaca quotidiana delle nostre città parlano di uomini che uccidono per un banale diverbio, che sterminano la famiglia dopo un licenziamento o per un conflitto economico. Anche in questo caso si tratta di una violenza fatta da uomini strettamente legata al loro essere uomini. Un uomo che subisca un'offesa, perde l'onore su cui si fonda la sua virilità. Non può sopportarlo, come non può sopportare una donna che gli dica di no o che lo lasci.

Ogni storia ha una svolta quando quella donna smette di essere e di percepirsi vittima, la donna picchiata che chiede il divorzio, la ragazza rumena che denuncia il suo "protettore". Eppure la legge, l'immagine televisiva, il senso comune continuano a vederle vittime: donne e bambini bisognosi di tutela più che portatrici e portatori di diritti. Le donne vittime e gli autori di violenza ridotti a marginalità, devianza, patologia. Resta invisibile il sottile filo che lega tutti alla comune appartenenza a un universo maschile, comune nella sua variabilità.

Che immagine del maschile emerge da queste storie? Uomini incapaci di stare in una relazione con una donna riconoscendone l'autonomia e la libertà e portati a esprimere la propria frustrazione in una violenza che paradossalmente diviene misura della propria passione o del proprio dolore.

Non basta denunciare la violenza, non basta stigmatizzarla, ridurre in una prospettiva di "civilizzazione dei costumi" quella che è invece, per me, una domanda di senso sulle relazioni tra le persone e degli uomini con se stessi. Non possiamo combattere la violenza con il richiamo a una virilità che ne è stretta complice, ridefinendo un ordine che interdica il "naturale istinto predatorio maschile" o ne regoli l'espressione, ma esplorare, reinventare e rivivere questo desiderio, senza rinunciarvi. Costringere una donna ad un rapporto sessuale, comprare sesso lungo un viale di periferia, vivere la sessualità come il portato di un bisogno fisiologico "basso" e per sua natura predatoria: cosa mi dicono queste cose, oltre alla dimensione di violenza che le segna e all'inscindibile legame col potere, se non una desolante miseria? Dobbiamo riuscire a leggere questa miseria e proporre a noi e agli altri uomini un'altra vita, un'altra qualità delle relazioni e della sessualità. Per uscire dalla violenza, ma anche per noi.

Stefano Ciccone (dal quotidiano "Liberazione" del 12 ottobre 2006)

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PATRIARCATO E VIOLENZA: INCONTRO A TRIESTE

La violenza contro le donne è certamente una costante da quando il patriarcato ha preso il dominio sul mondo. Basta rileggere "Il piacere è sacro" di Riane Eisler (ed Frassinelli) e la ricostruzione documentata del passaggio dalla "cooperazione" alla "dominanza": con le pratiche della violenza e della minaccia gli uomini hanno imposto e ottenuto sottomissione, non solo delle tribù sconfitte, ma anche delle donne e dei figli della propria tribù.

Ma è anche una costante la ribellione a questo ordine sociale e simbolico, in nome del desiderio di una vita vissuta all’insegna della libertà, dell’autodeterminazione e del rispetto reciproco. In questa ricerca ci aiuta Gabriele La Porta ("Il ritorno della Grande Madre", ed Il Saggiatore), individuando il filo rosso che lega, attraverso i millenni, le donne e gli uomini che hanno mantenuto viva la fiammella della speranza e della libertà: di pensiero e di vita.

E così ci è successo di ritrovarci a Trieste, il 6 e 7 ottobre scorso, 3 uomini in mezzo a 150 donne, a scambiarci riflessioni e racconti in un convegno organizzato dalle donne di El Fem della Sinistra Europea. Nello stesso periodo in cui circa 500 uomini in Italia hanno sottoscritto un "Appello di uomini contro la violenza alle donne", anche se poi, alla successiva assemblea, dei 500 era presente un’esigua minoranza.

