LUANA - c'e'
stata la famosa raccolta delle firme da parte dei
radicali - circa novemila in tutto, vogliono la cacciata
di SADDAM e un governo dell'ONU - che e' come dire degli
americani. poi quest'altra serie di iniziative che vi
posto - .... tutte desiderano cacciare SADDAM e non si
rendono conto che il problema della guerra e' proprio
questo - SADDAM NON VUOLE ANDARSENE - e allora c'e' da
chiedersi che iniziative sono ? C'E' ANCHE da scrivere
che la FRANCIA e' uno di quei paesi che stava facendo
accordi con SADDAM insieme alla RUSSIA per i nuovi
giacimenti trovati nel 1995 - ed e' per questo che
l'AMERICA ATTACCA. e allora non c'e' che da sperare nei
veri pacifisti - e che il PAPA per motivi religiosi - nei
quali i cattolici sono oramai in minoranza - non faccia
il passo decisivo e vada a BAGHDAD - solo cosi' la guerra
si ferma.
DA - LA REPUBBLICA
Il governo di
Berlino conferma le anticipazioni dello Spiegel
"Stiamo riflettendo su una proposta che eviti la
guerra"
Il
piano di Francia e Germania
"In Iraq i caschi blu dell'Onu"
I
due paesi starebbe preparando una bozza di risoluzione
Il controllo del paese verrebbe preso dalle Nazioni Unite
BERLINO - E ora
l'opposizione alla guerra diventa anche una proposta.
Messa a punto da Francia e Germania. Schroeder e Chirac,
insomma, si sarebbero convinti che a questo punto, il
semplice no alla guerra non basta più. Ci vuole una
proposta alternativa. Che sarebbe sul punto di essere
resa pubblica. Si tratta di un piano segreto al quale i
rispettivi governi lavorano dall'inizio dell'anno, e che
ha lo stesso obiettivo di quello di Bush (vale a dire il
completo disarmo di Saddam Hussein), ma si ripromette di
conseguirlo in tutt'altro modo. Parigi e Berlino,
infatti, vogliono in Iraq i caschi blu dell'Onu: siano
loro - dicono - a garantire lo smantellamento delle armi
di distruzione di massa.
La notizia del piano è stata rivelata dall'autorevole
settimanale tedesco Der Spiegel,
ed è stata confermata da un portavoce governativo a
Berlino. Anche se lo stesso portavoce si è limitato a
l'esistenza di "riflessioni comuni tra Francia e
Germania per concrete alternative di pace", e non ha
voluto aggiungere altri particolari.
Particolari che
invece Der Spiegel fornisce nel dettaglio. Secondo il
settimanale la proposta franco-tedesca dovrebbe assumere
presto la forma di una bozza di risoluzione da presentare
al Consiglio di sicurezza dell'Onu. E prevede che i
caschi blu delle Nazioni Unite prendano "di
fatto" il controllo dell'Iraq e garantiscano
"un regime di robusto disarmo". In questo caso
tutto il territorio iracheno sarebbe dichiarato "no
fly zone".
Il progetto contemplerebbe anche l'impegno diretto dei
due paesi. Tra le truppe Onu ci sarebbero anche soldati
tedeschi, mentre aerei francesi "Mirage IV"
completerebbero con i rilevamenti dall'alto il lavoro
fatto a terra dagli ispettori. Il numero di questi ultimi
verrebbe triplicato, e per controllare ancora più
strettamente l'operato del regime di Saddam, verrebbe
imposta una fitta rete di sanzioni, con controlli più
severi sulle esportazioni irachene verso i Paesi
industrializzati e con accordi con i Paesi limitrofi per
impedire efficacemente il contrabbando di petrolio.
Se le anticipazioni dello Spiegel
saranno confermate nel dettaglio, e soprattutto se
davvero su questo piano i due paesi chiederanno il voto
dell'Onu, la mossa franco-tedesca rischia di diventare un
serio ostacolo sulla strada della
"legittimazione" di un attacco Usa all'Iraq.
Secondo il settimanale, infatti, il progetto alternativo
alla guerra sarebbe stato già sottoposto all'attenzione
dei leader più scettici sull'intervento, come il
presidente russo Vladimir Putin ed il presidente cinese
designato Hu Jintao. Vale a dire, i due paesi che come la
Francia hanno diritto di veto nel Cosiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite.
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DA - LA REPUBBLICA.
Il segretario
generale contro un intervento senza ombrello Onu
"Altrimenti rischiamo di non fare fronte agli altri
conflitti"
Annan:
"Una guerra unilaterale
indebolirebbe le Nazioni Unite"
Un
appello pronunciato nel giorno in cui a Bagdad comincia
la missione di Blix: "Oggi colloqui utili e molto
concreti"
NEW YORK - Un
nuovo monito del segretaro dell'Onu Kofi Annan, per
scongiurare un intervento unilaterale degli Stati Uniti
in Iraq. Un appello che cade proprio nel giorno in cui
inizia la nuova trasferta a Bagdad dei capi missione
delle Nazioni Unite, Hans Blix e Mohammed El Baradei,
nell'ennesimo tentativo di convincere Saddam a
collaborare più concretamente con gli ispettori: i primi
colloqui, avuti oggi coi vertici locali, vengono da loro
definiti "utili e molto concreti".
Ma cominciamo con le parole del numero uno del Palazzo di
Vetro. Annan le pronuncia a Williamsburg, in Virginia,
nel suo discorso per l'anniversario del William and Mary
College. Il succo del suo discorso è questo: una guerra
decisa unicamente dagli Usa indebolirebbe il ruolo delle
Nazioni Unite. "Se esiste una leadership dell'Onu
forte, che viene esercitata mediante una paziente
persuasione diplomatica e la creazione di coalizioni -
sottolinea Annan - le Nazioni Unite hanno successo. Le
Nazioni Unite ottengono il massimo dei risultati per
tutti i loro membri, compresi gli Stati Uniti, quando
sono unite e lavorano come fonte di un'azione collettiva,
piuttosto che della discordia".
E dunque,
"un consenso più ampio sull'Iraq facilita la nostra
unione e la capacità di far fronte a altri conflitti che
bruciano nel mondo, che procurano indicibili sofferenze e
che richiedono in maniera urgente la nostra attenzione,
da Israele alla Palestina, al Congo, alla Costa d'Avorio,
per non parlare degli sforzi tesi a stabilizzare
l'Afghanistan".
Insomma, un forte richiamo al senso di lungimiranza degli
Stati Uniti, unica potenza mondiale, rispetto a tutte le
aree di crisi del pianeta. Ma non un discorso
pregiudizialmente contrario a qualsiasi intervento in
Iraq: Annan infatti dice che il ricorso alla forza deve
sì essere la scelta estrema, ma sottolinea che se il
rapporto presentato venerdì prossimo dagli ispettori
dimostrerà che il regime di Saddam non ha rispettato i
suoi obblighi in materia di disarmo, il Consiglio di
sicurezza dell'Onu "deve far fronte alle sue
responsabilità".
Una presa di posizione che rilancia l'importanza
dell'attuale missione irachena di Blix ed El Baradei,
giunti oggi a Bagdad. Interpellato dai cronisti dopo i
colloqui con i vertici iracheni, Blix li definisce
"utili e molto concreti". Ed El Baradei
aggiunge: "La parte irachena sta fornendo
spiegazioni su alcune questioni. Abbiamo discusso dei
voli di ricognizione degli U-2, delle interviste agli
scienziati e dei programmi chimici, biologici e
missilistici. Vedremo i risultati domani", quando ci
saranno nuovi incontri.
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DA - LA
REPUBBLICA
quando BERLUSCONI dice
che non tocchera' i dirigenti dell'ISTAT c'e' da tremare,
cosi' come aveva detto che il CNR sarebbe stato salvo,
proprio l'altro ieri e' stato come dire - annullato - ed
ora tocca nuovamente all'articolo 18 - speriamo che torni
il cervello alla CISL E ALLA UIL.
