LUANA - c'e' stata la famosa raccolta delle firme da parte dei radicali - circa novemila in tutto, vogliono la cacciata di SADDAM e un governo dell'ONU - che e' come dire degli americani. poi quest'altra serie di iniziative che vi posto - .... tutte desiderano cacciare SADDAM e non si rendono conto che il problema della guerra e' proprio questo - SADDAM NON VUOLE ANDARSENE - e allora c'e' da chiedersi che iniziative sono ?

C'E' ANCHE da scrivere che la FRANCIA e' uno di quei paesi che stava facendo accordi con SADDAM insieme alla RUSSIA per i nuovi giacimenti trovati nel 1995 - ed e' per questo che l'AMERICA ATTACCA. e allora non c'e' che da sperare nei veri pacifisti - e che il PAPA per motivi religiosi - nei quali i cattolici sono oramai in minoranza - non faccia il passo decisivo e vada a BAGHDAD - solo cosi' la guerra si ferma.

DA - LA REPUBBLICA

Il governo di Berlino conferma le anticipazioni dello Spiegel
"Stiamo riflettendo su una proposta che eviti la guerra"
Il piano di Francia e Germania
"In Iraq i caschi blu dell'Onu"
I due paesi starebbe preparando una bozza di risoluzione
Il controllo del paese verrebbe preso dalle Nazioni Unite

BERLINO - E ora l'opposizione alla guerra diventa anche una proposta. Messa a punto da Francia e Germania. Schroeder e Chirac, insomma, si sarebbero convinti che a questo punto, il semplice no alla guerra non basta più. Ci vuole una proposta alternativa. Che sarebbe sul punto di essere resa pubblica. Si tratta di un piano segreto al quale i rispettivi governi lavorano dall'inizio dell'anno, e che ha lo stesso obiettivo di quello di Bush (vale a dire il completo disarmo di Saddam Hussein), ma si ripromette di conseguirlo in tutt'altro modo. Parigi e Berlino, infatti, vogliono in Iraq i caschi blu dell'Onu: siano loro - dicono - a garantire lo smantellamento delle armi di distruzione di massa.

La notizia del piano è stata rivelata dall'autorevole settimanale tedesco
Der Spiegel, ed è stata confermata da un portavoce governativo a Berlino. Anche se lo stesso portavoce si è limitato a l'esistenza di "riflessioni comuni tra Francia e Germania per concrete alternative di pace", e non ha voluto aggiungere altri particolari.

Particolari che invece Der Spiegel fornisce nel dettaglio. Secondo il settimanale la proposta franco-tedesca dovrebbe assumere presto la forma di una bozza di risoluzione da presentare al Consiglio di sicurezza dell'Onu. E prevede che i caschi blu delle Nazioni Unite prendano "di fatto" il controllo dell'Iraq e garantiscano "un regime di robusto disarmo". In questo caso tutto il territorio iracheno sarebbe dichiarato "no fly zone".

Il progetto contemplerebbe anche l'impegno diretto dei due paesi. Tra le truppe Onu ci sarebbero anche soldati tedeschi, mentre aerei francesi "Mirage IV" completerebbero con i rilevamenti dall'alto il lavoro fatto a terra dagli ispettori. Il numero di questi ultimi verrebbe triplicato, e per controllare ancora più strettamente l'operato del regime di Saddam, verrebbe imposta una fitta rete di sanzioni, con controlli più severi sulle esportazioni irachene verso i Paesi industrializzati e con accordi con i Paesi limitrofi per impedire efficacemente il contrabbando di petrolio.

Se le anticipazioni dello
Spiegel saranno confermate nel dettaglio, e soprattutto se davvero su questo piano i due paesi chiederanno il voto dell'Onu, la mossa franco-tedesca rischia di diventare un serio ostacolo sulla strada della "legittimazione" di un attacco Usa all'Iraq. Secondo il settimanale, infatti, il progetto alternativo alla guerra sarebbe stato già sottoposto all'attenzione dei leader più scettici sull'intervento, come il presidente russo Vladimir Putin ed il presidente cinese designato Hu Jintao. Vale a dire, i due paesi che come la Francia hanno diritto di veto nel Cosiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

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DA - LA REPUBBLICA.