Così ha gioco facile chi sollecita i Gruppi Uomini a "correre" invece di limitarsi a "camminare". Le donne e, con loro, bambini, omosessuali, transessuali, poveri, stranieri... e la natura, gli animali, l’ambiente ecc., hanno giustamente fretta di veder cambiare gli uomini, il maschile: dalla dominanza alla cooperazione. Ma questo non è, secondo me, un problema di velocità. Come quando le donne di Via Dogana a Milano hanno dichiarato, sul Sottosopra rosso, che "il patriarcato è morto", così posso testimoniare che la stessa cosa avviene nel cuore e nelle pratiche di vita degli uomini che "muoiono al patriarcato", sottraendogli consapevolmente riconoscimento e consenso. Anche per loro il patriarcato è morto: entrano in un altro ordine simbolico, quello della parzialità e della cooperazione, della reciprocità e della convivialità di tutte le differenze, a cominciare da quella originaria tra uomo e donna.

Si tratta quindi, piuttosto, di moltiplicare gli uomini che si mettono in cammino di cambiamento. Questa è la questione centrale, secondo me. Occorre che gli uomini, che avvertono questa urgenza dentro di sé, intraprendano innanzitutto questo percorso personale, lavorando al cambiamento a partire ciascuno da sé; e, insieme, invitino amici, conoscenti e compagni a fare altrettanto, mettendosi in gruppo per sostenersi reciprocamente e moltiplicando i punti di autoformazione. Quando penso alle dichiarazioni di Giordano, segretario nazionale di Rifondazione, a commento dell’Appello degli uomini contro la violenza alle donne, mi viene spontaneo chiedergli di dar seguito con coerenza a quelle parole, stimolando, ad esempio, la nascita di gruppi di autocoscienza maschile in ogni sezione territoriale di Rifondazione.

E così gli altri partiti, le Organizzazioni Sindacali, le chiese... Tutte le "agenzie di formazione" dovrebbero prevedere percorsi di consapevolizzazione intorno a parzialità e differenze, cominciando da quelle di genere. Quanti uomini verrebbero così coinvolti in questo processo di ricerca di un mondo davvero diverso dall’attuale, sostituendo la politica del potere e del denaro con la politica delle relazioni! Il cambiamento è un lavoro lungo: quanta pigrizia, quanta resistenza, in me, alle sollecitazioni delle donne! Quanti angoli bui permangono... Ma ormai il passo è stato fatto e i miei compagni di strada mi aiutano a non tornare indietro.

A Trieste una donna francese ha affermato che "tocca agli uomini convincere gli uomini"... e sembra, a prima vista, un’ovvietà. Ma l’esperienza mia e quella di altri "uomini in cammino" parlano di motivazioni che nascono dal desiderio di relazioni appaganti e felici con la propria compagna di vita. Nessuno può convincere un altro. Ognuno può solo lavorare su di sé, dentro di sé, a partire da sé. Ma è decisiva la qualità delle relazioni. E le relazioni sono di per sé formative, in bene o in male. Le madri che allevano i figli maschi come "sultani" e le figlie femmine come "ancelle" sono funzionali al mantenimento della cultura patriarcale, di cui sono vittime inconsapevoli. Quindi mi sembra di poter affermare che il compito di "convincere gli uomini" non lo si può affidare ad altri, non è una "cosa da uomini", se si vuole andare fino in fondo al tentativo di "abbattere i potenti dal trono".

La sinistra e la legge

Uno dei temi al centro del confronto nelle due giornate di Trieste è stato "la legge e le leggi": quello che le leggi possono fare per combattere la violenza nella società e tutelare i diritti delle persone. Angela Azzaro è stata, a mio parere, molto convincente: il "diritto" che conosciamo è quello "del padre" e titolare di diritti è, coerentemente, la famiglia, laboratorio di gerarchie e di dominio, di cui il padre è capo. Il grande spostamento che dobbiamo realizzare è verso il riconoscimento che i diritti sono e devono essere "individuali".

E il campo di apre. La parzialità consapevole si radica nell’essere, uomini e donne, irriducibilmente differenti: non ci si può rappresentare a vicenda; il diritto del padre non può essere uno strumento adeguato a garantire donne e minori. Quindi gli uomini devono consapevolmente mediare con le donne l’esercizio del potere legislativo e, per realizzare ciò, è imprescindibile che il Parlamento sia realmente rappresentativo dell’irriducibile differenza tra donne e uomini. La necessità di questo cambiamento culturale, simbolico e materiale, significa anche che non è credibile che oggi gli uomini possano fare leggi adeguatamente favorevoli alle donne e alle risposte ai loro bisogni materiali e simbolici. Gli uomini della sinistra si devono interrogare in proposito. Anche perchè, poi, leggi "favorevoli alle donne" non possono riguardare solo la violenza sessuale, ma anche quella ambientale, quella della mancanza e precarietà del lavoro, e via elencando. Cioè tutti i temi su cui la sinistra ha qualcosa di specifico da dire; ma, per uno spostamento reale verso una società di uguali nella diversità, la sinistra deve essere consapevole che ciò significa riconoscere e mettere in campo le due irriducibilità, cioè gli uomini e le donne.

