fa benissimo saddam a chiedere di eliminare l'embargo, si e' sottoposto a tutte le misure di sicurezza dell'onu e questa guerra comunque vada, sembra partire con tutti i drammi che ne conseguiranno . credo sia la provocazione del giorno piu' che la notizia.

DA - LA REPUBBLICA.

Saddam Hussein all'Onu
"Revocate l'embargo"
Prosegue intanto la distruzione dei missili "al Samoud II"

BAGDAD - Mentre le lancette dell'ultimatum di Usa, Spagna e Gran Bretagna iniziano a correre, con poche speranze di essere fermate, Saddam Hussein chiama in causa le Nazioni Unite e chiede al Consiglio di sicurezza di revocare l'embargo che grava sul suo paese dai tempi della invasione del Kuwait. Perché l'Iraq - spiega il rais - sta ottemperando a tutti gli obblighi imposti dalla comunità internazionale.

In una nota diramata dal Consiglio del Comando della Rivoluzione (il massimo organo direttivo in Iraq), presieduto quest'oggi da Saddam in persona, si dice che il contenuto del rapporto presentato ieri dai capi degli ispettori Hans Blix e da Mohammed El Baradei sarebbe tale da giustificare la pretesa di una fine delle misure restrittive imposte a Bagdad. "L'embargo deve essere annullato totalmente e complessivamente - si legge nel comunicato - dopo che sono state rivelate al mondo le reali motivazioni dell'America".

Per il capo del governo iracheno, insomma, Usa e Gran Bretagna sono soltanto "mentitori", e le Nazioni Unite devono dirlo a chiare lettere. Non solo. La lista di richieste che Saddam rivolge alle Nazioni Unite si arricchisce di un duro attacco ad Israele, che secondo il rais deve essere "privata delle armi di sterminio ed essere costretta a ritirarsi dalla Palestina e dalla terra araba occupata".

Hans Blix, nel rapporto fatto ieri al Consiglio di sicurezza, aveva detto che gli iracheni non hanno adempiuto i propri impegni come invece avrebbero dovuto, ma aveva al tempo stesso elogiato l'eliminazione di una parte dei missili vietati al-Samoud II "quale segnale di un pur tardivo ravvedimento".

Segnale che continua a manifestarsi malgrado i venti di guerra si facciano sempre più minacciosi. L'Iraq prosegue infatti con il programma di distruzione dei missili: lo smantellamento di altri sei vettori è iniziato questa mattina, portando il totale dei missili distrutti a 34 su 120.

Intanto la partita diplomatica sembra ferma alle posizioni espresse ieri dai paesi del Consiglio di sicurezza. Nonostante l'ottimismo del ministro degli Esteri britannico Straw, convinto che "alla fine la seconda risoluzione sarà approvata", la Russia torna a dire che "non lascerà passare" il nuovo testo, anche se riuscisse a coagulare "i voti sufficienti". Un modo soft per ripetere che sull'attacco all'Iraq Mosca è pronta ad usare il diritto di vetro.

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i pacifisti hanno dichiarato una giornata di sciopero mondiale il giorno stesso che partira' la guerra, secondo me bisognava cominciare prima e ad oltranza - non usare cioe' tutti i venerdi' i sabato e le domeniche da questa in poi - la macchina e qualsiasi altro mezzo di trasporto a benzina. l'idea e' ancora valida - la puoi leggere in namir, confermo pero' che anche queste iniziative sono validissime.

Parte da Camp Darby
l'8 marzo della pace

PISA - L'8 marzo all'insegna della pace. Le donne di tutta Italia dedicano la loro festa a una serie di iniziative per fermare la guerra. Sfilate, fiaccolate, cortei, manifestazioni sono in corso dal Trentino alla Sicilia. La più importante, la marcia pacifica verso la base militare americana di Camp Darby vicino a Pisa.

In migliaia - 50 mila, secondo gli organizzatori, meno della metà secondo la questura - si sono messi in cammino per raggiungere la base che nelle scorse settimane è stata l'obiettivo principale dei pacifisti italiani che hanno cercato in tutti i modi di impedire ai treni carichi di materiale bellico di arrivarvi. A inizio corteo, un grande striscione portato dalle donne: "Fuori la guerra dalla storia". Dietro, lo striscione con lo slogan dei pacifisti: "No alla guerra senza se e senza ma".

I manifestanti si sono dati appuntamento nel grande prato di San Piero a Grado. Sono normali cittadini e simpatizzanti dei movimenti no global, ma anche Cobas, Rdb, Arci, Cgil. E sfila anche in testa al corteo il sindacato di polizia Silp di Livorno. I sindacalisti espongono un cartello con la scritta "Rispetto della legalità. Articolo 11 Costituzione: l'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".

Prima della partenza, su un palco che è stato allestito ieri pomeriggio si sono alternati alcuni gruppi musicali. L'atmosfera, come dice Alfio Nicotra di Rifondazione comunista, è quella di una "scampagnata per la pace". Birre, salsicce, panini, baracchette e banchetti che vendono bandiere della pace. Donne, ragazze, bambini, famiglie. Una gita più che una manifestazione antimilitarista.

Verso le 14 il corteo è partito alla volta della base, distante due chilometri. Quando la testa del corteo è arrivato alla recinzione di Camp Darby, alcuni manifestanti hanno cominciato ad attaccare sulle reti gli straccetti su cui hanno scritto messaggi di pace. Alcuni si sono fermati e hanno gridato: "Assassini, boia, bastardi, andate a casa". L'onorevole Paolo Cento dei Verdi, per un attimo, si è aggrappato alla rete. Due giovani, come gesto offensivo, hanno orinato sulle recinzioni. Poi una cinquantina di manifestanti sono entrati dopo aver tagliato la rete di recinzione. Il gruppo ha tuttavia immediatamente ubbidito all'invito a uscire rivolto loro.

Lungo tutto il recinto della base sono stati appesi biglietti colorati con sopra scritte frasi in favore della pace. Alla rete saranno poi attaccate 2.000 copie dell'appello dei veterani statunitensi che invitano all'obiezione di coscienza.

Tutto questo sotto la benedizione simbolica delle donne che sono impegnate in tutta Italia in manifestazioni pacifiste. A Roma, oltre un centinaio di donne, "né soldati, né terroriste - come recita uno slogan più volte ritmato da un megafono - ma tutte femministe" hanno manifestato davanti al ministero della Difesa. Quasi contemporaneamente le donne cattoliche hanno indetto un'altra manifestazione per la pace a piazza Montecitorio.

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paolo mieli e' il nuovo presidente della rai - ma prima di accettare vuole capire se puo' veramente decidere su questioni delicate come - biagi e santoro - o solo su questioni minori. il problema e' che la sinistra si sia accontentata di aver scelto un uomo che ha comunque fatto una tesi sul fascismo e per molti anni ha lavorato soprattutto in giornali di centro destra. staremo a vedere nessuno non riconosce a paolo mieli un curriculum di ampie vedute politiche.

DA - LA REPUBBLICA.