Malgrado
l'appello alla riconciliazione di Fassino i tre leader,
tutti presenti a un convegno Ds, sembrano sempre più
distanti
Gelo
tra Cgil, Cisl e Uil
"Tra noi l'unità è lontana"
Ma
su un punto i sindacati fanno fronte comune: la battaglia
contro la reintroduzione delle 40 ore per i ministeriali
BOLOGNA -
L'appello all'unità sindacale del segretario dei Ds,
Piero Fassino, non fa breccia tra i leader di Cgil, Cisl
e Uil. Che però su due punti manifestano una posizione
comune: il "no" al referendum promosso da
Rifondazione sull'astensione dell'articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori alle imprese con meno di 16
dipendente; e il no al decreto legislativo che
reintroduce le 40 ore per i dipendenti ministeriali.
Ma procediamo con ordine. Al convegno dei Ds sul lavoro
che cambia Gugliemo Epifani, Savino Pezzotta e Pierluigi
Angeletti confermano la freddezza dei rapporti tra le tre
organizzazioni, a partire dal tema del mercato del lavoro
e dalle deleghe appena approvate dal Parlamento.
Sottolineando, però, anche i rischi del referendum
sull'articolo 18. Tutti e tre rimandano la decisione sul
voto, ma Pezzotta precisa che sicuramente "non
voterà a favore", mentre Epifani insistite di più
sulla necessità di estendere le tutele attraverso una
legge.
Differenze
palpabili anche negli atteggiamenti: così, mentre
Fassino ricorda come, grazie a iniziative promosse dal
partito, i tre leader si siano incontrati quattro volte
in un anno (però con un lapsus ha chiamato i leader di
Cgil, Cisl e Uil "i tre segretari della Cgil"),
Epifani, Pezzotta e Angeletti si scambiano appena un
cenno di saluto. Ma se il momento è delicato, la
speranza per un avvicinamento tra le posizioni non manca.
"La situazione è difficile e complicata - dice
Pezzotta - molte cose ci dividono, e non di poco conto.
Non vedo nel breve periodo una speranza di unità ma non
chiudo la porta, mantengo una speranza, anche se la vedo
lontana".
Più ottimista sembra Epifani, che però sottolinea come
"la riconquista dell'unità sia sempre stato merito
dei segretari della Cgil. Non sono d'accordo con Savino e
mi dispiace sia andato via - ha aggiunto - quando dice
che abbiamo culture diverse e diamo risposte diverse.
Abbiamo culture diverse ma per tanti anni abbiamo dato
risposte uguali".
E ad Angeletti che chiede di fare uno sforzo unitario che
porti a "far vincere il sindacato" piuttosto
che una parte politica, Epifani ricorda come la Cgil sia
stata lasciata da sola di fronte alla decisione del
ministro del Welfare, Roberto Maroni, di non coinvolgerla
nei lavori preparatori della Conferenza sull'handicap.
"Mi piacerebbe - ha concluso - che ci fosse un
richiamo a Maroni da parte di Cisl e Uil".
C'è però, come già detto, un secondo punto che
accomuna i sindacati in un deciso "no" alle
decisioni del governo. E cioè la volontà di scongiurare
il rischio di un ritorno dei ministeriali alle 40 ore
settimanali. Per questo Cgil, Cisl e Uil hanno inviato
una lettera al presidente del Consiglio, al ministro del
Lavoro e al ministro della Funzione pubblica per ottenere
una convocazione urgente, e chiedere il blocco immediato
del decreto legislativo sull'orario di lavoro approvato
la scorsa settimana dal consiglio dei Ministri.
Il decreto, che recepisce la direttiva europea
sull'orario di lavoro, prevede come tetto massimo le 40
ore settimanali e non prevede deroghe per il settore del
pubblico impiego (se non alcune eccezioni), a cui
sarebbero applicate le regole del privato anche per
quanto riguarda gli straordinari e il riposo settimanale.
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DA - LA
REPUBBLICA
CONCETRANDOCI sui
problemi della guerra - bisogna continuare a seguire i
nostri, non dimentichiamo che al centro sud e' la
sinistra a vincere.
Il boss della
'ndrangheta arrestato è il figlio di Ciccio
che negli anni 80 è stato il re dei dei sequestri in
Calabria
In
manette Rocco Barbaro
latitante da dieci anni
E'
accusato di omicidio, traffico di droga e associazione
mafiosa
Si è arreso ai carabinieri senza opporre resistenza
PLATI' (REGGIO
CALABRIA) - Rocco Barbaro, latitante da dieci anni,
accusato da due procure, Milano e Reggio Calabria, di
associazione mafiosa, traffico di droga e omicidio, è
stato arrestato nella notte dai carabinieri del Ros. Era
disarmato. Con lui aveva solo una radiolina con la quale
si sintonizzava sulle frequenze della polizia per
prevenirne le mosse. Ma stanotte non gli è stata utile.
Rocco Barbaro si nascondeva insieme a un fiancheggiatore,
Rosario Perre, in una casale di contrada Senoli,
nell'Aspromonte. I due si sono consegnati ai carabinieri
del Ros di Vibio Valentia senza opporre alcuna
resistenza.
Si è consegnato subito Barbaro, boss della 'ndrangheta e
figlio di quel Francesco, detto "Ciccio 'u castanu',
re dei dei sequestri di persona in Calabria negli anni
Ottanta. Un anno fa era finito in carcere suo fratello
Giuseppe. Quando lo presero gli investigatori della
Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria
scoprirono, a Platì, una serie di cunicoli utilizzati
come vie di fuga e nascondigli, che dalle immediate
vicinanze dalla casa dei Barbaro portavano fino a un
torrente.
Nicola Gratteri,
sostituto procuratore distrettuale antimafia di Reggio
Calabria, ha dichiarato che "la cattura di Rocco
Barbaro è un duro colpo al vertice della 'ndrangheta di
Platì". E anche il ministro dell'Interno Giuseppe
Pisanu ha epresso apprezzamento al comandante generale
dell'Arma dei carabinieri, Guido Bellini che ha portato a
termine l'operazione. "L'arresto di Barbaro - ha
dichiarato il ministro - è la dimostrazione
dell'efficacia del programma di lavoro che si sta
attuando nel campo della sicurezza dei cittadini e contro
la criminalità organizzata, grazie all'impegno e agli
sforzi sempre apprezzabili delle forze dell'ordine".
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DA - IL MANIFESTO
e' da tempo che lo
andiamo dicendo facendo eco a quello che afferma
EMERGENCY - le bombe intelligenti sono stupida idiozia
USA.
APPELLO
Ma
quale guerra chirurgica
MARINELLA CORREGGIA
Decine di migliaia di civili iracheni morirono sotto i
bombardamenti degli Usa e dei loro alleati nella guerra
del 1991. Quanto ai militari, le stime indicavano fra i
50.000 e i 120.000 morti; in tanti finirono sepolti vivi
nelle trincee o uccisi da bombe al fosforo mentre si
ritiravano in massa dal Kuwait. La nuova guerra porterà
un numero assai maggiore di morti e feriti, civili e
militari: «Un disastro nel breve, medio e lungo
periodo», secondo i calcoli del rapporto Collateral
Damages the Health and Environmental Costs of War on Iraq
redatto da Medact, un'organizzazione
di medici britannici che fa parte dell'Ippnw,
Associazione internazionale medici per la prevenzione
della guerra nucleare, con affiliati in 80 paesi. E il
rapporto è stato compilato prima delle ultime
«rivelazioni» circa l'ipotesi di colpire Baghdad con
800 missili al giorno. Le stime che Medact ha portato
alla distratta attenzione dell'Onu sono basate sullo
studio di precedenti conflitti: la guerra del Golfo del
1991, la guerra cecena e quella jugoslava, le
«operazioni» a Panama, in Somalia e in Libano. Lo
scenario prevede una campagna articolata in quattro fasi:
gli immancabili e massicci bombardamenti delle principali
città, quindi la presa dei campi petroliferi intorno a
Bassora nel sud e nella regione curda a nord, infine
l'attacco di terra a Baghdad. Il generale Peter Gration
(non sappiamo se in pensione; la sua lettera è riportata
sul sito di Medact) scrive: «Lo scenario è militarmente
sensato, le stime dei relativi morti e feriti sono
credibili; poiché la posta in gioco stavolta è il
cambio del regime, occorrerà più tempo rispetto alla
Desert Storm del 1991; nel frattempo, inoltre, sono state
sviluppate armi nuove che saranno usate. Un nuovo
conflitto sarà quindi più intenso e distruttivo».