Il linguaggio

Infine (non per esaurimento dei temi, ma per il mio desiderio di coglierne alcuni su cui lavorare con impegno) è stato molto gettonato, a Trieste, lo spostamento simbolico dell’attenzione dalle donne vittime alla violenza maschile e al patriarcato dominante. Il "cambiamento degli uomini" deve diventare tema centrale dell’elaborazione e dell’iniziative, non solo da parte dei piccoli e ancora pochi gruppi di uomini, ma anche delle donne, che a Trieste hanno lanciato un appello per una campagna europea contro la violenza maschile.

"La cultura patriarcale è un elemento costitutivo dell’identità maschile", ha affermato una donna. Non solo gli uomini della sinistra, ma ogni uomo deve interrogarsi su questo: tutti i politici, ma anche i preti, i magistrati, i poliziotti, i sindacalisti... ogni uomo, a cominciare da me. Mettere al centro della nostra analisi e del nostro fare politica la consapevolezza della violenza "radicale" del patriarcato, nel senso che sta proprio nelle radici dell’ingiustizia che regola le relazioni tra gli uomini e tutte le altre creature.

L’invito di Angela Azzaro a costruire anche un "linguaggio comune" mi sembra un ulteriore incentivo a rendere praticabile lo scambio, pur nel riconoscimento delle rispettive irriducibili diversità. Il linguaggio aiuta la migrazione consapevole dall’ordine simbolico del padre (il patriarcato) a quello della madre. Io resto convinto che di questo si tratta, quando parliamo della convenienza, per le donne e per il mondo, dell’abbandono del patriarcato da parte degli uomini. Forse assegniamo significati diversi a queste parole; ma di quella convenienza resto assolutamente convinto, anche per me e per ogni uomo mio fratello.

Beppe Pavan

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PERCHÈ È NATA L'ASSOCIAZIONE UOMINI CASALINGHI

Da diversi anni ormai la donna, attraverso le battaglie e l'impegno che tutti conosciamo, ha bene o male ottenuto gli stessi diritti dell'uomo in campo sociale. I diritti! Ma i doveri? Si potrebbe affermare che gli uomini in ambito domestico abbiano gli stessi doveri che implicitamente sono richiesti alle donne? Adesso ci troviamo nella faticosa situazione in cui l'impegno femminile in campo lavorativo non è affatto sostenuto dagli uomini in campo familiare.

Quando nasce un bambino si mette alla porta un fiocco celeste, se nasce una bambina un fiocco rosa. Crescendo però la donna inizia ad usare anche il celeste, mentre per i maschi non avviene mai lo stesso. Nel senso che durante l'evoluzione dei due individui è sempre la donna che fa proprio anche il campo maschile, ma non è mai il contrario; perchè? Perchè deve essere considerato umiliante o disdicevole da parte dei maschi tutto ciò che è pertinenza femminile? La separazione dei sessi viene rigorosamente tenuta viva fin dall'infanzia, a partire dai giochi, che sappiamo bene quale importanza rivestano nella formazione degli individui, alla diversa impostazione emotiva nei confronti degli eventi della vita, dove la donna può piangere e l'uomo, se è forte e valente, no.

Quando si cresce e ci sposiamo, la donna viene accompagnata all'altare dal padre e simbolicamente consegnata ad un altro uomo e lì entra a far parte della famiglia di lui, con perdita del più prezioso requisito sociale, l'identità. Infatti in molti paesi del mondo alle donne all'atto del matrimonio viene cancellato il proprio cognome e sostituito con quello del marito. In Italia ci limitiamo a denotare questa situazione mantenendo il nome alla donna ma specificando "in"... Non è anche questo un profondo segnale di disparità, visto che non è reciproco? E che dire poi del divieto imposto alla donna di trasmettere il proprio cognome ai figli? Anche volendo, non può farlo perchè la legge lo impedisce. Abbiamo allora davvero gli stessi diritti e gli stessi doveri? o piuttosto continuiamo il processo iniziato nell'infanzia percorrendo due rotaie parallele, destinate ad incontrarsi solo in un punto all'infinito che non esiste perchè solo apparente?