Il segretario generale contro un intervento senza ombrello Onu
"Altrimenti rischiamo di non fare fronte agli altri conflitti"
Annan: "Una guerra unilaterale
indebolirebbe le Nazioni Unite"
Un appello pronunciato nel giorno in cui a Bagdad comincia
la missione di Blix: "Oggi colloqui utili e molto concreti"

NEW YORK - Un nuovo monito del segretaro dell'Onu Kofi Annan, per scongiurare un intervento unilaterale degli Stati Uniti in Iraq. Un appello che cade proprio nel giorno in cui inizia la nuova trasferta a Bagdad dei capi missione delle Nazioni Unite, Hans Blix e Mohammed El Baradei, nell'ennesimo tentativo di convincere Saddam a collaborare più concretamente con gli ispettori: i primi colloqui, avuti oggi coi vertici locali, vengono da loro definiti "utili e molto concreti".

Ma cominciamo con le parole del numero uno del Palazzo di Vetro. Annan le pronuncia a Williamsburg, in Virginia, nel suo discorso per l'anniversario del William and Mary College. Il succo del suo discorso è questo: una guerra decisa unicamente dagli Usa indebolirebbe il ruolo delle Nazioni Unite. "Se esiste una leadership dell'Onu forte, che viene esercitata mediante una paziente persuasione diplomatica e la creazione di coalizioni - sottolinea Annan - le Nazioni Unite hanno successo. Le Nazioni Unite ottengono il massimo dei risultati per tutti i loro membri, compresi gli Stati Uniti, quando sono unite e lavorano come fonte di un'azione collettiva, piuttosto che della discordia".

E dunque, "un consenso più ampio sull'Iraq facilita la nostra unione e la capacità di far fronte a altri conflitti che bruciano nel mondo, che procurano indicibili sofferenze e che richiedono in maniera urgente la nostra attenzione, da Israele alla Palestina, al Congo, alla Costa d'Avorio, per non parlare degli sforzi tesi a stabilizzare l'Afghanistan".

Insomma, un forte richiamo al senso di lungimiranza degli Stati Uniti, unica potenza mondiale, rispetto a tutte le aree di crisi del pianeta. Ma non un discorso pregiudizialmente contrario a qualsiasi intervento in Iraq: Annan infatti dice che il ricorso alla forza deve sì essere la scelta estrema, ma sottolinea che se il rapporto presentato venerdì prossimo dagli ispettori dimostrerà che il regime di Saddam non ha rispettato i suoi obblighi in materia di disarmo, il Consiglio di sicurezza dell'Onu "deve far fronte alle sue responsabilità".

Una presa di posizione che rilancia l'importanza dell'attuale missione irachena di Blix ed El Baradei, giunti oggi a Bagdad. Interpellato dai cronisti dopo i colloqui con i vertici iracheni, Blix li definisce "utili e molto concreti". Ed El Baradei aggiunge: "La parte irachena sta fornendo spiegazioni su alcune questioni. Abbiamo discusso dei voli di ricognizione degli U-2, delle interviste agli scienziati e dei programmi chimici, biologici e missilistici. Vedremo i risultati domani", quando ci saranno nuovi incontri.

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DA - LA REPUBBLICA

quando BERLUSCONI dice che non tocchera' i dirigenti dell'ISTAT c'e' da tremare, cosi' come aveva detto che il CNR sarebbe stato salvo, proprio l'altro ieri e' stato come dire - annullato - ed ora tocca nuovamente all'articolo 18 - speriamo che torni il cervello alla CISL E ALLA UIL.