Scenario che diventa semplicemente allucinante in caso di
ricorso al nucleare. Fatta cadere su Baghdad, una bomba
nucleare di taglia «Hiroshima» ucciderebbe fra 66mila e
360mila persone, mentre una moderna bomba termonucleare
sterminerebbe un numero di persone variabile fra alcune
centinaia di migliaia e tre milioni: Medact si basa sullo
studio indiano Ramana che nel 1999 cercò di valutare
l'impatto di un ipotetico attacco nucleare pakistano su
Bombay.
Se invece l'annunciato conflitto fosse esclusivamente
convenzionale i morti varierebbero fra 50mila e oltre
260mila, per la maggior parte civili di Baghdad
(«grazie» al combinato disposto di bombardamenti e di
scontri di terra). La stima comprende anche fra cento e
5mila morti fra gli attaccanti. I feriti totali sarebbero
centinaia di migliaia. Nel caso di uso di armi chimiche e
biologiche occorrerebbe aggiungere fino a 12mila vittime.
Inoltre, l'attacco da parte Usa di installazioni che - a
loro dire - contenessero sostanze chimiche, biologiche e
nucleari provocherebbe rilasci dagli effetti sanitari e
ambientali devastanti. Grande pericolo per l'ambiente
anche il possibile sabotaggio dei pozzi petroliferi nel
sud e nel nord. La guerra civile eventuale aggiungerebbe
altri 20mila morti. Ma la distruzione rinnovata delle
infrastrutture civili e le difficoltà di soccorrere le
popolazioni provocherebbero nel dopoguerra immediato
altri 200mila morti, per epidemie e fame. Precisa Medact:
lo stato di salute degli iracheni e delle infrastrutture
civili era migliore nel 1991 (la guerra e poi l'embargo
hanno provocato un grave deterioramento), quindi le
capacità di resistere a una nuova emergenza sono
fortemente indebolite. Del resto, stime basate su studi
dell'Organizzazione mondiale della sanità (Who) e
dell'Unicef indicano che almeno 500mila persone avrebbero
bisogno di cure durante e dopo il conflitto, e che lo
stato nutrizionale di almeno 3 milioni di iracheni
precipiterebbe. Sarebbero inoltre 900mila i rifugiati da
assistere.
La conclusione - per Medact e Ippnw - è che «il mondo
ha bisogno urgente di una leadership saggia e umana, che
riconosca che la sicurezza nazionale è impossibile senza
quella internazionale» e che «faccia del XXI secolo
un'era di pace per il pianeta». Cominciando a risolvere
pacificamente la crisi irachena.
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DA - IL MANIFESTO
ECCO le prove per
colpire SADDAM - tutte FALSE
Il dossier
Iraq, humor britannico
Falso il rapporto contro Saddam Hussein. I servizi
segreti inglesi hanno messo assieme vecchi articoli di
giornale (alcuni addiritura di dodici anni fa) e
documenti scaricati da internet
ORSOLA CASAGRANDE
LONDRA
Le bugie hanno le gambe corte. E la brutta figura è
assicurata. Il governo Blair ieri a disperatamente
cercato di difendere il dossier sulla colpevolezza
dell'Iraq presentato come recentissima raccolta di
materiale e informazioni dell'intelligence e che invece
altro non è che un collage di informazioni e articoli
tagliuzzati, ricopiati (con tanto di errori) e incollati
malamente assieme. Alcune delle informazioni sono
addirittura vecchie di dodici anni. Infatti il governo ha
utilizzato perfino un articolo scritto da uno studente
californiano neo-laureato e relativo alla situazione
irachena pre-guerra del golfo del `91. Arrogante e per
nulla intimorito il portavoce del premier Tony Blair ha
continuato a ripetere che il «dossier è accurato» e ha
aggiunto di non avere «nulla di cui vergognarsi e niente
da giustificare».
E pensare che tre giorni fa il premier ha liquidato il
dossier (quello sì recente, dato che risale a sole tre
settimane fa) redatto dai servizi segreti del MI5 come
«roba vecchia». Perché ovviamente in quel rapporto
c'erano informazioni non gradite a Blair: l'intelligence
britannica infatti sostiene che non ci sia alcun legame
tra Saddam Hussein e al-Qaida. Il commento più duro alle
imbarazzanti rivelazioni di ieri è quello dell'ex
ministra laburista dei trasporti, l'attrice Glenda
Jackson: «Se il dossier sull'Iraq presentato al
parlamento e al paese come un documento affidabile e
aggiornatissimo, frutto del lavoro dell'intelligence
britannica, anche se in realtà si trattava di un
documento che metteva insieme fonti e articoli anche
molto vecchi che nulla avevano a che fare con l'MI5,
allora possiamo dire di essere di fronte ad un altro
esempio di come il governo stia cercando di ingannare il
paese e il parlamento sulla questione della guerra contro
l'Iraq». E naturalmente, ha aggiunto Jackson in una
intervista alla Bbc Radio4,
«ingannare è un eufemismo per dire mentire».
Intervistato dalla Bbc Radio4
l'autore dell'articolo copiato, lo studente californiano
Ibrahim al-Marashi ha confermato che il suo lavoro era
stato pubblicato dalla Middle East Review of
International Affairs. «Le mie fonti - ha aggiunto -
erano documenti che avevo ottenuto da ribelli kurdi nel
nord dell'Iraq e documenti che erano stati lasciati dai
servizi segreti iracheni in Kuwait». Più di dieci anni
fa, s'intende.
Il dossier presentato dal governo britannico era stato
citato più volte dal segretario di stato americano Colin
Powell come «estremamente dettagliato e preciso».
Powell ha nuovamente fatto riferimento al rapporto
britannico mercoledì quando ha presentato le nuove
«prove» della colpevolezza di Saddam Hussein al
consiglio di sicurezza dell'Onu. «Vorrei - aveva detto
Powell - attirare l'attenzione dei miei colleghi
sull'accurato rapporto distribuito dal Regno unito... che
descrive in minuzioso dettaglio le attività con cui
l'Iraq sta ingannando il mondo».
Il portavoce di Tony Blair ha ammesso che «ripensandoci,
avremmo forse dovuto citare le fonti, per evitare
confusioni inutili. Ma nel complesso - ha concluso - il
documento è valido e accurato». Nessun imbarazzo
nemmeno per gli errori di ortografia che confermano che
si è trattato proprio di un'operazione di mero cut
and paste. Tony Blair è quindi
intervenuto per cercare di chiudere la vicenda sostenendo
di essere pronto ad affrontare il test di popolarità.
«Il pericolo -ha detto - posto dalle armi di distruzione
di massa è enorme e io ne sono convinto». Il problema
è che Blair non sembra essere disposto a sottoporre le
sue paure al vaglio del parlamento. Rispondendo alle
interrogazioni di alcuni deputati il ministro della
difesa Geoff Hoon ha detto che «bisogna essere molto
cauti sul pronunciamento del parlamento prima che la
guerra abbia inizio: non possiamo permetterci di passare
informazioni al nemico». Insomma, se un dibattito (e un
voto) ci sarà a Westminster, avverrà a bombardamenti in
corso.