Ancora oggi, nonostante tutti gli sforzi tesi al cambiamento, rimangono attivi i principi per cui se una donna non sa svolgere le attività domestiche non è considerata una donna completa, mentre i maschi sono osannati appena mettono una pentola sul fuoco. Ma partecipare coscientemente ad un menage familiare è altro e deve assolutamente passare attraverso un cambio radicale di mentalità prima ancora che di fatto. Questo è lo scopo dell'Associazione: far sì che il lavoro domestico entri a far parte del pensiero maschile come un'evidenza quotidiana. Se iniziamo noi uomini a sentire questa attività come normale nella nostra vita, lentamente le barriere di genere si andranno estinguendo, fino ad arrivare ad un futuro, spero molto prossimo, in cui ogni individuo, al di là del proprio sesso, sarà libero di svolgere l'attività che più gli aggrada senza subire il peso della discriminazione. Nessun uomo sarà mai felice di dichiarare che è un casalingo se a questa professione non si comincia ad attribuire una dignità sociale. E nessuna donna arriverà mai ad ottenere un elevato peso sociale se non le si consentirà di trasmettere il proprio nome ai figli che proprio lei ha generato.

Fiorenzo Bresciani (da “La NewsLetter on line dell’Associazione Uomini Casalinghi” del 6.11.06)

LA VIOLENZA DEGLI UOMINI

"La violenza contro le donne ci riguarda" dicono i firmatari. "Noi pensiamo che la logica della guerra e dello ‘scontro di civiltà’ può essere vinta solo con un ‘cambio di civiltà’ fondato in tutto il mondo su una nuova qualità del rapporto tra gli uomini e le donne" scrivono. (...) A scorrere le firme non se ne riconosce quasi nessuna dei cosiddetti opinion leader, di quelli che producono senso comune alla tv o sui giornali. Ed è inevitabile chiedersi se non si tratti di uno sforzo tanto generoso quanto velleitario, perché il ‘cambio di civiltà’ non può che essere un processo lungo, che attraversa le generazioni e le moltitudini. Ammesso che sia possibile. Ma è forse la prima volta che percorsi individuali o di piccoli gruppi maschili di autocoscienza provano a darsi una comunicazione corale e pubblica. E' un inizio, un segnale da guardare con occhio discreto e non invadente. Da rispettare. C'è, in verità, molto pessimismo anche tra le donne. Letizia Paolozzi, ad esempio, difendendo l'invito alla prudenza rivolto dal prefetto Serra alle ragazze, sostiene che, anche se la parità sta ormai nell'agenda dei governi, "un elemento è rimasto uguale al passato: il fatto che la sessualità maschile sia e resti - in molte, troppe occasioni - ingovernabile" (www.donnealtri.it). E Marina Terragni si chiede su "Io donna" se "il dominio della donna" sia "costitutivo dell'identità di un uomo" o possa farne a meno. E se autonomia femminile e integrità maschile possano tenersi insieme. Credo che a molte di noi, come a Terragni, piacerebbe ragionare con gli uomini di questo. Per capire se è e sarà necessario continuare a non fidarci di loro.

Franca Fossati [Dal sito di "DeA - donne e altri" (www.donnealtri.it)]

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AFGHANISTAN: BAMBINI

Lashkargah, 31 ottobre 2006. Non so come si chiamino, non so nemmeno quanti anni abbiano. Non erano molto in condizione di dirlo. Sono cinque "presunti talebani" arrivati questa sera nell'ospedale di Emergency a Lashkargah, nel sud dell'Afghanistan. Sono arrivati dall'area di Kajaki, nella zona orientale della provincia di Helmand, dopo un viaggio di ore nel deserto e nella polvere. Ma sono arrivati, e per questo già sono stati fortunati.L'uomo che li ha accompagnati fin qui ci ha raccontato che le bombe hanno cominciato a cadere sul loro villaggio lunedì sera. E ancora e ancora bombe, ininterrottamente, fino a martedì mattina. Due dei cinque "presunti talebani" (o talebani, quando si fa in tempo a camuffarli) sono figli suoi. Gli altri tre sono bambine kuchi, i nomadi dell'Afghanistan. Sono arrivate accompagnate dalla sorella più grande. Ma nemmeno lei ha le parole per dire i loro nomi e la loro età.