Malgrado l'appello alla riconciliazione di Fassino i tre leader,
tutti presenti a un convegno Ds, sembrano sempre più distanti
Gelo tra Cgil, Cisl e Uil
"Tra noi l'unità è lontana"
Ma su un punto i sindacati fanno fronte comune: la battaglia
contro la reintroduzione delle 40 ore per i ministeriali

BOLOGNA - L'appello all'unità sindacale del segretario dei Ds, Piero Fassino, non fa breccia tra i leader di Cgil, Cisl e Uil. Che però su due punti manifestano una posizione comune: il "no" al referendum promosso da Rifondazione sull'astensione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle imprese con meno di 16 dipendente; e il no al decreto legislativo che reintroduce le 40 ore per i dipendenti ministeriali.

Ma procediamo con ordine. Al convegno dei Ds sul lavoro che cambia Gugliemo Epifani, Savino Pezzotta e Pierluigi Angeletti confermano la freddezza dei rapporti tra le tre organizzazioni, a partire dal tema del mercato del lavoro e dalle deleghe appena approvate dal Parlamento. Sottolineando, però, anche i rischi del referendum sull'articolo 18. Tutti e tre rimandano la decisione sul voto, ma Pezzotta precisa che sicuramente "non voterà a favore", mentre Epifani insistite di più sulla necessità di estendere le tutele attraverso una legge.

Differenze palpabili anche negli atteggiamenti: così, mentre Fassino ricorda come, grazie a iniziative promosse dal partito, i tre leader si siano incontrati quattro volte in un anno (però con un lapsus ha chiamato i leader di Cgil, Cisl e Uil "i tre segretari della Cgil"), Epifani, Pezzotta e Angeletti si scambiano appena un cenno di saluto. Ma se il momento è delicato, la speranza per un avvicinamento tra le posizioni non manca. "La situazione è difficile e complicata - dice Pezzotta - molte cose ci dividono, e non di poco conto. Non vedo nel breve periodo una speranza di unità ma non chiudo la porta, mantengo una speranza, anche se la vedo lontana".

Più ottimista sembra Epifani, che però sottolinea come "la riconquista dell'unità sia sempre stato merito dei segretari della Cgil. Non sono d'accordo con Savino e mi dispiace sia andato via - ha aggiunto - quando dice che abbiamo culture diverse e diamo risposte diverse. Abbiamo culture diverse ma per tanti anni abbiamo dato risposte uguali".

E ad Angeletti che chiede di fare uno sforzo unitario che porti a "far vincere il sindacato" piuttosto che una parte politica, Epifani ricorda come la Cgil sia stata lasciata da sola di fronte alla decisione del ministro del Welfare, Roberto Maroni, di non coinvolgerla nei lavori preparatori della Conferenza sull'handicap. "Mi piacerebbe - ha concluso - che ci fosse un richiamo a Maroni da parte di Cisl e Uil".

C'è però, come già detto, un secondo punto che accomuna i sindacati in un deciso "no" alle decisioni del governo. E cioè la volontà di scongiurare il rischio di un ritorno dei ministeriali alle 40 ore settimanali. Per questo Cgil, Cisl e Uil hanno inviato una lettera al presidente del Consiglio, al ministro del Lavoro e al ministro della Funzione pubblica per ottenere una convocazione urgente, e chiedere il blocco immediato del decreto legislativo sull'orario di lavoro approvato la scorsa settimana dal consiglio dei Ministri.

Il decreto, che recepisce la direttiva europea sull'orario di lavoro, prevede come tetto massimo le 40 ore settimanali e non prevede deroghe per il settore del pubblico impiego (se non alcune eccezioni), a cui sarebbero applicate le regole del privato anche per quanto riguarda gli straordinari e il riposo settimanale.

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DA - LA REPUBBLICA

CONCETRANDOCI sui problemi della guerra - bisogna continuare a seguire i nostri, non dimentichiamo che al centro sud e' la sinistra a vincere.