Mieli: "Biagi e Santoro
torneranno in prima serata"
di ALESSANDRA LONGO

ROMA - "Accetto, ma con riserva. Il tavolo del Cda deve essere libero. Voglio avere il tempo di esaminare sotto ogni profilo le condizioni in cui potrà operare il nuovo consiglio di amministrazione. Ma intanto vi ringrazio...". Paolo Mieli parla al telefono con i presidenti di Camera e Senato. E' un venerdì sera convulso, di telefonate, complimenti, auguri. Ma il nuovo presidente della Rai, appena indicato da Pera e Casini, non perde il tono tranquillo e basso della voce, non fa dichiarazioni enfatiche. Sa che il compito che gli hanno assegnato è delicato, l'eredità pesante. Non a caso usa prudenza, si affida a quella parola in più: "Accetto, con riserva".

Manca ancora il nome del direttore generale, che non è poca cosa: "Sarà il Cda, d'intesa con il Tesoro, a nominarlo, a decidere i nuovi direttori di rete". Paolo Mieli vuol essere sicuro di muoversi senza pressioni, in un'atmosfera rifondata, lontana dal caos desolante dell'ultima gestione. Vuole anche dare una impronta precisa alla sua nomina, accompagnata da un gradimento trasversale che deve per forza tradursi in un nuovo clima. Dice: "Intendo riportare in prima serata Enzo Biagi e Michele Santoro". Sì, dice proprio così: "E' un mio impegno personale". Sono parole importanti, visto quel che è successo ai due giornalisti, finiti nella lista nera di Berlusconi e scomparsi dal video. Davvero rivedremo "Il Fatto" e "Sciuscià"? Il nuovo presidente mette questo nell'agenda. Ne parla con la massima serietà. Santoro e Biagi, patrimonio dell'azienda, devono tornare, e nella fascia di massimo ascolto.

Santoro è in Sicilia con moglie e figlia, non si aspetta certo una notizia così dopo tante batoste. Il vecchio Enzo Biagi è a casa sua, a Milano. Vada come vada, è bellissimo che uno dei primi pensieri del futuro presidente della Rai sia per lui. "Mieli è una persona perbene - dice Biagi - un giornalista che ha diretto il Corriere, che ha rispetto per i suoi colleghi, per il suo mestiere, per i lettori e i telespettatori. L'ambientino in cui va non è facile. Spero che a questo gruppo di lavoro non rendano la vita impossibile".

Una cosa è certa: Paolo Mieli è attrezzato, strutturato, come si dice, per affrontare situazioni complesse. Ha 54 anni, un curriculum lungo, prestigioso, che mette d'accordo Schifani e Bertinotti. Nato a Milano, studi a Roma (la Lega non può che apprezzare), una laurea sul fascismo alla Sapienza con Renzo De Felice, di cui è stato anche assistente. Nel 1967 all'"Espresso", inviato di politica estera, capo della Cultura, caporedattore centrale. Poi a "Repubblica". E a "La Stampa", di cui diventa direttore nel 1990 per passare al timone del "Corriere" nel 1992. Tra i politici è un coro di evviva. "Persona giusta al posto giusto", dice di lui il diessino Giuseppe Caldarola. Si fa vivo persino il preside del suo liceo, il "Tasso" di Roma (che ha diplomato anche Gasparri) per lodare "uno dei nostri allievi più eccellenti".

Appassionato di storia, autore di libri sulla sinistra italiana. Dal 1997 Paolo Mieli è direttore editoriale del Gruppo Rizzoli Corriere della Sera e tiene la rubrica delle lettere che fu di Montanelli. Ora dovrà sospenderla, occupato come sarà a restituire smalto all'ente pubblico surclassato dal gruppo di Berlusconi.

RaiDue andrà a Milano? "Decideremo anche questo, senza vincoli, senza condizionamenti". Sa usare le parole, è il suo mestiere. Si è ritagliato nel tempo un ruolo di mediatore, di difensore della cosiddetta "verità storica" secondo gli insegnamenti ricevuti dai suoi "maestri di metodo, e non di dogma", Rosario Romeo e De Felice. Nei ritratti diffusi ieri sera dopo la sua nomina, ecco riesumata una frase pronunciata nel '96: "Mi considero paradossalmente cerchiobottista - diceva Mieli - Dare un colpo a destra e uno a sinistra non è opportunismo, è il giusto modo di criticare chi pensiamo in quel momento abbia sbagliato". Per esempio, la Rai ha sbagliato a privarsi di giornalisti come Biagi e Santoro. "Non mi sono mai sentito colpevole per aver fatto qualche numero con Benigni - rivela ironico Biagi - anzi, se mi ridanno la trasmissione, quei numeri li rifaccio".

Difficile di questi tempi piacere ai due schieramenti. Mieli quasi riesce nel miracolo. In passato si è preso i complimenti del quotidiano dei vescovi italiani e del giornale di Alleanza Nazionale. Lui, ex giovane di estrema sinistra, nato in una famiglia ebrea, approdato per studio e inclinazione su posizioni "non preconcette", ammiratore anche di storici di ispirazione liberale e talvolta ex marxisti. Lo aspetta una sfida. "Vi ringrazio, accetto, ma con riserva".

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mi spiace non essere d'accordo con barenghi - io sono una donna - ma non credo che un consiglio di amministrazione rai deve basarsi o formarsi su posizioni femministe - se ci sono donne di qualita' ben vengano - altrimenti si presentino almeno gli uomini.

non mi piace ne la moratti ne la mussolini - e il problema e' culturale, questo consiglio di amministrazione veramente e' basso per rappresentare e farci identificare in questa parola.

DA - IL MANIFESTO

Nomine col trucco


RICCARDO BARENGHI


Una donna, magari due, tanto più che ieri era la vigilia dell'otto marzo. Niente, anche questo Consiglio d'amministrazione Rai è a sesso unico (come il suo predecessore e il predecessore del predecessore). Ma non è da questi particolari che si giudica il governo della più-grande-azienda-culturale-del-paese. E infatti, a nessuno è venuto in mente. Mentre tutti o quasi sono entusiasti della scelta di Pera e Casini. A destra e purtroppo anche a sinistra. Uomini di prestigio, personaggi sganciati dai partiti, nomi autorevoli, tornano gli intellettuali, professori, giornalisti, saggisti, sociologi. Tutto vero. Eppure qualcosa non va quando l'entusiasmo è troppo entusiasta e troppo diffuso. Non c'è dubbio che questo Cda sia migliore del precedente, non era facile farlo peggiore. E non c'è dubbio che Paolo Mieli non sia Antonio Baldassarre, cioè una marionetta. Vedremo prossimamente chi sarà il direttore generale, il vero uomo di potere dell'azienda: difficile farsi illusioni, sperare cioè che possa essere qualcuno non indicato da Berlusconi. Se però Mieli ottenesse questo risultato, se cioè riuscisse a nominare un uomo (o una donna) capace di rifare la Rai da capo a piedi, avrebbe segnato un bel colpo.

Ma non andrà così. Perché altrimenti Berlusconi non avrebbe vinto le elezioni, il centrodestra non avrebbe occupato tutto quel che c'era da occupare, il governo non avrebbe fatto le leggi che ha fatto, il paese non sarebbe sull'orlo di una guerra. Altrimenti, insomma, al governo ci starebbe
il manifesto. Invece al governo c'è il proprietario delle tre televisioni nazionali delle quali la Rai dovrebbe essere una temibile concorrente. Non lo è stata nell'ultimo anno e non lo sarà prossimamente, ma forse farà finta di esserlo. Sarà forse una Rai meno volgare, più democratica, formalmente più presentabile. Ma sarà sempre la Rai di Berlusconi.