Non ha parole più nemmeno per urlare la sua rabbia verso il destino, la sorte, magari dio, o magari verso quei mostri di metallo che sorvolano l'Afghanistan lasciando cadere ordigni che spianano case, villaggi e vite umane nel nome della santa guerra al terrorismo, quella che George W. Bush dice di portare avanti per conto di dio. Non un gemito, mentre le pinzette sfogliano via la pelle bruciata dal loro corpo. Non un lamento. Solo gli occhi vagano da una faccia all'altra degli infermieri e dei medici che li circondano accudendoli con quanta più delicatezza è possibile.

Dalla redazione di "PeaceReporter", a Milano, mi dicono che nel nostro civile mondo non ci sono ancora notizie di questo bombardamento. Come probabilmente non ce ne saranno nemmeno domani. Ogni giorno arrivano "presunti talebani" negli ospedali di Emergency da paesi e da villaggi anche lontanissimi di cui nessuno sa nulla. I cui morti non vengono contati. E che non hanno nemmeno l'onore di ricevere le scuse della Nato. "Incidenti", anche loro. Criminalmente nascosti dal grande circo dell'informazione che spedisce i suoi inviati sulle tracce di questo o quell'occidentale scomparso, ma non si degna di fare tre passi o semplicemente voltare lo sguardo per raccontare quello che succede ogni giorno in Afghanistan: decine, centinaia di bambini come questi, che vengono bruciati vivi dal nostro umanitario intervento.

Maso Notarianni [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) - 31.10.06]

IL MIO SOGNO: LA  FINE DELLE PASTOIE

Ho letto “Il Vangelo di Giuda” di Simon Mawer (Il Saggiatore, Milano 2001), davvero “un affascinante trhiller letterario”, come c’è scritto sulla copertina. In effetti ricorda un po’ Il nome della rosa di Umberto Eco, con quell’atmosfera carbonara e coinvolgente che circonda la scoperta e la decifrazione di antichi papiri. Due spunti, su tutti, mi hanno stimolato pensieri.

Lo strumento più forte di potere

La fede del protagonista, prete studioso, va in crisi quando l’autore del testo che si ritrova ad indagare e che appare come un quinto Vangelo, scritto da Giuda Iscariota, sostiene di avere le prove che Gesù non sia affatto risorto, ma che il suo corpo sia stato trasferito in una tomba segreta, per evitare subbugli. In realtà, leggendo con attenzione, quella che gli appare vacillante, per effetto di una simile scoperta, è la Chiesa Cattolica e la sua “vita quotidiana”.

Questa è una preoccupazione ricorrente, direi quasi un timor panico: ogni volta che qualcuno osa mettere in dubbio la divinità di Gesù, che la resurrezione dopo morte dimostrerebbe in modo inoppugnabile, scatta la paura di veder crollare la Chiesa. Ecco ciò che veramente importa: la sicurezza offerta da un’istituzione sociale che è, insieme, lo strumento più forte di potere in mano agli uomini. Ma perché poi dovrebbe crollare la Chiesa, se venisse universalmente riconosciuta la sua origine semplicemente umana? “La chiesa sopravviverà a questo come è sopravissuta a ogni altro attacco nel corso dei secoli” afferma con sicurezza un suo collega studioso a pag 244.

Forse, mi viene da pensare, quello che si teme è la fine dei privilegi, che conseguirebbe inevitabilmente allo svelamento dell’inconsistenza dell’autorità assoluta, di origine divina, di cui la casta dei chierici si è autorivestita nel corso dei secoli. A questo serve il dogma della divinità di Gesù; e a ostacolare la ricerca o a giustificare l’indifferenza o l’avversione con cui se ne accolgono i risultati quando appaiono scomodi.

Non è un modello

Dopo l’incontro con il vescovo, a cui rivela di essere innamorato di una donna, nella penombra di una chiesa “Leo avvertì la fine di molte cose: della sua fede, della sua vocazione, delle sue pastoie” (p 165). La fine delle pastoie! Io l’avevo vissuto, quel momento, con un grande respiro di libertà, anche se non ero ancora prete. Libertà da una vita artefatta, di cui andavo percependo il peso insopportabile per le mie spalle. Ma una domanda mi ha accompagnato fino ad oggi, alimentando una sottile testarda inquietudine: per dedicarsi “agli altri”, per coltivare nella vita un impegno totale, bisogna davvero essere soli e sole, celibi e nubili, vedovi e vedove? Davvero l’amore e la famiglia sono un impedimento?