Il boss della 'ndrangheta arrestato è il figlio di Ciccio
che negli anni 80 è stato il re dei dei sequestri in Calabria
In manette Rocco Barbaro
latitante da dieci anni
E' accusato di omicidio, traffico di droga e associazione mafiosa
Si è arreso ai carabinieri senza opporre resistenza

PLATI' (REGGIO CALABRIA) - Rocco Barbaro, latitante da dieci anni, accusato da due procure, Milano e Reggio Calabria, di associazione mafiosa, traffico di droga e omicidio, è stato arrestato nella notte dai carabinieri del Ros. Era disarmato. Con lui aveva solo una radiolina con la quale si sintonizzava sulle frequenze della polizia per prevenirne le mosse. Ma stanotte non gli è stata utile. Rocco Barbaro si nascondeva insieme a un fiancheggiatore, Rosario Perre, in una casale di contrada Senoli, nell'Aspromonte. I due si sono consegnati ai carabinieri del Ros di Vibio Valentia senza opporre alcuna resistenza.

Si è consegnato subito Barbaro, boss della 'ndrangheta e figlio di quel Francesco, detto "Ciccio 'u castanu', re dei dei sequestri di persona in Calabria negli anni Ottanta. Un anno fa era finito in carcere suo fratello Giuseppe. Quando lo presero gli investigatori della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria scoprirono, a Platì, una serie di cunicoli utilizzati come vie di fuga e nascondigli, che dalle immediate vicinanze dalla casa dei Barbaro portavano fino a un torrente.

Nicola Gratteri, sostituto procuratore distrettuale antimafia di Reggio Calabria, ha dichiarato che "la cattura di Rocco Barbaro è un duro colpo al vertice della 'ndrangheta di Platì". E anche il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu ha epresso apprezzamento al comandante generale dell'Arma dei carabinieri, Guido Bellini che ha portato a termine l'operazione. "L'arresto di Barbaro - ha dichiarato il ministro - è la dimostrazione dell'efficacia del programma di lavoro che si sta attuando nel campo della sicurezza dei cittadini e contro la criminalità organizzata, grazie all'impegno e agli sforzi sempre apprezzabili delle forze dell'ordine".

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DA - IL MANIFESTO

e' da tempo che lo andiamo dicendo facendo eco a quello che afferma EMERGENCY - le bombe intelligenti sono stupida idiozia USA.

APPELLO


Ma quale guerra chirurgica


MARINELLA CORREGGIA


Decine di migliaia di civili iracheni morirono sotto i bombardamenti degli Usa e dei loro alleati nella guerra del 1991. Quanto ai militari, le stime indicavano fra i 50.000 e i 120.000 morti; in tanti finirono sepolti vivi nelle trincee o uccisi da bombe al fosforo mentre si ritiravano in massa dal Kuwait. La nuova guerra porterà un numero assai maggiore di morti e feriti, civili e militari: «Un disastro nel breve, medio e lungo periodo», secondo i calcoli del rapporto
Collateral Damages the Health and Environmental Costs of War on Iraq redatto da Medact, un'organizzazione di medici britannici che fa parte dell'Ippnw, Associazione internazionale medici per la prevenzione della guerra nucleare, con affiliati in 80 paesi. E il rapporto è stato compilato prima delle ultime «rivelazioni» circa l'ipotesi di colpire Baghdad con 800 missili al giorno. Le stime che Medact ha portato alla distratta attenzione dell'Onu sono basate sullo studio di precedenti conflitti: la guerra del Golfo del 1991, la guerra cecena e quella jugoslava, le «operazioni» a Panama, in Somalia e in Libano. Lo scenario prevede una campagna articolata in quattro fasi: gli immancabili e massicci bombardamenti delle principali città, quindi la presa dei campi petroliferi intorno a Bassora nel sud e nella regione curda a nord, infine l'attacco di terra a Baghdad. Il generale Peter Gration (non sappiamo se in pensione; la sua lettera è riportata sul sito di Medact) scrive: «Lo scenario è militarmente sensato, le stime dei relativi morti e feriti sono credibili; poiché la posta in gioco stavolta è il cambio del regime, occorrerà più tempo rispetto alla Desert Storm del 1991; nel frattempo, inoltre, sono state sviluppate armi nuove che saranno usate. Un nuovo conflitto sarà quindi più intenso e distruttivo».