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DA - IL MANIFESTO
- L'INTERVISTA
«Questa è la guerra di
Bush contro tutti»
Gino
Strada: «Gli Stati uniti si sentono già fuori dall'Onu,
solo l'opinione pubblica può fermare il conflitto»
ANGELO MASTRANDREA
«Il 15 febbraio dovremo essere in milioni, per dire che
vogliamo vedere sparire la guerra dalla faccia della
terra». Gino Strada, fondatore di Emergency, osserva
l'escalation prebellica da un punto d'osservazione molto
particolare: l'ospedale di Kabul in cui continua a
svolgere il lavoro di chirurgo di guerra. Ma è in attesa
di poter partire per Bagdad, a portare soccorso alle
prossime vittime dei bombardamenti. «Abbiamo due
ospedali, tre centri di riabilitazione e venti tra
cliniche e centri di pronto soccorso, tutti nel nord
dell'Iraq, ma dovremmo mettere in piedi qualcosa anche a
Bagdad», dice al telefonino satellitare dalla capitale
afgana.
Strada,
il presidente Bush ha detto che «i giochi sono finiti»
e che gli Stati uniti potrebbero agire unilateralmente se
l'Onu non prenderà la decisione che la Casa Bianca si
attende. Quali pensa possano essere le conseguenze di
questo ultimatum?
Gli Stati uniti agiscono «multilateralmente quando
possono e unilateralmente quando debbono». Nessun atto
di accusa, sono le parole usate da un ex Segretario di
stato Usa. Loro la pensano così, e lo dicono. Che i loro
discorsi, e le loro decisioni, facciano a pezzi il
diritto internazionale e che si chiuda l'era delle
Nazioni unite, questo non li interessa affatto, non è
nei loro piani. «Colpiremo chiunque possa costituire una
minaccia agli interessi nazionali americani». Questa di
per sé è una dichiarazione di guerra, a tutti noi. Ci
colpiranno se un giorno intralceremo, anche
inconsapevolmente, la loro strada. Stiamo perdendo il
conto di quante guerre sono state istigate, quanti colpi
di stato finanziati, quanti tentativi di genocidi sono
stati armati e combattuti dagli Stati uniti dal `45 in
poi. Indonesia, El Salvador, Corea, Congo, Cile, Perù,
Nicaragua, Vietnam, Cambogia, Guatemala. I primi dieci
che mi vengono in mente, si potrebbe andare a raffica. Di
fronte a dichiarazioni come quelle di Powell, credo
dovremmo tutti avere il coraggio di dire ad alta voce
quello che è nella testa di tutti, anche se di parti
politiche diverse: che, ancora una volta, sono gli Stati
uniti a volere la guerra. Se molti, governanti di ogni
colore politico, avessero il coraggio morale di accettare
questa verità, che c'è davanti agli occhi ed è nella
memoria e nelle cicatrici di molti, avremmo fatto un
grande passo avanti. Una delle più celebrate riviste Usa
ha rivelato dopo un sondaggio che la maggioranza dei
cittadini statunitensi considera il proprio paese il
maggior pericolo per la pace mondiale.
Pensa
che la guerra, come continua a ripetere Kofi Annan, sia
ancora evitabile? E come?
Gli Stati uniti in realtà non si sentono dentro l'Onu,
certo non sembra spirito da Nazioni unite quello dove le
prove, mediaticamente preparate, sentenze già scritte,
le fornisce l'accusatore. Kofi Annan fa bene a sperare,
ma sono convinto che l'«arma» più efficace per la pace
in questo momento sia la presa di coscienza dei
cittadini. Sta ai cittadini dei paesi europei di
mobilitarsi per costringere i propri governanti a non
entrare in guerra. Se non altro per rispettare un
principio spesso sbandierato a vanvera: quello della
volontà popolare. La vogliamo chiamare opinione
pubblica? E' lo stesso. La grande maggioranza degli
italiani è contro la guerra, due italiani su tre pensano
che non ci si debba entrare neanche se autorizzata
dall'Onu. Non sorprende, da persone intelligenti non si
fidano di quel che succede nel Palazzo dell'Onu, dove
l'aria sa un po' di petrolio. Solo un forte movimento di
cittadini in tutti i paesi, e in particolare negli Stati
uniti, può fermare questa follia.
Dopo
la visita di Berlusconi a Bush e la lettera di sostegno
di otto paesi europei, il governo italiano viene
considerato il maggiore alleato degli Usa dopo la Gran
Bretagna di Tony Blair. In parlamento l'opposizione non
riesce a trovare l'accordo nemmeno su una mozione comune
di contrarietà al conflitto. Come valuta il
comportamento del governo e dei parlamentari del
centrosinistra?
Non seguo le vicende italiane da vicino, ho visto solo
qualche minuto del discorso del presidente del consiglio,
prima che il satellite ci lasciasse. Mi raggela, dei
politici, quando incitano ad agire «per la nostra
sicurezza»: di solito è il via libera perché si
massacrino un po' di «effetti collaterali» da qualche
parte del mondo. Saranno invece in tanti ad essere
uccisi, anche se poi ci penseranno le televisioni a
ridurne il numero, a fare i distinguo, a spacciare per
covi terroristici villaggi bombardati. A proposito, ce ne
hanno mai fatto vedere uno di quelli polverizzati in
Afghanistan? Governo e centrosinistra? Non so, io non
credo che la pace sia un valore di sinistra o di destra.
Io credo che la pace sia un valore di tutti, che come
tale vada riconosciuto, e quindi fatto crescere,
rispettato. Non so interpretare comportamenti. Solo mi
sembra di capire che il governo ha intenzione di portarci
in guerra, e che l'opposizione non vota compatta contro
la guerra. Mi domando: ma allora sono governo e
opposizione di che cosa? Se la pensano diversamente tra
di loro, di questo sono certo, ma poi nessuno dei due sta
ad ascoltare - e ad esprimere - quello che pensa la
maggioranza di noi, io credo sia il caso che ci
preoccupiamo tutti e alla svelta. «Non un soldo né un
uomo, non una base né un permesso di sorvolo». Tutto
qui, fuori dalla guerra, non la vogliamo, la ripudiamo.
Non sarebbe stato un gesto eroico. Anche la nostra
Costituzione ripudia la guerra.
All'interno
dell'Ulivo c'è chi sarebbe favorevole all'intervento se
«legittimato» dall'Onu. Cosa pensa in proposito?
Può risultare quasi impietoso parlare dell'Onu in questo
momento. In Iraq ho conosciuto Hans von Sponeck, alcuni
anni fa. Era a capo dell'Onu e si è dimesso per non
essere complice di un «genocidio», quello dei bambini
iracheni. Servono le Nazioni unite, non questa Onu.
Affidabilità zero in termini di sicurezza, quando i
cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono
i venditori di quattro quinti delle armi in circolazione.
Guerra con l'Onu o senza l'Onu? Ma ammazzano meno
bambini, le bombe, se pitturate di azzurro? Si deve
capire che mettere al bando la guerra come strumento è
la priorità di noi tutti. Non c'è alternativa
possibile. La pace non può essere in saldo, e sulla
guerra non si fanno sconti.
Il
15 febbraio ci sarà una giornata di mobilitazione
mondiale contro la guerra. Come e quanto pensi riuscirà
a incidere sulle decisioni dei governi, e da quali altre
iniziative potrebbe essere accompagnata?
Spero molto. Dovremo essere milioni di cittadini, per
dire che non vogliamo guerra, non vogliamo più guerre,
vogliamo vederle sparire dalla faccia della terra. Vorrei
che il 15 febbraio fossero in tanti a impegnarsi per la
pace, uniti solo dall'obiettivo di fermare la guerra, e
in ogni caso di tenerne fuori il proprio paese. Avremmo
fatto un passo avanti ben più importante dell'euro,
nella costruzione dell'Europa.