Mi sembrava vero per i preti, poi l’ho visto (e parzialmente vissuto) anche nel sindacato, dove la famiglia tende spesso ad entrare nel novero degli impegni da tempo libero, e in certe figure di operatori e operatrici del sociale... E’ un modello di vita che affascina indubbiamente, quando lo vediamo incarnato in persone che si dedicano con convinzione e gioia alla “missione” che hanno scelto per la propria vita. Ma ha un difetto: non è proponibile a chi non ha uguale disponibilità. Quindi, non è un “modello”. Ed è, mi sembra, anche poco democratico, dal momento che attira su di sé, proprio in virtù della disponibilità senza limiti, aspettative e deleghe. Diceva Enzo Mazzi, raccontando l’evolversi dell’esperienza comunitaria all’Isolotto, che le persone “semplici”, prive di “cultura intellettuale”, tendono a delegare gli esperti, a pendere dalle loro labbra. In ultima analisi, a non pensare con la propria testa e a non mettersi in gioco in prima persona.

Finisce così che qualcuno/a, magari senza volerlo, continua a stare sul piedestallo della superiorità, da cui insegna, guida, ascolta, aiuta, sostiene, si dedica... perché sa, pensa, studia, partecipa... E, facendo tutto questo, domina, mantiene altri e altre in soggezione, in bisogno di aiuto, che lui solo, lei sola e pochi/e altri/e come lui/lei sanno e possono dare. E’ la cultura patriarcale, il “modo” che Mazzi chiama “pedofilia strutturale”.

Come uscirne? L’unica strada che mi sembra “conseguente” è quella che si cerca insieme. Nessuno/a può avere la formula da suggerire. Anche qui mi sembra illuminante la riflessione di Enzo Mazzi: ogni esperienza porta con sé il proprio limite. Le mie ricerche - di fede, di relazione, di studio... – valgono per me, per “dare vita ai miei anni”; con un effetto collaterale: semino speranza nel terreno del creato. Questo vale per ciascuno e ciascuna di noi. Non dobbiamo costruire modelli da lasciare in eredità: ognuno/a scelga le proprie modalità in totale libertà.

Possiamo solo, forse, individuare e riconoscere i modelli da abbandonare, come quello della superiorità, della disparità tra le persone. Se davvero ci riuscissimo, ci sarebbe più spazio per più amicizia, si vivrebbe in un mondo senza dominanti. Quindi è molto probabile che avremmo tutti e tutte meno problemi. Ci sarebbero più ascolto e aiuto reciproci, meno bisogno di specialisti a tempo pieno (psicologi, preti, psicoterapeuti, sindacalisti, assistenti sociali, ecc...) per cercare di riparare i danni causati dalla disparità e dal dominio... perpetuandolo, in realtà, perché anche loro, dall’alto della loro specializzazione professionale, dominano chi di loro ha bisogno e da loro finisce per dipendere.

Se noi uomini imparassimo a vivere davvero alla pari le nostre relazioni, cominciando da quelle di genere e da quelle familiari e domestiche, contribuiremmo efficacemente a generare un mondo meno frustrante; non avrebbero più senso seminari, caserme, collegi... luoghi della formazione alla superiorità e al dominio, per la conservazione del modo patriarcale di stare al mondo. Ci sarebbero più libertà e più felicità...

Beppe Pavan

LE MEDAGLIE  E  I  RAGAZZI

Mio padre era nativo dell'Oregon e ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Anch'io sono nato in Oregon e sono un veterano del cosiddetto "conflitto" in Vietnam. Combattendo nell'esercito Usa ho, come mio padre, visto la mia parte di morte e di rovine, da ambo le parti.

Ora, due dei miei figli continuano a ricevere volantini che incitano al reclutamento da differenti corpi dell'esercito. Sebbene io ami il mio paese quanto chiunque altro, incoraggerò i miei figli a fare ciò che io non feci negli anni '60, e cioè a rifiutarsi di andare ad uccidere persone innocenti in altri paesi, in una guerra nata dalle menzogne, solo perché i tuoi governanti ti dicono di farlo.