Il quale oggi ottiene un ottimo risultato, fa in modo che i suoi due presidenti parlamentari nominino un Cda applaudito da tutti, è così liberale da lasciare che alla presidenza sieda un uomo indicato dall'opposizione e che in gioventù simpatizzava addirittura con l'estrema sinistra, probabilmente rinuncerà anche al suo fedele Saccà. E tutto grazie alla partecipazione straordinaria dell'opposizione, Ulivo e Rifondazione per una volta (quella sbagliata) insieme.

E domani, quando malgrado Mieli la Rai farà la sua politica (cioè la politica di Berlusconi) come farà l'opposizione a protestare, a indignarsi, a scendere in piazza, a circondare i palazzi? Con chi se la prenderà, col presidente da essa stessa indicato?

Avrebbero fatto meglio Rutelli, Fassino e Bertinotti a tenersi fuori da questo gioco truccato, molto ben truccato. Avrebbero fatto non bene ma benissimo a non indicare alcun nome limitandosi semplicemente a giudicare dai risultati, invece di farsi invischiare nel gioco e compromettersi nella nomina del nuovo Consiglio. Che proprio perché è molto meglio del precedente rischia di essere molto più pericoloso.

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bellissima intervista pacifista :

DA - IL MANIFESTO L'INTERVISTA :

Il difficile no alla guerra della «working class»


Intervista a Linda Smith, dirigente del sindacato dei pompieri britannici: «Bisogna preparare lo sciopero generale»


ORSOLA CASAGRANDE


LONDRA
Linda Smith è la tesoriera della Fire Brigades Union, il sindacato dei vigili del fuoco, da mesi ormai impegnato in un'aspra vertenza contrattuale. La Fbu è tra le organizzazioni più impegnate a promuovere tra i lavoratori azioni contro la guerra. Con altre dodici unions, la Fbu è affiliata a Stop the War Coalition, la coalizione nazionale contro la guerra promotrice, tra l'altro, della grande manifestazione del 15 febbraio scorso a Londra.

Che cosa possono fare i sindacati, tenendo presente che la legislazione anti-sindacale thatcheriana limita di molto l'azione delle unions?

Credo che l'azione dei due macchinisti che si sono rifiutati di guidare i treni carichi di equipaggiamenti militari diretti alla base americana scozzese sia un grande esempio. L'azione diretta è certo uno dei mezzi più efficaci per ottenere risultati concreti. Ma tra le unions si discute anche molto di sciopero generale contro la guerra, anche se ancora non è stato deciso nulla in proposito. Bisogna sottolineare che in Inghilterra il movimento operaio non ha ancora ripreso completamente fiducia in se stesso: diciotto anni di governo conservatore hanno spezzato le gambe alla working class. Non è una scusa per non agire, è la verità.

Certo sei anni di governo new Labour non hanno aiutato i lavoratori a riconquistare fiducia...

Esatto. Qualcuno dice che il new Labour è soltanto il prolungamento del governo Tory. Lo vediamo anche nell'atteggiamento arrogante del premier nei confronti dei sindacati e delle vertenze in cui siamo impegnati in questi mesi. Per tornare a quello che le unions possono fare per cercare di fermare questa guerra, voglio sottolineare che cinque segretari nazionali hanno chiesto al Trade Union Congress di convocare un congresso nazionale straordinario per discutere dell'intervento in Iraq. Ad ogni picchetto dei nostri vigili del fuoco a cui ho partecipato c'erano sempre striscioni contro la guerra. A Brixton i pompieri hanno appeso uno striscione che dice «non abbiamo bisogno di una guerra, ma abbiamo bisogno di vigili del fuoco».

Dopo la manifestazione del 15 febbraio come vi siete organizzati nei posti di lavoro?

Lo sciopero dev'essere il nostro fine ultimo, ma dobbiamo costruirlo perchè un'azione così importante - che in questo paese avrebbe anche un carattere e un valore storico non indifferente - non può fallire. Pensiamo sia utile far approvare alle assemblee mozioni contro la guerra e organizzare dibattiti. Le varie organizzazioni sindacali, anche a livello locale dovrebbero unirsi a Stop the War Coalition - molte lo stanno facendo - e quindi organizzare riunioni nei luoghi di lavoro, invitare speakers. Ma è importante anche attaccare poster contro la guerra nel posto di lavoro, indossare spille e tappezzare di adesivi uffici e fabbriche. Il nostro dissenso deve essere visibile. Tutte queste attività servono a ricostruire la fiducia tra i lavoratori e a preparare il terreno per un'azione collettiva e generalizzata come lo sciopero.

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ecco cosa fa la follia delle brigate rosse in un periodo storico in cui non c'e' bisogno di loro e della loro strategia apolitica - ma di segni pacifisti. speriamo che la toscana non accusi il colpo e per paura non diventi di destra.

DA - IL MANIFESTO

La Digos nell'ateneo di Biagi


Perquisita la bibliotecaria che lavorava a Modena accanto al professore ucciso un anno fa dalle Brigate rosse
Caccia ai brigatisti. I nomi della modenese, di un romano e di un bolognese trovati nelle carte di Lioce e Galesi. Contro di loro ancora nessuna accusa specifica


SARA MENAFRA


FIRENZE
Due scatoloni pieni di documenti, floppy disk, materiale da archivio. Sono gli effetti personali sequestrati ieri mattina dagli investigatori della Digos di Firenze e di Bologna a R. P., l'impiegata della biblioteca «Sebastiano Brusco» della Facoltà di Economia di Modena. A lei conduce uno dei numeri di telefono che Nadia Desdemona Lioce portava con se domenica mattina, appuntati su un foglietto. Quarantasette anni, due figli, in servizio dal 1976 nella biblioteca e attualmente impiegata nel settore «periodici», R.P. potrebbe essere l'informatrice, probabilmente inconsapevole, che le nuove Br-Pcc usavano per tenere sotto controllo prima Marco Biagi, il giuslavorista ucciso quasi un anno fa, e poi Michele Tiraboschi, il suo allievo prediletto che ha preso il suo posto nel dipartimento di economia aziendale. Gli inquirenti se ne sono convinti già due giorni fa quando hanno scoperto che uno dei «codici fiscali» che la Lioce portava con sé (numeri privi di prefisso e preceduti da una serie di lettere da cui è possibile ricostruire il nome della donna) era il numero del cellulare, privo di prefisso, della bibliotecaria modenese. Per questo motivo gli inquirenti di Bologna l'hanno interrogata subito, giovedì pomeriggio. E ieri la donna è stata sentita anche dalla Digos di Firenze come persona informata sui fatti. All'uscita dall'interrogatorio gli inquirenti assicuravano che probabilmente lei con le Br Pcc o con Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce non c'entra nulla. Il direttore della biblioteca, Sergio Paba, e il preside della facoltà di Economia Andrea Landi, che la conoscono da molti anni ne sono convinti e ieri hanno inviato anche un breve comunicato stampa per esprimerle la più totale fiducia: «E' persona ben conosciuta e stimata da tutti i colleghi che nel corso della lunga collaborazione hanno potuto apprezzarne la grande serietà, disponibilità e sensibilità» vi si legge. Eppure non tutti gli elementi del mosaico sono ancora tornati al loro posto. Non è chiaro, secondo gli inquirenti di Bologna, come mai la Lioce avesse con se il semplice numero di telefono dell'ufficio in cui lavorava la donna - il 56 est a pochi metri dallo studio 45 est dove per anni ha lavorato il professor Biagi e che adesso è la stanza di Michele Tiraboschi - ma il suo numero di cellulare. Come non è chiaro perché a un anno dal delitto Biagi quel numero di telefono fosse ancora tanto necessario da dover essere tenuto a portata di mano per quella riunione a cui probabilmente i due terroristi avevano appena partecipato quando domenica mattina sono saliti sul treno 2034 diretto ad Arezzo.