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DA - IL CORRIERE
DELLA SERA
se queste non
sono contraddizioni e servilismo cosa e' ? prima
berlusconi ARAFAT come aveva ordinato l'america lo ha
scaricato - ora lo riprende come mediatore.... ok va bene
- siamo in politica - ma ci sono i limiti anche per la
perdita' della dignita' personale.
Berlusconi:
potrei incontrare Tarek Aziz
Il
presidente del Consiglio: ho chiesto a Gheddafi di
mediare. Attacco ai pacifisti: non capiscono la
situazione
ROMA
- A Saddam manda a dire, con le stesse parole di
George Bush, che «i giochi sono finiti», e che per
evitare la guerra non cè che una strada: il
suo esilio in un Paese straniero con immunità
garantita dallOnu. Agli americani conferma
tutta la sua amicizia, e garantisce che «la nostra
alleanza con gli Usa non si discute» nemmeno in caso
di intervento unilaterale degli Stati Uniti contro
lIraq, intervento che comunque non vedrebbe
impegnate le nostre truppe. Ma allopinione
pubblica italiana, allopposizione che «ha
perso completamente la testa» tanto che «non
cè più nessuno di là capace di ragionare a
cui ci si possa rivolgere», ai pacifisti che
«purtroppo la testa poche volte lhanno avuta,
e nulla capiscono della situazione», Silvio
Berlusconi dice che il suo obiettivo è uno solo:
«Noi vogliamo la pace, labbiamo in testa, la
desideriamo, e abbiamo fatto e facciamo di tutto per
evitare la guerra». Per questo, rivela il premier in
una lunga conferenza stampa indetta dopo
lincontro con il segretario alla Difesa
americano Rumsfeld, lui si sta spendendo e si
spenderà per ogni possibile mediazione, anche se il
tempo stringe visto che dopo la relazione degli
ispettori dellOnu il 14 febbraio «si aprirà
una procedura che entro due settimane dovrebbe
portare a una decisione». Infatti, sta pensando
Berlusconi che su questo si è consultato con
Rumsfeld e si consulterà con gli alleati, forse
sarebbe il caso di incontrare la settimana prossima
Tarek Aziz, il numero due di Bagdad, che verrà
ricevuto in Vaticano dal Papa (e da parecchi
esponenti dellopposizione): «Sto riflettendo
se si possa avere un incontro con lui per cercare con
una persona che si dice abile, talentuosa e
ragionevole di discutere chiaramente la realtà».
Ma cè di più: «Ho cercato - rivela il
premier - tutte le strade per arrivare al
convincimento del dittatore. Per esempio, mi sono
messo in mezzo, su richiesta di Gheddafi, affinché
fosse lui stesso a mediare, e a lui ho indicato con
un mio scritto gli argomenti che avrebbero dovuto
essere il perno della sua conversazione con Saddam».
Al raìs, dice Berlusconi, è stato consegnato «un
documento con le indicazioni della proposta che
potrebbe essere accettata, e stiamo aspettando un suo
intervento, una sua risposta».
Insomma, Berlusconi vuole essere chiaro: bisogna fare
di tutto per evitare la guerra, lo si sta facendo, ma
lunico che può fermarla è lo stesso Saddam,
scegliendo lesilio perché al disarmo «non ci
credo più, non lo farà mai». Ma se Saddam non
scendesse a patti, allora «come ha detto Bush» non
cè «altra ipotesi di unazione
militare», che lItalia vuole «assolutamente»
che venga preceduta da una «seconda risoluzione
dellOnu» che le dia «legittimità». Un
lavorìo, quello del premier, naturalmente gradito
allAmerica: il Dipartimento di Stato Usa fa
sapere che «tutte le iniziative che possono
convincere lIraq a disarmarsi sono positive».
E però, è lavvertimento del Cavaliere agli
alleati europei riottosi e allopposizione,
bisogna essere chiari: se il Consiglio di sicurezza
non votasse la seconda risoluzione che autorizza la
guerra, se insomma la contrarietà di Francia,
Germania, Russia e Cina fosse espressa con un veto e
non, come Berlusconi ha rivelato ai suoi che si sta
cercando di ottenere, con unastensione,
lazione militare «da parte dellAmerica e
dei suoi alleati, fra cui certamente Gran Bretagna e
Australia» ci sarà comunque. Perché Bush - ha
spiegato ai suoi alleati Berlusconi - ha una
determinazione «quasi religiosa», che rende «molto
difficili» le mediazioni. E però, se si arrivasse
allintervento unilaterale, ci sarebbero «tre
danni, tre disastri»: le Nazioni Unite
«perderebbero credibilità» e «di fatto
sparirebbero»; si creerebbe «un tracollo
nellAlleanza atlantica, tra Europa e Stati
Uniti» e «si avrebbe una divisione allinterno
dellEuropa».
Per questo il Cavaliere, che oggi parlerà con Bush e
che ieri ha sentito il premier greco Simitis
presidente di turno dellUe, ritiene che oggi
«sia utile» un vertice dei leader dellUnione
che aiuti lEuropa a trovare una posizione
comune. Una posizione che comunque dovrà essere di
appoggio agli Stati Uniti, su questo non si transige:
«Non dobbiamo essere più realisti del re» e
chiederci cosa farà lItalia in caso di attacco
unilaterale, è la premessa. Ma sia chiaro, «noi
manteniamo la nostra alleanza con gli Usa», come
manteniamo limpegno a concedere «le basi e il
sorvolo» agli americani e, solo «a guerra finita»,
a inviare in Iraq militari con compiti «logistici e
umanitari» per missioni simili «a quella in
Afghanistan». Altro genere di interventi militari in
Iraq, giura Berlusconi, gli Usa non ci hanno chiesto,
anche se potrebbero «chiederci in futuro di
aumentare la nostra presenza nei Balcani» per
permettere alle truppe a stelle e strisce di lasciare
larea.
Insomma, non vanno equivocate le parole del ministro
Martino che, scherza il premier, «è nostalgico di
quando il ministro della Difesa si chiamava ministro
della Guerra...»: lui, come tutto il governo, è
«per la pace». E comunque ogni decisione sul nostro
atteggiamento e sul nostro apporto alleventuale
guerra, multilaterale o unilaterale che sia, sarà
presa «dal Parlamento».
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DA - IL
MESSAGGERO
FORZA ITALIA STA
METTENDO IN CAMPO LE ULTIME risorse per poter bloccare il
processo previti - ogni persona alza la sua proposta.
E
sulla giustizia Fini gela i falchi di Forza Italia
Il
vicepremier: «Separazione delle carriere? Non vedo
differenza con una rigida distinzione delle funzioni»
ROMA «Ho
visto che Berlusconi ha stroncato subito linvito
del presidente del Senato a riprendere sulla giustizia il
lavoro fatto dalla Bicamerale. Ha detto che a lui queste
riforme non servono. Ne servono altre più spiccie, tipo
la Cirami». Sparge sarcasmo, Massimo DAlema, sul
rifiuto del premier a riprendere il lavoro della
Commissione per le riforme della scorsa legislatura. Ma
la legge sul legittimo sospetto non centra. Il
Cavaliere ha detto no perché irritato dalluscita
di Pera: ha spiegato ai suoi collaboratori di giudicare
fuori luogo il riferimento alla Bicamerale visto che
tutti sanno che fu proprio lui a farla naufragare e
proprio sulla giustizia. Una sortita giudicata quasi alla
stregua di una provocazione, insomma, e dunque da
bocciare senza appello.