George Bush, Donald Rumsfeld, Dick Cheney: quante onorificenze avete tutti voi messi insieme? Io ho quattro "Stelle di bronzo" e ho quattro ragazzi. Le posso restituire le medaglie, signor Bush, ma non avrà mai i miei figli.

Ron Allen (da La domenica della nonviolenza del 5.11.06)

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I  CLIENTI  AUMENTANO...

“... Ed è sconvolgente che sui marciapiedi stiano arrivando ragazze sempre più giovani, bambine addirittura. Purtroppo arrivano perché sono molto richieste. Emerge una pedofilia ben più diffusa di quel che pensiamo, in un’epoca in cui sembra che molti uomini abbiano mollato i freni inibitori. (...)

Ho trovato illuminante la storia di Natasha, la ragazzina austriaca tenuta prigioniera per tanto tempo in quella cantina dal suo rapitore. E’ come se lui avesse ripetuto per anni e anni quel che un cliente fa nell’incontro di una sera. L’aveva segregata per usarla come una cosa sua. Era in questo il suo piacere, era nell’idea di dominarla, di decidere ogni momento della sua vita, probabilmente più che negli incontri sessuali. (...)

Mi ha colpito molto sentire alla televisione l’intervista ad un uomo sulla quarantina, sposato e padre di due figli, che va due volte a settimana con una qualche prostituta. Quando gli hanno chiesto perché, lui ha risposto con queste precise parole: ‘Compro questa ragazza e ne faccio quello che voglio’. Ecco, nella sua brutalità è l’immagine perfetta di quel che spinge oggi un uomo a cercare sesso a pagamento senza neanche preoccuparsi se la donna che paga è lì per sua volontà oppure no. Parole come piacere ed erotismo lo interessano poco. (...)

Gli uomini devono mettersi in testa che andare a letto con una prostituta straniera spesso vuol dire incoraggiare la malavita internazionale, sostenere i racket. In certi casi vuol dire anche diventare complici di reati gravi, di abuso di minorenne, di sequestro di persona. (...)

Non capisco perché chi compra merce rubata da un ricettatore non può cavarsela dicendo ‘ma io non sapevo’. Mentre un signore che carica una ragazzina in macchina non è tenuto a valutare la sua età, a informarsi. (...)

Non è possibile indignarsi per la tratta di raccoglitori di pomodori e chiudere un occhio sulla tratta delle donne. (...)

Anche la schiavitù sembrava indistruttibile e invece è tramontata. Può anche risorgere qua e là, ma è bollata come intollerabile in tutto il mondo civile. Spero che prima o poi succederà la stessa cosa per il mercato delle donne.

(Dacia Maraini intervistata da Chiara Valentini – L’Espresso del 2.11.06)

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IL POTERE TRA I SESSI

UNA  CONVERSAZIONE  CON   ADRIANA  CAVARERO

[Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo il testo della seguente conversazione tenuta al liceo scientifico "Isaac Newton" di Roma e trasmessa nel programma televisivo della Rai "Il grillo" del 10.11.98. Adriana Cavarero è docente di filosofia politica all'Università di Verona]

- Studente: La pornografia rappresenta un'espressione del potere oppure un'espressione della libertà dell'individuo?

- Adriana Cavarero: A mio avviso costituisce un'espressione del potere, perché la pornografia occidentale - parlo dell'Occidente perché non conosco l'Oriente - vede come oggetti del desiderio donne e bambini, ossia proprio quegli individui che sono messi in posizione inferiore nell'ordine sociale. Inoltre il corpo ritratto viene offerto ad uno sguardo di tipo "cannibalesco", che fruisce di ciò che è inerte, di ciò che non partecipa, e che si nutre di quello che è posto di fronte ad esso a mo' di strumento di eccitazione: tutto ciò fa chiaramente parte di un organigramma del potere e non coincide mai con la libertà. Forse tu ti riferivi alla libertà di stampa e di opinione...

- Studente: Ma anche alla libertà individuale dell'attrice o della ragazza che si presta a sfruttare il proprio corpo per denaro, anche se probabilmente questa non è libertà, perché la donna si pone come oggetto.