Scenario che diventa semplicemente allucinante in caso di ricorso al nucleare. Fatta cadere su Baghdad, una bomba nucleare di taglia «Hiroshima» ucciderebbe fra 66mila e 360mila persone, mentre una moderna bomba termonucleare sterminerebbe un numero di persone variabile fra alcune centinaia di migliaia e tre milioni: Medact si basa sullo studio indiano Ramana che nel 1999 cercò di valutare l'impatto di un ipotetico attacco nucleare pakistano su Bombay.

Se invece l'annunciato conflitto fosse esclusivamente convenzionale i morti varierebbero fra 50mila e oltre 260mila, per la maggior parte civili di Baghdad («grazie» al combinato disposto di bombardamenti e di scontri di terra). La stima comprende anche fra cento e 5mila morti fra gli attaccanti. I feriti totali sarebbero centinaia di migliaia. Nel caso di uso di armi chimiche e biologiche occorrerebbe aggiungere fino a 12mila vittime. Inoltre, l'attacco da parte Usa di installazioni che - a loro dire - contenessero sostanze chimiche, biologiche e nucleari provocherebbe rilasci dagli effetti sanitari e ambientali devastanti. Grande pericolo per l'ambiente anche il possibile sabotaggio dei pozzi petroliferi nel sud e nel nord. La guerra civile eventuale aggiungerebbe altri 20mila morti. Ma la distruzione rinnovata delle infrastrutture civili e le difficoltà di soccorrere le popolazioni provocherebbero nel dopoguerra immediato altri 200mila morti, per epidemie e fame. Precisa Medact: lo stato di salute degli iracheni e delle infrastrutture civili era migliore nel 1991 (la guerra e poi l'embargo hanno provocato un grave deterioramento), quindi le capacità di resistere a una nuova emergenza sono fortemente indebolite. Del resto, stime basate su studi dell'Organizzazione mondiale della sanità (Who) e dell'Unicef indicano che almeno 500mila persone avrebbero bisogno di cure durante e dopo il conflitto, e che lo stato nutrizionale di almeno 3 milioni di iracheni precipiterebbe. Sarebbero inoltre 900mila i rifugiati da assistere.

La conclusione - per Medact e Ippnw - è che «il mondo ha bisogno urgente di una leadership saggia e umana, che riconosca che la sicurezza nazionale è impossibile senza quella internazionale» e che «faccia del XXI secolo un'era di pace per il pianeta». Cominciando a risolvere pacificamente la crisi irachena.


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DA - IL MANIFESTO

ECCO le prove per colpire SADDAM - tutte FALSE

Il dossier Iraq, humor britannico


Falso il rapporto contro Saddam Hussein. I servizi segreti inglesi hanno messo assieme vecchi articoli di giornale (alcuni addiritura di dodici anni fa) e documenti scaricati da internet


ORSOLA CASAGRANDE
LONDRA


Le bugie hanno le gambe corte. E la brutta figura è assicurata. Il governo Blair ieri a disperatamente cercato di difendere il dossier sulla colpevolezza dell'Iraq presentato come recentissima raccolta di materiale e informazioni dell'intelligence e che invece altro non è che un collage di informazioni e articoli tagliuzzati, ricopiati (con tanto di errori) e incollati malamente assieme. Alcune delle informazioni sono addirittura vecchie di dodici anni. Infatti il governo ha utilizzato perfino un articolo scritto da uno studente californiano neo-laureato e relativo alla situazione irachena pre-guerra del golfo del `91. Arrogante e per nulla intimorito il portavoce del premier Tony Blair ha continuato a ripetere che il «dossier è accurato» e ha aggiunto di non avere «nulla di cui vergognarsi e niente da giustificare».