Per scoprirlo gli investigatori ieri mattina hanno perquisito sia lo studio all'interno della facoltà di Economia di Modena dove lavora la donna, sia la sua abitazione, sempre a Modena. Una ricerca fatta «frettolosamente» ha ammesso ieri mattina il procuratore aggiunto Francesco Fleury, per il resto barricato dietro un assoluto silenzio: se non ci fossero stati i giornali ieri mattina a dire che la «talpa» poteva essere una bibliotecaria avrebbero continuato ad osservare il suo comportamento ancora per qualche giorno.

Ieri la digos di Firenze ha fatto altre due perquisizioni, una a Bologna e l'altra a Roma. Anche questa volta si tratta di persone identificate analizzando il materiale sequestrato ai brigatisti Lioce e Galesi. Contatti forse. Oppure nomi clonabili da poter utilizzare se necessario per costruirsi una nuova identità pulita se quella riportata sulle carte d'identità controllate dall'agente Emanuele Petri e dai suoi due colleghi sul treno Roma Arezzo domenica mattina, per qualche motivo, non fossero state più sicure. Da queste ricerche, però, gli investigatori non avrebbero rintracciato alcuun elemento utile. E non ci sono ancora conferme all'ipotesi che una base dei terroristi si trovasse in Toscana.

Sembrano intanto superato ogni problema per quanto riguarda il funerale di Mario Galesi, il brigatista morto durante la sparatoria che ha portato all'arresto di Nadia Lioce e durante la quale è rimasto ucciso l'agente Emanuele Petri. Finora nessun parente ha richiesto la salma, ma la funzione si svolgerà probabilmente martedì prossimo, o comunque nel corso della prossima settimana, quasi certamente a Firenze. Dopo essere stato contattato dall'avvocato Attilio Baccioli, infatti, il sindaco di Arezzo Luigi Lucherini ha ottenuto dalla procura aretina il nulla osta alla sepoltura. Ad occuparsi della salma sarà la famiglia di Nadia Lioce. Daniela, la sorella, non effettuerà il riconoscimento perché non conosceva personalmente l'uomo, come ha spiegato l'avvocato della famiglia Michele Passione. Ma in quanto parenti dell'unione di fatto formata da Nadia e Mario, i Lioce saranno autorizzati ad occuparsi del funerale dell'uomo. La richiesta ufficiale potrebbe arrivare lunedi prossimo.

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pena capitale - non credo ci sia bisogno di presentazioni :

DA IL MANIFESTO L'INTERVISTA

«Io, un innocente scampato al boia»


Parla Leroy Orange, 19 anni nel braccio della morte dell'Illinois prima di essere graziato, il 10 gennaio scorso, dal governatore Ryan: ho subìto torture fisiche e psicologiche


ANGELO MASTRANDREA
ROMA
Sarà per i 19 anni trascorsi nel braccio della morte o per ragioni squisitamente caratteriali, ma Leroy Orange è un uomo di poche parole. Così, quando ad esempio gli chiedi se aveva amici nel braccio della morte e se alcuni di loro sono finiti sul lettino del boia, ti risponde con un secco «
yes» e non procede oltre. Oggi è un uomo che non dimostra affatto i suoi 52 anni, graziato dal governatore dell'Illinois George Ryan, un repubblicano mosso a compassione dai troppi errori giudiziari nell'applicazione della pena capitale, il 10 gennaio scorso. In libertà da appena due mesi e con un futuro auspicato da attivista per i diritti civili, il suo problema immediato è la ricerca di un lavoro per sopperire alle non poche difficoltà economiche. Difficile negli States, se sei nero e sulle tue spalle grava il peso di un'accusa come quella dell'omicidio della tua ex ragazza, per il quale sta scontando l'ergastolo un suo fratellastro. Orange, immortalato in carcere da Oliviero Toscani per la campagna We on the death row, è uno dei pochissimi condannati riusciti a sfuggire a un braccio della morte americano ed è uno dei componenti del cosiddetto «Death row 10», un gruppo di condannati a morte che hanno denunciato di aver subìto torture da parte della polizia. In particolare, da parte del famigerato comandante Jon Burge, che sarà espulso dal Chicago police board nel `93 proprio a causa della sua abitudine di torturare i prigionieri. Abbiamo incontrato Leroy Orange nella sede romana dell'associazione Nessuno tocchi Caino, che l'ha invitato in Italia per l'avvio di una campagna «per arrivare a presentare all'assemblea generale dell'Onu, il prossimo autunno, una proposta dell'Unione europea, che nel prossimo semestre avrà la presidenza italiana, per una moratoria mondiale delle esecuzioni», spiega il presidente dell'associazione Sergio D'Elia. La campagna è lanciata insieme alla Nazionale cantanti e avrà come colonna sonora la canzone portata a Sanremo da Enrico Ruggeri, che parla proprio della pena di morte. La proposta di moratoria, «di compromesso» perché chiede una sospensione e non l'abolizione della pena di morte, era già stata presentata nel 2000, anno del Giubileo. Con scarso successo, visto che all'immediata vigilia della discussione all'Onu, sull'onda delle pressioni statunitensi, l'Unione europea la ritirò senza troppe spiegazioni. Ad essa è legato anche un video. Ad accompagnare l'ex «dead man walking» è il suo avvocato Steven Block, che già da studente della Northwestern university aveva contribuito a smascherare gli errori giudiziari nell'applicazione delle sentenze capitali. Poi è entrato, insieme ad altri avvocati, procuratori, ex giudici e professori universitari, nella commissione nominata da Ryan per studiare tutti i singoli casi. Il risultato è stato un rapporto di trecento pagine che ha convinto il governatore a concedere una grazia generalizzata di cui hanno beneficiato tutti i 156 condannati a morte dell'Illinois. Per quattro di loro, tra cui Leroy Orange, si sono aperte le porte del carcere, per gli altri la pena è stata commutata in ergastolo. «La mia storia comincia 19 anni fa, quando sono stato arrestato da Jon Burge, un uomo che ha fatto carriera torturando soprattutto i neri per estorcergli le confessioni che gli facevano comodo. La mia sopravvivenza è stata possibile grazie all'aiuto di altri, all'appoggio della mia famiglia ma anche allo studio dell'arte e della religione», attacca.