Ma questo non significa che il premier non sia deciso ad
andare fino in fondo. Anzi. Ha concordato con Gianfranco
Fini sulla necessità di mettere fine alle proposte
estemporanee di quello o quel parlamentare: meglio un
approccio più organico, approccio che deve avere una
guida politica, non "tecnica". Anche per
evitare il ripetersi di divaricazioni clamorose come è
accaduto sullindultino, con Forza Italia e Udc che
hanno votato in un modo e An e Lega in un modo opposto.
Ecco perché sulla riforma della giustizia è al lavoro
un quartetto formato dal ministro Castelli per la Lega,
dal sottosegretario Vietti per lUdc, dal capogruppo
di An alla Camera Ignazio La Russa per la destra e da
Giuseppe Gargani, responsabile giustizia azzurro per
Forza Italia. Un approccio metodologico che è costato
comunque non poca fatica e il cui approdo dovrebbe essere
un testo complessivo di riforma, da attuare con legge
ordinaria e senza toccare la Costituzione (ci vogliono i
due terzi dei voti per evitare il referendum confermativo
e allo stato si tratta di un obiettivo politico
irraggiungibile). Lorizzonte temporale? La
legislatura. «Non non abbiamo fretta», spiega Fini, pur
se "pezzi" di riforma possono anche viaggiare
separatamente.
E anche sul punto più controverso, quello della
separazione delle carriere tra pubblici ministeri e
giudici, latteggiamento del vicepremier è assai
pragmatico: «Per quanto mi sforzi non vedo questa enorme
differenza tra una separazione rigida delle funzioni e
una blanda separazione delle carriere». Per questa
ragione è stato stoppato il progetto del senatore Luigi
Bobbio (An) di concorsi separati per giudici e pm.
Lala dura di Forza Italia, infatti, non la giudica
sufficiente e siccome bisogna procedere in maniera
organica... Resta il fatto che molti settori del
centro-sinistra sparano a palle incatenate, giudicando la
separazione delle carriere una "ritorsione"
della maggioranza verso i magistrati dopo la sentenza
della Cassazione che la sciato il processo Imi-Sir a
Milano.
Il quartetto tornerà a riunirsi martedì e di carne al
fuoco ce ne è parecchia. A cominciare dagli effetti di
una possibile sentenza di condanna di Umberto Bossi. Il
ministro delle Riforme non vuole una proposta ad hoc
dunque il progetto di Antonio Maccanico di sospendere i
processi per i vertici istituzionali non trova adesioni.
A questo proposito qualcuno pensa al ripristino
dellautorizzazione a procedere per lazione
penale. Una misura che non richiederebbe modifiche
costituzionali: nel 93 questo tipo di
autorizzazione fu cancellata dalla Carta con la
soppressione dellimmunità.
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DA - IL
MESSAGGERO
BISOGNAVA STUDIARCI - ma
ci siamo arrivati.
Studio dei Ds
La flessibilità
spaventa
sette lavoratori
su dieci
ROMA La
flessibilità è più un ostacolo alla propria vita che
una chance in più, e fa paura ad oltre il 70% dei
lavoratori. L'incertezza sul proprio futuro lavorativo si
riverbera anche sul «dopo», la pensione: quasi l'80%
pensa che non sarà adeguata o addirittura mostra
incertezza sul futuro pensionistico, e solo il 5% di una
fascia di lavoratori giovani pensa che sarà adeguata.
Sono due tra i risultanti più rilevanti di un'inchiesta
sul mondo del lavoro che cambia svolta dai Ds, lanciata a
settembre scorso alla festa nazionale dell'Unità: quasi
16.000 risposte, su quasi 23.000 questionari distribuiti
in tutti i luoghi del lavoro, dalla grande impresa al
più piccolo dei McDonald's, delle mense, delle officine
meccaniche. Un questionario che, dichiaratamente di
sinistra, è stato compilato ache da un sorprendente 7%
di lavoratori di area centrodestra o destra.
Il lavoro piace «molto» al 29,1% degli intervistati,
«abbastanza» al 49,5%, «poco» al 14,3% e «per
niente» al 6,4%. Oltre allo stress, i problemi maggiori
vengono (tra il 20 e il 25%) da burocrazia interna,
ripetitività, gerarchia e ritmi di lavoro. Quando si
passa alla sicurezza e il futuro del lavoro, la
schizofrenia sopra citata si materializza: circa un
quarto (24,4%) lo ritiene «sicuro», poco più della
metà (50,2%) «abbastanza sicuro» e il restante quarto
lo ritiene «poco o per niente sicuro» (rispettivamente,
18 e 6,4%).
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DA - L'UNITA' -
ecco le prime magnifiche
manifestazioni ... attendiamo con trEpidazione quella di
ROMA - per il 15 febbraio 2003.
Trentamila
sotto la neve a Monaco per farsi sentire da Rumsfeld
di
Paola Colombo
MONACO. Assente
il cancelliere Schröder dall'annuale conferenza sulle
politiche di sicurezza che si è svolta nella capitale
bavarese nel forziere del prestigioso hotel Bayerischer
Hof, è toccato al ministro degli esteri Joschka Fischer
rispondere al segretario di Stato alla difesa Rumsfeld
per ribadire la posizione tedesca sulla crisi irachena e
passare al contrattacco con la domanda : «Perché c'è
ora la priorità di Saddam Hussein», quando ancora
esiste la minaccia del terrorismo e di Al Qaeda. Per
Fischer non sussistono ancora gli estremi che
giustifichino un attacco militare per disarmare Saddam,
bisogna dare invece più tempo agli ispettori.
Non si tratta, ha detto Fischer, di illusione pacifista,
ben chiara è la minaccia che rappresenta un dittatore
come Saddam, ma Fischer ha ricordato che ben tre volte si
è trovato dinnanzi alla difficile decisione di far
intervenire l'esercito tedesco, in Kossovo, in Macedonia
e l'anno scorso in Afghanistan. Decisioni sofferte ma che
sono state supportate e giustificate da una visione, una
prospettiva, nei Balcani la possibilità di intraprendere
un cammino di pace e di integrazione in Europa, in
Afghanistan, base del terrorismo, per ricostruire un
paese democratico e pacifico. Per raggiungere questo
obiettivo occorerranno anni e in Afghanistan si è solo
all'inizio.
Fischer ha ancora una domanda per Rumsfeld, con la quale
gli contrappone il semplicismo della soluzione militare:
quanto tempo dovranno rimanere gli americani in Iraq per
garantire il dopo Saddam e la nascita di un processo
democratico. Di fronte all'esempio dell'Afghanistan ciò
potrebbe durare anni, oppure «gli americani pensano di
lasciare il lavoro a metà e di andarsene senza costruire
la pace?». Un attacco militare contro l'Iraq avrebbe
conseguenze inoltre incontrollabili di destabilizzazione
della regione. Se per Rumsfeld, bisogna aprire gli occhi
ed entrare nel XXI secolo agendo preventivamente, per
Fischer occorre decifrare «la grammatica del
terrorismo» per combatterlo, usare tutti i mezzi per
ridurre i rischi, ma soprattutto discuterne all'interno
dell'Alleanza atlantica. Se Rumsfeld ridicolizza le
Nazioni Unite, per Fischer la politica e la diplomazia
hanno ancor il primato perché non si può «vincere la
pace senza l'Onu».
Anche la ministra francese alla difesa, Alliot-Marie, ha
ribadito il primato della Nato sulle coalizioni, «queste
non possono sostituirsi all'Allenaza». Quasi rispondendo
agli attacchi verbali di Rumsfeld dei giorni scorsi la
Alliot-Marie ha detto che la Francia, quale membro
dell'alleanza atlantica si aspetta il dialogo e il
rispetto reciproco e che vanno evitate le interpretazioni
faziose, infondate e menzognere. Il riferimento è anche
alla polemica seguita al rifiuto di Germania, Francia e
Belgio di discutere un piano di difesa Nato per la
Turchia, nel caso questa fosse attaccata dall'Iraq.