E pensare che tre giorni fa il premier ha liquidato il dossier (quello sì recente, dato che risale a sole tre settimane fa) redatto dai servizi segreti del MI5 come «roba vecchia». Perché ovviamente in quel rapporto c'erano informazioni non gradite a Blair: l'intelligence britannica infatti sostiene che non ci sia alcun legame tra Saddam Hussein e al-Qaida. Il commento più duro alle imbarazzanti rivelazioni di ieri è quello dell'ex ministra laburista dei trasporti, l'attrice Glenda Jackson: «Se il dossier sull'Iraq presentato al parlamento e al paese come un documento affidabile e aggiornatissimo, frutto del lavoro dell'intelligence britannica, anche se in realtà si trattava di un documento che metteva insieme fonti e articoli anche molto vecchi che nulla avevano a che fare con l'MI5, allora possiamo dire di essere di fronte ad un altro esempio di come il governo stia cercando di ingannare il paese e il parlamento sulla questione della guerra contro l'Iraq». E naturalmente, ha aggiunto Jackson in una intervista alla
Bbc Radio4, «ingannare è un eufemismo per dire mentire».

Intervistato dalla
Bbc Radio4 l'autore dell'articolo copiato, lo studente californiano Ibrahim al-Marashi ha confermato che il suo lavoro era stato pubblicato dalla Middle East Review of International Affairs. «Le mie fonti - ha aggiunto - erano documenti che avevo ottenuto da ribelli kurdi nel nord dell'Iraq e documenti che erano stati lasciati dai servizi segreti iracheni in Kuwait». Più di dieci anni fa, s'intende.

Il dossier presentato dal governo britannico era stato citato più volte dal segretario di stato americano Colin Powell come «estremamente dettagliato e preciso». Powell ha nuovamente fatto riferimento al rapporto britannico mercoledì quando ha presentato le nuove «prove» della colpevolezza di Saddam Hussein al consiglio di sicurezza dell'Onu. «Vorrei - aveva detto Powell - attirare l'attenzione dei miei colleghi sull'accurato rapporto distribuito dal Regno unito... che descrive in minuzioso dettaglio le attività con cui l'Iraq sta ingannando il mondo».

Il portavoce di Tony Blair ha ammesso che «ripensandoci, avremmo forse dovuto citare le fonti, per evitare confusioni inutili. Ma nel complesso - ha concluso - il documento è valido e accurato». Nessun imbarazzo nemmeno per gli errori di ortografia che confermano che si è trattato proprio di un'operazione di mero
cut and paste. Tony Blair è quindi intervenuto per cercare di chiudere la vicenda sostenendo di essere pronto ad affrontare il test di popolarità. «Il pericolo -ha detto - posto dalle armi di distruzione di massa è enorme e io ne sono convinto». Il problema è che Blair non sembra essere disposto a sottoporre le sue paure al vaglio del parlamento. Rispondendo alle interrogazioni di alcuni deputati il ministro della difesa Geoff Hoon ha detto che «bisogna essere molto cauti sul pronunciamento del parlamento prima che la guerra abbia inizio: non possiamo permetterci di passare informazioni al nemico». Insomma, se un dibattito (e un voto) ci sarà a Westminster, avverrà a bombardamenti in corso.

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DA - IL MANIFESTO - L'INTERVISTA

«Questa è la guerra di Bush contro tutti»


Gino Strada: «Gli Stati uniti si sentono già fuori dall'Onu, solo l'opinione pubblica può fermare il conflitto»


ANGELO MASTRANDREA


«Il 15 febbraio dovremo essere in milioni, per dire che vogliamo vedere sparire la guerra dalla faccia della terra». Gino Strada, fondatore di Emergency, osserva l'escalation prebellica da un punto d'osservazione molto particolare: l'ospedale di Kabul in cui continua a svolgere il lavoro di chirurgo di guerra. Ma è in attesa di poter partire per Bagdad, a portare soccorso alle prossime vittime dei bombardamenti. «Abbiamo due ospedali, tre centri di riabilitazione e venti tra cliniche e centri di pronto soccorso, tutti nel nord dell'Iraq, ma dovremmo mettere in piedi qualcosa anche a Bagdad», dice al telefonino satellitare dalla capitale afgana.