Lei ha denunciato che la confessione le è stata estorta con la tortura. Di che tipo?

Dopo l'arresto mi hanno portato in una caserma della polizia. Lì mi hanno ammanettato e messo faccia al muro. Volevano che gli indicassi dove avevo nascosto l'arma del delitto. Io ho risposto che non sapevo dove fosse. Ero seduto a terra, loro hanno spento la luce e mi hanno messo una busta di plastica in testa per soffocarmi. Lo hanno fatto due volte, poi sono passati a pratiche diverse. Mi hanno legato degli elettrodi alle braccia e lasciato partire delle scariche elettriche, poi mi hanno abbassato i pantaloni e fatto la stessa cosa ai genitali. A quel punto ho confessato tutto quello che volevano, anche se non ero in grado di condurli dov'era l'arma del delitto.

In carcere ha ricevuto altre torture?

Soprattutto psicologiche. Vivevo in una cella di due piedi per sei, da solo. Spesso facevano rumore per molestarmi. Ma anche ascoltare le decisioni prese dalla Corte per me era una tortura, perché sapevo quello che stava passando la mia famiglia e non potevo farci nulla. Un'altra tortura è stata assistere al fatto che alcuni prigionieri diventavano pazzi e cominciavano a girare nudi per le celle. Uno di loro è stato ammazzato senza che neanche gli lasciassero il tempo di dire addio.

Come ha vissuto questi 19 anni nel braccio della morte?

All'inizio vivevo con la speranza che le cose sarebbero cambiate e magari in appello tutto si sarebbe risolto. Quando invece mi sono rassegnato ho cominciato ad avere gli incubi di notte, a svegliarmi presto la mattina. Però poi mi sono messo a studiare, a leggere la Bibbia, ho cominciato a parlare con gli altri prigionieri, anche di questioni familiari, tutto quello che si può immaginare per persone come noi, insomma. In seguito mi sono messo a studiare diritto e a discutere il mio caso con l'avvocato.

Assisteva anche gli altri detenuti?

Sì, sulle questioni legali.

Alcuni di loro sono poi stati uccisi?

Sì.

Ha mai visto «Dead man walking», il film sulla pena di morte con Susan Sarandon e Sean Penn?

No, non mi piacciono questi film.

Cosa pensa di fare ora?

Cercare un lavoro.

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questa indagine di un quotidiano economico e' almeno divertente :

DA IL SOLE 24 ORE

SPECIALE 8 MARZO

Il piccolo mondo
Internet delle donneSolo il 36% dell'universo femminile sfrutta le opportunità del web mentre i corsi di laurea in informatica parlano quasi unicamente al maschile. Una guida per saperne di più.di Giulia Crivelli

Il 20 febbraio scorso il Parlamento ha licenziato in via definitiva la legge sulle pari opportunità. Dalla carta, sia pure importante, ai fatti, il passo é lungo: le donne studiano meno, hanno tassi di disoccupazione più alta. C'é tuttavia un mondo che l'universo femminile frequenta assai poco ed é proprio quello di Internet. Le donne non studiano, non si specializzano in informatica e solo il 36% fa uso del web contro l'86% degli uomini. Un'occasione, dunque, l'8 marzo, per saperne di più.

Italia, fanalino di coda per le pari opportunità nell'UeNel 2003 la Costituzione italiana è stata modificata per ufficializzare l'impegno a eliminare le differenze in politica. Ma ne restano molte altre, a cominciare da Internet, che invece potrebbe essere davvero una "pari opportunità". Ma qualcosa si muove. di Giulia Crivelli

Il 2003 alle donne italiane ha portato una novità politica importante: il 20 febbraio infatti il Senato ha dato la sua approvazione definitiva al ddl costituzionale, che introduce il il principio della pari opportunità tra donne e uomini nella Costituzione italiana.

L'articolo 51 della Costituzione, fino al 20 febbraio, recitava: ''Tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla leggè'.
Il ddl ha aggiunto un secondo comma di 16 parole: ''A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini''. In sostanza il provvedimento mira a una maggiore presenza delle donne in politica; non attraverso la garanzia dell'elezione ma grazie ad una maggiore possibilità per le donne di candidarsi, di farsi conoscere dagli elettori, di competere in campagne elettorali, spesso costosissime, cercando di influenzare anche e prima di tutto i partiti a cambiare la struttura di "club quasi solo maschili". Senza pero' ingerenze, vietate dalla Costituzione, sulla loro attivita' o sulla loro organizzazione.

Nel 1996 il ministero, ma l'Italia resta fanalino di coda
Il
ministero delle Pari Opportunità (in questo governo affidato a Stefania Prestigiacomo fu istituito nel maggio 1996, senza portafoglio: faceva parte del Governo Prodi e fu affidato alla diessina Anna Finocchiaro.
Attualmente l'Italia, con il 9,2% di presenze femminili in Parlamento, è all'ultimo posto in Europa e al 69° nel mondo per il numero di donne parlamentari. Ci precedono tutti i Paesi del nord Europa (Svezia in testa con il 42,7%) ma anche tanti paesi dell'Africa e dell'Asia (dal Congo al Mozambico, dal Turkmenistan al Laos).

Le donne italiane secondo l'Ue
Sono le più longeve d'Europa, si sposano a 27 anni, hanno il primo figlio poco dopo i 28 e fanno registrare il tasso d'occupazione e di conseguimento di diplomi di laurea più basso dell'Ue: è questo l'identikit delle donne italiane che emerge da una
ricerca in vista dell'8 marzo, il 5 marzo.

Longeve e con pochi figli
Secondo gli esperti statistici dell'Ue le donne italiane possono contare su un'aspettativa di vita di 82,9 anni - la più alta d'Europa dopo la Francia - contro una media di 81,4 registrata nei Quindici. Rispetto alla controparte maschile i fiocchi rosa italiani possono contare su quasi 6 anni di vita in più, e, a partire dai 65 anni, rappresentano il 59,1% della popolazione anziana dello stivale. I dati confermano l'ultimo posto in classifica dell'Italia per numero medio di figli (1,24 contro una media europea di 1,47).

Solo il 10% ha un diploma di laurea
Sotto il fronte degli studi solo il 10% delle italiane è in possesso di un diploma di laurea: si tratta della percentuale più bassa dell'Ue, che registra invece una media del 21% tra le donne e del 23% tra gli uomini. In generale le studentesse italiane sono più orientate verso il settore delle scienze sociali (36%) e delle facolta' umanistiche ed artistiche (22%), mentre i loro colleghi sono più numerosi nella aule di ingegneria e nelle discipline scientifico-tecniche.

Disoccupazione molto alta
Il tasso di occupazione femminile in Italia è il più basso dell'Ue (41,9% contro una media del 54,9%). Un dato che non sorprende il ministro italiano alle pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, che ha così commentato, da Bruxelles, i dati: ''La disoccupazione femminile è un dato storico in un paese come l'Italia in cui si ha un problema complessivo di occupazione. Spero che questo gap si possa colmare in tempi brevi, sono certa che la riforma del mondo del lavoro avviata dal governo, che è vista con favore in Europa e non solo, dara' buoni risultati''. ''Certo si potrebbero calibrare meglio alcuni strumenti a disposizione del sostegno all'occupazione femminile - ha aggiunto il ministro - privilegiando interventi diretti e rapidi sotto il profilo dell'erogazione di fondi''.