La coppia
franco-tedesca lavora a un'iniziativa alternativa alla
guerra per costringere l'Iraq al disarmo. Alla conferenza
sulla sicurezza il ministro federale della Difesa Struck
non ha voluto fornire dettagli a riguardo, e ha
annunciato che il cancelliere Schröder presenterà
giovedì prossimo l'iniziativa franco-tedesca nella
dichiarazione governativa davanti al Bundestag. Per
quanto concerne un piano di difesa per la Turchia, il
ministro Struck ha affermato che entro lunedì si
arriverà ad una soluzione.
Dalle fila dell'opposizione, la presidente della CDU
Angela Merkel, ha fatto appello affinché il governo
federale modifichi la sua posizione sull'Iraq, per tanti
anni, gli «Usa hanno esportato sicurezza e la Germania
ha beneficiato di questo sistema», ed è sbagliato che
alcuni paesi si occupino del «lavoro militare», mentre
altri solo di quello civile, pulito. Ma la maggiornaza
dei tedeschi non sembra dell'opinione che il governo
debba cambiare posizione per uscire dall'isolazionismo,
almeno è quello che pensano tre tedeschi su quattro
secondo un sondaggio telefonico sul canale televisivo
privato Sat 1. E questo lo ha dimostrato anche la grande
partecipazione dei cittadini alle manifestazioni contro
la guerra che si sono tenute a Monaco. In una città con
almeno 3500 agenti in tenuta antisommossa sono state
30.000 le persone che hanno partecipato alle due
manifestazioni, nonostante il freddo e la neve. Nella
centrale Marienplatz, la manifestazione organizzata da
Attac e da organizzazioni anti Nato (Bündnis gegen die
Sicherheitskonferenz) che hanno gridato il loro no alla
guerra e alla conferenza dei «signori della guerra». A
poche centinaia di metri c'era una seconda manifestazione
organizzata dai sindacati del DGB, della SPD e della
Chiesa cattolica ed evangelica contro la guerra. Non ci
sono stati disordini, ma nella notte di ieri sono stati
fermati una ventina di giovani dell'area dell'autonomia
sono stati portati in centrale per accertamenti.
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DA - L'UNITA' -
L'INTERVISTA
08.02.2003
"Più
flessibile, molto precario. Ecco come cambia il
lavoro"
MILANO A preoccupare di più è la precarizzazione dei
rapporti di lavoro. Ma a pesare sono anche
lincertezza sul fronte previdenziale e le
difficoltà di ritrovare unoccupazione una volta
persa lattuale. È quanto emerge
dallinchiesta - cui oggi lUnità dedica un
inserto - promossa dai Ds sul «Lavoro che cambia» i cui
risultati verranno illustrati oggi a Bologna nel corso di
un convegno cui prenderanno parte, con gli altri, il
segretario della Quercia, Piero Fassino, e i leader di
Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Pezzotta e Angeletti.
Uninchiesta, come ha sottolineato Fassino, che
marca il ritorno del partito ad una tradizione iniziata
negli anni settanta. Dei dati più significativi parliamo
col sociologo del lavoro Aris Accornero.
Accornero,
cè una tendenza che emerge con più nettezza da
questa inchiesta? Si parla molto di mobilità, di
flessibilità: cosa emerge dal campione?
«Guardiamo a quanti hanno cambiato lavoro, nella loro
vita professionale. Il 30% lo ha fatto una volta, il 25%
da tre a cinque volte, il 10 per cento più di cinque
volte. Solo il 2% non lo ha mai cambiato. È un segno
evidente del lavoro che cambia. Ventanni fa la
percentuale di quanti non hanno mai cambiato sarebbe
stata molto più alta».
Ci
sono differenze di trattamento tra chi ha cambiato molto
e chi non si è mai mosso?
«Anzitutto chi ha cambiato più spesso guadagna di meno
e viceversa. Dal punto di vista sociale è ingiusto. È
ingiusto che chi si muove di più, in questa era che fa
della mobilità un valore, venga penalizzato».
Il
16% del campione analizzato dichiara di avere rapporti di
lavoro flessibili, cioè di non avere un posto fisso.
Come viene vissuta questa condizione?
«In generale si può dire che chi imbocca questa strada
si ritrova poi con maggior frequenza a fare altri lavori
temporanei: il doppio della media».
Quindi
non si tratta semplicemente di una tappa verso il posto
fisso.
«È difficile
dirlo. Il 50-55% di quanti si avviano lungo questa strada
ci rimangono a lungo, anche se non per tutta la vita
lavorativa. Soprattutto in alcune fasce di età questa
condizione è molto penalizzante, anche perché tra un
lavoro e laltro non esistono tutele, nemmeno con la
legge appena approvata».
Ma
preoccupa la flessibilità o è vissuta come
unopportunità?
«Sette su dieci si dicono preoccupati. Più del 50 %,
però (più al nord che al sud, per la verità), in caso
di perdita del posto pensa di riuscire a trovare un nuovo
lavoro nellarco qualche mese, e il 18% in poche
settimane. Questo dimostra che il mercato del lavoro non
va male e che la disponibilità a muoversi non manca».
Tornando
al discorso generale, il lavoro piace o no?
«Rispetto al passato, conseguenza
dellorganizzazione post-fordista, il lavoro
soddisfa di più. Le differenze, comunque, restano. Sia
in base alla professione che in base che al settore in
cui si presta la propria opera. Quadri, professionisti,
dirigenti, lavoratori autonomi sono più soddisfatti
rispetto agli operai. Chi lavora nellindustria lo
è un po meno. In generale, però, le soglie sono
più elevate che in passato».
Un
tempo il lavoro era quasi sinonimo di fatica. Lo è
ancora?
«Al primo posto nella classifica del disagio, indicato
dal 45% degli intervistati, oggi viene lo stress. È una
percentuale altissima. Quindici-ventanni fa al
primo posto cera la fatica. Anche la ripetitività,
una lagnanza classica, oggi viene dopo un altro fattore
di disagio: la burocrazia interna alle imprese. Quelle
stesse imprese che esaltano la flessibilità, cioè, si
impongo con la loro rigidità. Poi, al quarto posto,
parente stretta della burocrazia, viene la struttura
gerarchica, che le imprese continuano a mantenere.
Significa che, a dispetto degli sbandierati
"organigrammi piatti", i livelli del potere
aziendale restano molti».
E
per quel che riguarda prospettive e sicurezza?
«Il 55%, soprattutto uomini, ritiene di avere buone
prospettive professionali, anche se non sono viste tanto
legate alla carriera. Riguardo la sicurezza, invece, solo
la metà, e soprattutto coloro che hanno qualifiche
elevate, ritiene il proprio posto abbastanza sicuro. E
ciò nonostante l84% degli interpellati sia
titolare di contratto a tempo indeterminato. Anche questo
è un segno dei mutamenti in atto. Un quarto, poi, si
ritiene poco sicuro, mentre laltro quarto si sente
insicuro. Ventanni fa le cose erano diverse».
In
base a cosa varia questo sentimento di insicurezza?
«I più insicuri, come ovvio, sono gli apprendisti e
coloro che hanno le qualifiche più basse. Ma questo
sentimento varia anche in relazione alla dimensione
aziendale. Più lazienda è grossa più ci si sente
sicuri (e si guadagna di più), anche se diminuisce la
soddisfazione».
Oltre
il 56% di quanti hanno risposto al questionario è
iscritto al sindacato, il 28,8% ha la tessera dei Ds.
Qual è la richiesta più frequente che viene loro
avanzata?
«Più unità nel sindacato, anzitutto. Lo chiede oltre
la metà del campione, il 68% degli iscritti ai Ds e il
63% di quelli della Cgil, mentre scende appena sotto la
media tra gli iscritti a Cisl e Uil. È un dato
significativo».