Strada, il presidente Bush ha detto che «i giochi sono finiti» e che gli Stati uniti potrebbero agire unilateralmente se l'Onu non prenderà la decisione che la Casa Bianca si attende. Quali pensa possano essere le conseguenze di questo ultimatum?

Gli Stati uniti agiscono «multilateralmente quando possono e unilateralmente quando debbono». Nessun atto di accusa, sono le parole usate da un ex Segretario di stato Usa. Loro la pensano così, e lo dicono. Che i loro discorsi, e le loro decisioni, facciano a pezzi il diritto internazionale e che si chiuda l'era delle Nazioni unite, questo non li interessa affatto, non è nei loro piani. «Colpiremo chiunque possa costituire una minaccia agli interessi nazionali americani». Questa di per sé è una dichiarazione di guerra, a tutti noi. Ci colpiranno se un giorno intralceremo, anche inconsapevolmente, la loro strada. Stiamo perdendo il conto di quante guerre sono state istigate, quanti colpi di stato finanziati, quanti tentativi di genocidi sono stati armati e combattuti dagli Stati uniti dal `45 in poi. Indonesia, El Salvador, Corea, Congo, Cile, Perù, Nicaragua, Vietnam, Cambogia, Guatemala. I primi dieci che mi vengono in mente, si potrebbe andare a raffica. Di fronte a dichiarazioni come quelle di Powell, credo dovremmo tutti avere il coraggio di dire ad alta voce quello che è nella testa di tutti, anche se di parti politiche diverse: che, ancora una volta, sono gli Stati uniti a volere la guerra. Se molti, governanti di ogni colore politico, avessero il coraggio morale di accettare questa verità, che c'è davanti agli occhi ed è nella memoria e nelle cicatrici di molti, avremmo fatto un grande passo avanti. Una delle più celebrate riviste Usa ha rivelato dopo un sondaggio che la maggioranza dei cittadini statunitensi considera il proprio paese il maggior pericolo per la pace mondiale.

Pensa che la guerra, come continua a ripetere Kofi Annan, sia ancora evitabile? E come?

Gli Stati uniti in realtà non si sentono dentro l'Onu, certo non sembra spirito da Nazioni unite quello dove le prove, mediaticamente preparate, sentenze già scritte, le fornisce l'accusatore. Kofi Annan fa bene a sperare, ma sono convinto che l'«arma» più efficace per la pace in questo momento sia la presa di coscienza dei cittadini. Sta ai cittadini dei paesi europei di mobilitarsi per costringere i propri governanti a non entrare in guerra. Se non altro per rispettare un principio spesso sbandierato a vanvera: quello della volontà popolare. La vogliamo chiamare opinione pubblica? E' lo stesso. La grande maggioranza degli italiani è contro la guerra, due italiani su tre pensano che non ci si debba entrare neanche se autorizzata dall'Onu. Non sorprende, da persone intelligenti non si fidano di quel che succede nel Palazzo dell'Onu, dove l'aria sa un po' di petrolio. Solo un forte movimento di cittadini in tutti i paesi, e in particolare negli Stati uniti, può fermare questa follia.

Dopo la visita di Berlusconi a Bush e la lettera di sostegno di otto paesi europei, il governo italiano viene considerato il maggiore alleato degli Usa dopo la Gran Bretagna di Tony Blair. In parlamento l'opposizione non riesce a trovare l'accordo nemmeno su una mozione comune di contrarietà al conflitto. Come valuta il comportamento del governo e dei parlamentari del centrosinistra?