Più attente alla cultura, alla linea, alla salute
Nella vita sociale le donne italiane leggono più liberi e riviste degli uomini e vanno molto più spesso a teatro della loro controparte maschile che è invece più orientata verso il cinema e gli eventi sportivi. Le donne italiane sono molto più attente alla linea degli uomini: è sovrappeso il 16,9% (contro una media maschile del 18,8%), mentre il 18,1% è sotto il proprio peso forma (per gli uomini la stessa percentuale scende al 4,7%). Anche sigarette ed alcool attraggono di meno il sesso femminile: le fumatrici in Italia sono il 19,6% della popolazione over 15, mentre tra gli uomini la media tocca il 34,7%. Le donne spendono per l'acquisto di bevande alcoliche il 30% meno degli uomini. Limitata anche la percentuale di donne (14%) che si registra in totale tra il numero di persone che in Italia ha fatto ricorso a cure contro le tossicodipendenze.

Internet, un'opportunità sottovalutata
Il mondo di Internet, sempre secondo Eurostat, è meno attraente per le europee in generale e per le italiane in particolare: solo il 36% utilizza il web contro l'86% degli uomini. E questo è un gran peccato: perché Internet ha un grande potenziale. I pc, inoltre, non capiscono se davanti a loro c'è un uomo o una donna e quindi, non possono discriminare.

Negli ultimi anni sono nati molto siti web dedicati alle donne, che offrono informazioni ma anche consigli e servizi. Di seguito troverete una panoramica di questi siti.

C'è però un altro aspetto che riguarda il rapporto tra donne e tecnologie: anche se sta crescendo il numero di donne che utilizzano Internet e i computer in generale, continua a essere molto basso il numero di donne che frequentano le facoltà di informatica, ingegneria informatica e matematica.

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la lotta che si sta scatenando su MEDIOBANCA - ex impero di ENRICO CUCCIA - per eliminarla e farla diventare un controllore economico privato e non statale e' oramai alla conclusione - vediamo come potra' chiudersi la vicenda :

DA - IL MESSAGGERO

Generali: scontro finale, Consob in campo
Allo scoperto Merril Lynch: abbiamo il 4,95%. Scambiati altri grossi pacchi di titoli

di JACOPO ORSINI

MILANO - La battaglia sulle Generali prosegue, ma lo scontro ha fatto scattare l’intervento della Consob. Il presidente dell’autorità, Luigi Spaventa, ha dichiarato che la commissione verificherà se ci siano stati acquisti di azioni concertati da parte di Unicredito e alleati. Intanto ieri è uscita allo scoperto la banca d’affari Merrill Lynch, che ha dichiarato di possedere complessivamente il 4,95% della compagnia. Sul mercato nel frattempo non si fermano i movimenti di grossi pacchi di titoli. Ieri sono passati di mano altri due blocchi di azioni (uno dell’1 e l’altro dell’1,5%, il secondo a un prezzo del 20% circa più alto di quello di mercato) e il volume degli scambi, anche se in calo rispetto ai picchi dei giorni scorsi, è rimasto alto. Ancora giù però le quotazioni: le Generali hanno ceduto il 2,84% a 20,15 euro portando al 13% circa il ribasso accusato nella settimana.
Merril allo scoperto. Dopo la discesa in campo del Monte dei Paschi a fianco del fronte guidato da Alessandro Profumo, ieri la banca d’affari ha comunicato di avere in mano il 4,95% delle Generali (l'1,81% in portafoglio e il 3,14% derivante da opzioni per acquistare altri titoli). Nei giorni scorsi l’istituto, che di fatto diventa così il secondo azionista del Leone dopo Mediobanca (13,6%) e Bankitalia (4,7%), era stato indicato da indiscrezioni come intermediario responsabile degli acquisti di titoli Generali per la cordata di Unicredito. La quota della banca d’affari sarebbe comunque già stata contata nel pacchetto del 13-14% sul quale la banca di Alessandro Profumo ha fatto sapere di poter contare nell’offensiva contro Mediobanca.
Lo scontro continua. Proseguono i contatti alla ricerca di un compromesso tra i due fronti, anche alla luce del tentativo di pacificazione avviato dal ministro del Tesoro, Giulio Tremonti e al lavoro di mediazione del presidente del patto di sindacato che governa Mediobanca, Piergaetano Marchetti. Ma una soluzione non sarebbe ancora a portata di mano. Sul mercato si parla con insistenza di Roberto Poli come possibile presidente di garanzia di piazzetta Cuccia, ma la resa e l’uscita di Vincenzo Maranghi dall’istituto, vero obiettivo dell’assalto di Unicredito, resta per ora incerta.
Spaventa vigila. La Consob non ritiene che ci siano state «anomalie ai fini della trasparenza del mercato» nella vicenda Generali. In ogni caso, ha sottolineato il numero uno dell’autorità, faremo accertamenti e verificheremo «se ci siano acquisti di concerto che diano luogo a un sindacato implicito». Se la commissione dovesse accertare che Unicredito e alleati hanno dato vita a un patto occulto, in base a quanto previsto dalle norme del Testo unico della finanza, potrebbero scattare delle sanzioni. Anche se dimostrare l’esistenza di un accordo sarà molto complicato.
«La Consob - ha spiegato ancora Spaventa - ha svolto u ruolo di ufficiale postale. Tutte le acquisizioni di partecipazioni superiori al 2% sono state rese note». Insomma sotto il limite del 2% l’autorità, in base a quanto previsto dalla legge, non ha potere e gli investitori possono muoversi in libertà. Inoltre la Consob non può chiedere informazioni alle Fondazioni, molto attive nello scontro sulle Generali. La commissione, ha continuato Spaventa, «può intervenire solo sui soggetti vigilati» e fra questi non ci sono le fondazioni. «Non ne avremmo titolo», ha concluso facendo intendere chiaramente che semmai la vigilanza sugli enti spetta al ministero dell’Economia.

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e' vero che potrebbe accadere, l'onu ha intralciato pesantemente l'azione di guerra degli USA - ma e' anche vero che l'onu e' stato sempre troppo influenzato dalle decisioni americane, putroppo potrebbe sparire definitivamente, visto come sono cambiati i tempi e gli assetti geografici politici.