- Adriana Cavarero: Io non la intendo come una libertà: è semplicemente un modo per guadagnare soldi - alcune volte molti soldi - che, all'inizio, ti permettono di sopravvivere. Da un punto di vista umano posso comprendere un individuo che debba vendere il suo corpo per denaro, ma non riterrei mai questa azione come un'espressione di libertà, anche perché la persona in questione si troverebbe nella necessità di fare qualcosa per sopravvivere.

- Studente: Crede che una scelta del genere sia sempre dettata dalla necessità di sopravvivere o pensa che a volte si provi piacere nell'agire così?

- Adriana Cavarero: Ritengo che la sessualità umana sia estremamente complicata e che, anche in questo caso, contenga elementi di piacere. E' molto difficile definire cosa sia la libertà sessuale, bisogna però non cadere nello stereotipo - che per la prima volta sento tirare in ballo da un ragazzo, mentre di solito è più comune presso i miei coetanei maschi - secondo il quale in certe situazioni di sfruttamento, quali la pornografia o la prostituzione, la donna prova piacere. Tutto questo fa parte di un immaginario maschile; è frutto del desiderio maschile di possedere una donna oscena e scatenata, un essere dalla sessualità perduta, completamente opposto alla sessualità delle donne che lo accudiscono: egli, infatti, non vorrebbe mai che la mamma, la sorella e la moglie fruissero di questo tipo di libertà sessuale. In secondo luogo, si pensa che la donna provi piacere a fare la prostituta o a esporre il suo corpo perché si crede che il soggetto - vale a dire l'uomo - sia di per sé così affascinante e così capace di far godere da far sì che lei non possa non essere soddisfatta. Ripeto: nell'orizzonte così vario e così imprevedibile della sessualità umana può darsi che qualche volta succeda che tali situazioni provochino piacere.

- Studente: Considerando il problema da un punto di vista religioso – in particolare della religione cristiana - non è possibile che la religione aumenti il divario fra uomo e donna? Il bambino, quando va a seguire il catechismo, impara che Dio creò Adamo e poi, da una costola di quest'ultimo, creò la donna per dargli una compagna: la donna viene quindi vista come seconda all'uomo.

- Adriana Cavarero: Come sai nel libro della Genesi esistono due versioni, a distanza di poche righe l'una dall'altra. La prima dice che Dio li creò maschio e femmina, ovvero che creò contemporaneamente il sesso maschile e il sesso femminile e, poche righe dopo, è presente la versione relativa alla costola di Adamo che tu citi, quella più nota. Questa seconda versione non fa altro che inserirsi nella tradizione occidentale, dove i simboli corrispondono a un comportamento coatto che dobbiamo per forza assimilare.

La religione - cristiana, ebraica, greca o romana che sia – presenta un'omogeneità nella rappresentazione della differenza sessuale, che viene intesa come rapporto di potere tra il sesso dominante maschile e il sesso dominato femminile. In questo senso l'insegnamento religioso ripete uno stereotipo culturale. Anche le materie che studiate al liceo e che vi sembrano lontanissime dal sacro ripetono lo stereotipo. Quando studiate la storia, per esempio, vi ritrovate ad imparare una serie di guerre e di battaglie che hanno tutte dei protagonisti maschili. Si potrebbe ovviamente citare Elisabetta I, ma capite bene che la presenza di una donna, così come di due o tre, non costituisce realmente un'eccezione: è casomai un'eccezione che conferma la regola. Vi insegnano la storia come se essa appartenesse all'universalità del genere umano, mentre sarebbe giusto - quando insegno filosofia mi comporto così - dire: ‘Vi insegno la storia della filosofia, la quale non si riferisce tanto ad un soggetto universale, quanto alla storia della filosofia virile pensata dagli uomini per gli uomini’. Io nutro una grande passione per Platone ed Aristotele, noto però che vengono spesso presentati come se parlassero di un'oggettività valevole per tutti. Lo stesso Kant - che è molto più vicino a noi di Aristotele - quando parla di etica e del famoso imperativo categorico pensa a un soggetto universale di sesso maschile e non femminile. Sarebbe molto più onesto che i docenti segnalassero questo fatto, e diverse insegnanti lo fanno già. E' vero che la religione costituisce uno dei modi con cui lo stereotipo viene riciclato, ma ciò viene messo in atto dall'intera cultura in tutti i suoi ambiti.

(da Nonviolenza: femminile plurale del 26.10.06)