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DA - L'UNITA' -
L'INTERVISTA
08.02.2003
"Alleati
di Washington non vuol dire essere vassalli"
«Essere alleati degli Usa non significa divenirne
vassalli. Soprattutto quando si è di fronte a scelte
così impegnative e drammatiche come assecondare o
addirittura essere partecipi di una guerra». Ad
affermarlo è luomo che ha guidato la politica
estera italiana nei governi dellUlivo: lex
ministro degli Esteri, e attuale vice presidente del
Senato, Lamberto Dini.
Il
ministro della Difesa Usa, Donald Rumsfeld, nei suoi
incontri italiani ha sentenziato: «Gli sforzi della
diplomazia sono falliti. I giochi sono chiusi». È
così?
«Già il fatto
che il segretario alla Difesa statunitense venga in
Italia in questo momento è di cattivo auspicio. Perché
significa che gli Stati Uniti intendono portare avanti le
azioni militari. In particolare, ha molto sorpreso anche
me che a distanza di ventiquattrore dalle
dichiarazioni del segretario di Stato Colin Powell al
Consiglio di Sicurezza, il presidente Bush abbia voluto
rimarcare di persona che i giochi sono chiusi o si
chiuderanno inderogabilmente il 14 febbraio, quando gli
ispettori torneranno alle Nazioni Unite».
Cosa
significano queste prese di posizioni ultimative?
«Due cose, ugualmente preoccupanti: in primo luogo che,
anche indipendentemente da quello che diranno gli
ispettori, gli Usa cercheranno di forzare il passaggio di
una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi
luso dei mezzi militari per il disarmo di Saddam.
Ma vuol dire anche, qualora non ci fosse una maggioranza
nel Consiglio di Sicurezza a favore di una tale
risoluzione, che gli Stati Uniti vogliano agire
unilateralmente, con unazione preventiva al di
fuori dellambito del Consiglio di Sicurezza e delle
Nazioni Unite. Ed è questo il pericolo maggiore che
viviamo oggi».
In
questo frangente, lItalia ha ribadito sia con il
presidente del Consiglio Berlusconi che con il ministro
della Difesa Martino, la piena intesa con gli Usa.
Alleati o vassalli?
«È questa una questione cruciale. Vede, al di là
dellamicizia profonda che lega lItalia come
gli altri Paesi europei agli Stati Uniti, ciò non
significa che su singole questioni i Paesi europei,
compresa lItalia, debbano essere sempre
daccordo con gli Usa. Ha sorpreso il fatto che il
presidente del Consiglio, durante la sua visita a
Washington, abbia dichiarato che lItalia sarà a
fianco degli Stati Uniti in un conflitto militare. Questa
era la dichiarazione del presidente del Consiglio, e
quando Silvio Berlusconi è stato questionato da Vladimir
Putin a Mosca su questa frase, il presidente del
Consiglio italiano ha sostenuto che la "mia
dichiarazione è stata male interpretata". Non è la
prima volta che questo succede. Quello che io temo è che
nel suo intervento ai due rami del Parlamento, il
presidente del Consiglio abbia lasciato aperta la
possibilità di schierare lItalia con gli Stati
Uniti anche nel caso di unazione preventiva
unilaterale. Non ha chiuso, come avrebbe dovuto fare,
quella porta. Mentre ha detto che sarebbe fortemente
auspicabile che lOnu si assuma la responsabilità
di ottenere il disarmo, ma anche che lOnu autorizzi
un uso misurato della forza, se è necessario. Ma qualora
ciò non avvenisse, quale sarebbe la posizione
dellItalia di fronte ad unazione unilaterale
americana appoggiata da "quattro gatti", vale a
dire da quattro Paesi di non primissimo piano? Del resto,
il presidente Berlusconi laltro ieri ha parlato
esplicitamente di guerra preventiva. So che questo è un
concetto difficile, che va discusso senza partito preso.
Ora, nel pensiero giuridico internazionale,
unazione militare preventiva si può sostenere
contro una minaccia imminente, perché in quel caso ci
troveremmo di fronte ad unautodifesa accettata
internazionalmente. Il fatto è che oggi non esiste un
preciso e condiviso convincimento che vi sia una minaccia
imminente da parte dellIraq tale da giustificare la
guerra».
Alla
luce del precipitare degli eventi, come giudica il
«Documento degli Otto» a sostegno degli Usa?
«Resto convinto che si sia trattato di una iniziativa
fondata su una cattiva idea che poteva essere evitata.
Essa, in realtà, è stata portata avanti da Spagna e
Gran Bretagna, certamente con l'avallo
dellAmministrazione Bush, e mi dispiace che il
presidente Berlusconi vi abbia aderito. Detto questo,
resto dellidea che Francia e Germania, quando si
sono espresse negativamente riguardo ad un possibile
conflitto, avrebbero dovuto anche cercare di unire
lEuropa intorno alla loro posizione. UnEuropa
divisa è unEuropa politicamente dimezzata nel suo
rapporto con gli Usa».
LUlivo
e una grande questione come la pace e la guerra. Le
chiedo: cè il rischio di una lacerazione e, a suo
avviso, quale può essere il denominatore comune su cui
è possibile attestarsi?
«Oggi mi pare che il centro-sinistra sia giustamente
schierato contro la guerra, specie se essa fosse
preventiva e unilaterale. È una posizione giusta,
fondata, in quanto non vi sono elementi sufficienti da
convincere che la guerra sia necessaria. Diciamolo
chiaramente: lEuropa non si sente minacciata in
questo momento dallIraq, anche se non esistono
dubbi sul fatto che quello di Saddam Hussein sia un
regime dispotico, tirannico e che certamente può
nascondere anche armi non convenzionali, chimiche,
missili... E devo dire che lelenco fornito da Colin
Powell delle innumerevoli violazioni da parte irachena
della risoluzione 1441, è un elenco impressionante e
molto documentato. LIraq potrebbe anche possedere
armi nascoste che gli ispettori non hanno trovato, ma
manca il motivo, vale a dire la convinzione che Saddam
Hussein è alla vigilia dellutilizzo di queste armi
contro Paesi limitrofi o contro lOccidente. E di
questo non cè evidenza. Il fattore di maggior peso
citato dal segretario di Stato americano al Consiglio di
Sicurezza, è il supposto legame tra il regime di Baghdad
con il network terrorista di Al-Qaeda. Naturalmente, se
quel rapporto fosse stato confermato o provato con
evidenza, sarebbe stato possibile legare lIraq
all11 settembre, e quindi al rischio di altri
attentati terroristici, al punto da giustificare un
attacco allIraq nellambito della lotta al
terrorismo. Questo è un punto cruciale. Ed è proprio su
questo punto che non sono apparsi assolutamente
convincenti gli elementi di fatto presentati da Powell.
Hanno cercato in tutti i modi prove certe di questo
legame ma non le hanno trovate. Per giustificare una
guerra manca lesistenza di una minaccia imminente
dellIraq».
Veniamo
al centro-sinistra.
«In queste circostanze, è giusto che si schieri contro
la guerra. Se dovessero emergere elementi nuovi,
convincenti, del pericolo imminente di Saddam Hussein
contro lOccidente; elementi di tale rilevanza da
portare ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che
autorizzasse anche lintervento militare, ecco che
allora il centro-sinistra si troverebbe in dovere di
formulare un nuovo giudizio e ad esprimere una nuova
posizione. So bene che nellambito della sinistra ci
sono coloro che anche di fronte ad una risoluzione delle
Nazioni Unite che darebbe legalità allintervento
militare, vorrebbero esprimersi contro. Tuttavia, a mio
avviso dovremmo vedere il dettato della possibile
risoluzione, prima di esprimere un giudizio negativo.
Altrimenti, lItalia si porterebbe al di fuori, essa
stessa andando contro quelli che sono i principi sanciti
dalla legalità internazionale che deriva da una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza».
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