DA - L'UNITA'

Il Vaticano preoccupato: «La guerra americana sarà la fine dell'Onu»


di Roberto Monteforte

Cosa avverrà il 17 marzo, quando scadrà l’ultimatum posto da Bush ed i suoi alleati a Saddam Hussein? Quale sarà il destino delle Nazioni Unite se gli Usa decidessero di attaccare Baghdad senza l’appoggio del Palazzo di Vetro? Sono questi gli interrogativi che preoccupano l’arcivescovo Renato Martino. Il presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, per 16 anni «osservatore permanente» della Santa Sede alle Nazioni Unite lo dice chiaramente in un’intervista all’agenzia missionaria Misna: «Se gli Stati Uniti decidono la guerra all’Iraq in mancanza di voti sufficienti o con un veto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ciò costituirebbe uno smacco tale da cui le Nazioni Unite difficilmente potrebbero riprendersi». «Sarebbe un pericolo gravissimo per tutta la comunità internazionale» ha aggiunto l’arcivescovo. «Se - ha spiegato mons. Martino - nonostante la mancanza di voti sufficienti o il veto, si andasse alla guerra egualmente, l’Onu soffrirebbe un tale smacco dal quale non so se potrà riprendersi. Finirebbe infatti lo scopo per il quale le Nazioni Unite sono state create: il mantenimento della pace e lo sviluppo». «Si tratta di un pericolo gravissimo che la comunità internazionale non dovrebbe correre. Sappiamo come fallì miseramente la Società delle Nazioni», ha aggiunto il presidente del dicastero Pontificio Giustizia e Pace.

Dice la sua anche sull’ultimatum di dieci giorni all’Iraq posto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna, mons. Renato Martino. Fa notare che esso scatterebbe una volta che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu fosse approvata una nuova risoluzione in questo senso, ma non crede che al momento ci sia una maggioranza disposta ad approvare una seconda risoluzione e comunque alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno annunciato la possibilità di usare il diritto di veto. Il punto non è evitare il disarmo del rais di Baghdad, ma quello di percorrere una via d’uscita «pacifica» e per l’arcivescovo la soluzione è lineare. «Si dia ancora forza e peso alla risoluzione 1441» afferma. E questo dopo la relazione presentata venerdì scorso al Consiglio di Sicurezza dai capi degli ispettori Onu vuol dire semplicemente assecondare le loro richieste. «Gli ispettori hanno bisogno, come ha richiesto Blix, di almeno altri 4 mesi per condurre a termine il loro lavoro - fa notare -. D’altro canto l’Iraq, forse grazie anche alla forte pressione esercitata dal presidente Bush, sta rispondendo alle esigenze degli ispettori che, secondo la 1441, sono incaricati e hanno il potere, una volta trovate queste armi micidiali, di renderle inoffensive o distruggerle». D’altra parte mons. Martino, consapevole delle conseguenze che si determinerebbero anche nei rapporti tra i paesi europei, gli Usa ed i suoi alleati, si è augurato che non si arrivi al veto e «che si adoperino, invece, tutti i mezzi a disposizione prima di tale misura. Il Papa continua a richiamarci a questo».

Non è pessimista il presule. In un editoriale che apparirà domani sull’Osservatore Romano osserva che il «tragitto verso la pace è lungo ma non impossibile, che le resistenze sono tante ma non insormontabili, che il passato ostacola il futuro ma non lo pregiudica». «La pace diventa - scrive ancora mons. Martino - "misura" e criterio di discernimento, diventa "agenda": elenco di cose da farsi, ossia doveri. Come "dono di Dio" essa appartiene all’umanità, è il suo bene comune. È scontrosa e condiscendente, esigente e disponibile. Scontrosa, perché non tollera meschini compromessi e strumentalizzazioni; condiscendente, perché si pone alla portata di tutti, perfino dei grandi della terra. Esigente, perché fatta per persone convinte e coraggiose; disponibile, perché si adegua al realismo della gradualità e alla tolleranza delle debolezze umane».

Ieri, dopo la missione alla Casa Bianca è rientrato in Vaticano il cardinale Pio Laghi. Da Fiumicino, l’inviato speciale del Papa ha fatto il punto sulla sua missione. Ha raccontato di essere stato ricevuto sia dal presidente Usa, George W. Bush che dal segretario di Stato, Colin Powell con grande cortesia ma che, purtroppo, «la cortesia non è sufficiente» per scongiurare un conflitto. Quello sul quale ha insistito nei suoi incontri è stata la necessità di risolvere il contenzioso all’interno delle Nazioni Unite e non attraverso una guerra preventiva. «Solo se deciso dalle Nazioni Unite ogni intervento potrebbe essere legale e giusto».

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se questa non e' follia ditemi voi come posso chiamarla - inviatemelo alla mia email - aaluana@tiscali.it

- e' naturale che dietro queste azioni, come quella della separazioni delle carriere la giustizia subisce delle oscure vendette da parte del potere politico.

DA - L'UNITA'

Giustizia, con cinque righe di comunicato Castelli cancella il giudice dei minori
di Susanna Ripamonti

Cinque righe di comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri hanno cancellato i tribunali dei minori italiani. Dopo l’approvazione del maxi-emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario, il Cdm ha laconicamente dichiarato che «con le nuove disposizioni, i tribunali per i minorenni sono soppressi e le sezioni specializzate sono istituite presso tutti i tribunali ove risulti possibile». Cosa significa tutto questo? Se lo chiedono i magistrati in attesa di «soppressione», ricordando che da anni si parla di una riforma della giustizia minorile, ma il senso che finora era stato indicato era quello di creare presso i tribunali le sezioni specializzate sulle tematiche familiari, dai divorzi all’affidamento dei minori.

In particolare, affidamento e adozioni sono una materia complicata, regolata da una normativa disordinata, che richiederebbe una riscrittura integrale. Basti pensare all’incrocio di competenze tra giudice tutelare e tribunale dei minori e ancora al corto circuito che spesso si crea, in materia di adozioni, tra le decisioni dei tribunali e le politiche della commissione centrale per le adozioni internazionali. Ma se la scelta del consiglio dei ministri è quella di creare nuove sezioni specializzate in giustizia minorile, sicuramente non si tratta di una riforma che sta dietro l’angolo. «Il governo ha fatto bene i calcoli della copertura degli organici?» si chiede Pasquale Andria, presidente dell'associazione italiana dei magistrati che si occupano di minori. Andria fa un rapido calcolo: «ora i tribunali sono 29, le sedi giudicanti sarebbero invece un centinaio. Servirebbero quindi altri 500-600 giudici. Non vedo dove questi potrebbero essere reperiti».

Dunque tempi lunghi, lunghissimi, per una riforma di cui si è iniziato a parlare nell’82 e che era stata approvata dal governo il primo marzo dello scorso anno. Il primo stralcio prevedeva l’abolizione del tribunale dei minori civile e che fosse il giudice ordinario, nelle sezioni specializzate, a decidere, tra l'altro, sull'affidamento, l'adozione, la decadenza della potestà. La composizione prevista per le sezioni specializzate, che dovrebbero essere istituite in ogni tribunale, è solo di magistrati, quattro per ogni sezione, che assumeranno la funzione giurisdizionale. Spariscono quindi gli esperti laici dal collegio giudicante, che torneranno ad essere solo consulenti esterni. Si prevedeva inoltre il coinvolgimento dei genitori nelle procedure di affidamento dei figli minori, nei casi di separazione e divorzio. Con l'emendamento approvato venerdì, per quanto si è capito, la stessa formula dovrebbe estendersi anche ai tribunali penali minorili.

In cifre, la giustizia minorile riguarda un numero ristretto di giovani (al di sotto dei 21 anni)che sono però in buona misura recidivi. Alla fine del 2000, erano 440, di cui 54 femmine, i minori presenti negli Istituti Penali per Minorenni, ma nello stesso anno sono stati 1.886 gli ingressi, di cui 1.107 stranieri e 779 italiani. Questo significa che le stesse persone sono entrate e uscite più di una volta, nell’arco di un anno da carceri minorili.

Oltre agli istituti penali per minorenni, le strutture riservate a chi ha una età tra i 14 e i 21 anni, sono i centri di prima accoglienza, gli uffici di servizio sociale per minorenni e le comunità. Nei Cpa, che ospitano i minori arrestati o fermati e accompagnati fino all' udienza di convalida, nel 2000 sono stati registrati in 3.994, il 6 per cento in meno rispetto all'anno precedente. Gli stranieri sono stati il 56,3 per cento, in netto aumento rispetto agli anni precedenti. Sempre meno gli italiani quindi, e sempre più gli stranieri, anche se il numero complessivo rimane costante.

Furti e scippi sono i reati maggiormente contestati, ma non mancano gli omicidi volontari e associazione mafiosa. La prevalenza maschile è netta, almeno per gli italiani, mentre per gli stranieri le giovani nomadi riducono la forbice tra maschi e femmine. Intanto continua a far discutere anche la separazione delle funzioni, proposta dal consiglio dei ministri. Per il presidente emerito della Cassazione Giovanni Conso si tratta solo a parole di separazione delle funzioni. «In realtà - afferma - ciò che il governo propone è la separazione delle carriere dei magistrati». Conso se la prende soprattutto con l’ipotesi di introdurre concorsi su concorsi per regolare la carriera dei magistrati: «non fanno che distoglierli dall'attività giudiziaria. Altro che efficienza!».

È duro anche il commento del segretario dell'Anm, Carlo Fucci: «Talvolta la lettura di alcune proposte di riforma del sistema processuale e anche ordinamentale lasciano pensare che, probabilmente, ci sia una sorta di volontà o punitiva o di condizionamento nei confronti della magistratura. L'Anm si augura che il testo presentato dal governo non sia un testo blindato così come affermato da alcuni esponenti della maggioranza

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concludo anche questa domenica - lasciandovi con una bellissima intervista realizzata dall'unita' ad una donna palestinese che brilla come una stella per la sua intelligenza :

Quella nomina a primo ministro, una vittoria dei riformatori"

«La designazione di Abu Mazen a primo ministro, rappresenta un successo per quanti si sono battuti per una decisa accelerazione del processo riformatore. Di certo, la statura politica di Abu Mazen è tale da fugare ogni dubbio sul ruolo puramente "decorativo" di un primo ministro. Conosco molto bene Abu Mazen e so che accetterà l'incarico solo se avrà i poteri necessari per imprimere una svolta all'azione politica palestinese. Ma il suo successo dipende anche da Israele. Se Sharon continuerà ad occupare i Territori, a sviluppare una brutale e indiscriminata repressione contro l'intero popolo palestinese, ogni tentativo riformatore sarà destinato al fallimento». A sostenerlo è una delle personalità più rappresentative ed indipendenti della dirigenza palestinese: Hanna Siniora, ex direttore del quotidiano in lingua araba di Gerusalemme Est «Al-Fajir», designato da Arafat a ricoprire il delicato incarico di rappresentante dell'Anp a Washington.


Come leggere politicamente la designazione operata da Yasser Arafat di Mahmud Abbas (Abu Mazen) come primo ministro?


«Si tratta di un importante successo del fronte riformatore e, viceversa, di una sconfitta dell'ala oltranzista palestinese. Abu Mazen, è bene ricordarlo, è stato uno degli artefici degli accordi di Oslo-Washington (settembre 1993, ndr.) che rappresentarono una svolta storica nelle relazioni tra Israele e Olp. Abile diplomatico, Abu Mazen è anche un profondo conoscitore della realtà interna palestinese e questo può agevolare il suo compito, soprattutto se saprà favorire la maturazione di una nuova classe dirigente».


Qual è la posizione più recente manifestata da Abu Mazen che ha più apprezzato?


«L'aver posto pubblicamente, e senza mezzi termini, il problema di un ripensamento radicale sugli strumenti di lotta. Abu Mazen ha avuto il coraggio di dire chiaramente che la militarizzazione dell'Intifada, gli attacchi suicidi, hanno fortemente indebolito la causa palestinese sotto ogni punto di vista. E da questa considerazione ha fatto discendere la proposta, invisa ai gruppi estremisti, di smilitarizzare la rivolta e di porre un blocco temporalmente significativo alle azioni armate. Abu Mazen ha dimostrato così di avere coraggio e di saper andare controcorrente, sfidando anche orientamenti diffusi tra la popolazione palestinese. Agendo in questo modo si è rivelato un vero leader che sa parlare il linguaggio della verità, anche se questa verità può non piacere a tutti. Certamente non è piaciuta a quei gruppi che hanno tacciato Abu Mazen di tradimento minacciandolo di morte».


La designazione di Abu Mazen segna l'emarginazione di Arafat?


«No, almeno non nell'immediato. Di certo sancisce un reale riequilibrio dei poteri. Abu Mazen non sarà un premier "immagine", un esecutore passivo di scelte altrui. La designazione di Abu Mazen segna l'inizio della fine del potere assoluto in mano ad un'unica persona. Arafat resterà presidente, ma non sarà più il "raìs" che tutto decide e che tutto gestisce».


E i gruppi estremisti come reagiranno a questa nomina?

«Cercheranno di contrastarla con ogni mezzo, a cominciare dallo sviluppo degli attacchi contro Israele. In questo senso, ritengo che l'attentato suicida di Haifa sia da porre anche in relazione alla convocazione della riunione del Consiglio centrale dell'Olp domani (oggi, ndr.) a Ramallah, nella quale si discuterà la nuova Costituzione e la nomina di Abu Mazen a primo ministro. In questo tentativo di bloccare il processo riformatore, i gruppi estremisti trovano un valido alleato nella destra oltranzista israeliana. Rappresaglie sanguinose come quella condotta nella Striscia di Gaza fanno il gioco di Hamas, della Jihad e del fronte del rifiuto palestinese».


Quanto ha inciso l'imminente guerra in Iraq sulla decisione presa da Arafat?


«Certamente ne ha accelerato i tempi. Arafat, e non solo lui, teme che la guerra all'Iraq potrebbe essere utilizzata da Israele per inasprire ulteriormente la repressione nei Territori e per porre in essere misure più volte evocate, come l'espulsione di Arafat dai Territori. La nomina di Abu Mazen è anche un segnale alla comunità internazionale, in particolare agli Stati Uniti perché fermino la mano di Sharon e agiscano con determinazione per mettere in pratica il "tracciato di pace" elaborato dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu, ndr)».


Quali dovrebbero essere, a suo avviso, le priorità nell'agenda del primo ministro designato?


«Sono tre: la smilitarizzazione dell'Intifada; la lotta alla corruzione; il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione palestinese. Tre grandi emergenze tra loro strettamente intrecciate. E' un impegno da far tremare i polsi a chiunque, ma sono certo che Abu Mazen possa farcela. Ne ha la capacità, ma deve avere i poteri necessari per affrontare questa triplice sfida».

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un bacio - luana.