Non seguo le vicende italiane da vicino, ho visto solo qualche minuto del discorso del presidente del consiglio, prima che il satellite ci lasciasse. Mi raggela, dei politici, quando incitano ad agire «per la nostra sicurezza»: di solito è il via libera perché si massacrino un po' di «effetti collaterali» da qualche parte del mondo. Saranno invece in tanti ad essere uccisi, anche se poi ci penseranno le televisioni a ridurne il numero, a fare i distinguo, a spacciare per covi terroristici villaggi bombardati. A proposito, ce ne hanno mai fatto vedere uno di quelli polverizzati in Afghanistan? Governo e centrosinistra? Non so, io non credo che la pace sia un valore di sinistra o di destra. Io credo che la pace sia un valore di tutti, che come tale vada riconosciuto, e quindi fatto crescere, rispettato. Non so interpretare comportamenti. Solo mi sembra di capire che il governo ha intenzione di portarci in guerra, e che l'opposizione non vota compatta contro la guerra. Mi domando: ma allora sono governo e opposizione di che cosa? Se la pensano diversamente tra di loro, di questo sono certo, ma poi nessuno dei due sta ad ascoltare - e ad esprimere - quello che pensa la maggioranza di noi, io credo sia il caso che ci preoccupiamo tutti e alla svelta. «Non un soldo né un uomo, non una base né un permesso di sorvolo». Tutto qui, fuori dalla guerra, non la vogliamo, la ripudiamo. Non sarebbe stato un gesto eroico. Anche la nostra Costituzione ripudia la guerra.

All'interno dell'Ulivo c'è chi sarebbe favorevole all'intervento se «legittimato» dall'Onu. Cosa pensa in proposito?

Può risultare quasi impietoso parlare dell'Onu in questo momento. In Iraq ho conosciuto Hans von Sponeck, alcuni anni fa. Era a capo dell'Onu e si è dimesso per non essere complice di un «genocidio», quello dei bambini iracheni. Servono le Nazioni unite, non questa Onu. Affidabilità zero in termini di sicurezza, quando i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono i venditori di quattro quinti delle armi in circolazione. Guerra con l'Onu o senza l'Onu? Ma ammazzano meno bambini, le bombe, se pitturate di azzurro? Si deve capire che mettere al bando la guerra come strumento è la priorità di noi tutti. Non c'è alternativa possibile. La pace non può essere in saldo, e sulla guerra non si fanno sconti.

Il 15 febbraio ci sarà una giornata di mobilitazione mondiale contro la guerra. Come e quanto pensi riuscirà a incidere sulle decisioni dei governi, e da quali altre iniziative potrebbe essere accompagnata?

Spero molto. Dovremo essere milioni di cittadini, per dire che non vogliamo guerra, non vogliamo più guerre, vogliamo vederle sparire dalla faccia della terra. Vorrei che il 15 febbraio fossero in tanti a impegnarsi per la pace, uniti solo dall'obiettivo di fermare la guerra, e in ogni caso di tenerne fuori il proprio paese. Avremmo fatto un passo avanti ben più importante dell'euro, nella costruzione dell'Europa.

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

se queste non sono contraddizioni e servilismo cosa e' ? prima berlusconi ARAFAT come aveva ordinato l'america lo ha scaricato - ora lo riprende come mediatore.... ok va bene - siamo in politica - ma ci sono i limiti anche per la perdita' della dignita' personale.

Berlusconi: potrei incontrare Tarek Aziz

Il presidente del Consiglio: ho chiesto a Gheddafi di mediare. Attacco ai pacifisti: non capiscono la situazione

ROMA - A Saddam manda a dire, con le stesse parole di George Bush, che «i giochi sono finiti», e che per evitare la guerra non c’è che una strada: il suo esilio in un Paese straniero con immunità garantita dall’Onu. Agli americani conferma tutta la sua amicizia, e garantisce che «la nostra alleanza con gli Usa non si discute» nemmeno in caso di intervento unilaterale degli Stati Uniti contro l’Iraq, intervento che comunque non vedrebbe impegnate le nostre truppe. Ma all’opinione pubblica italiana, all’opposizione che «ha perso completamente la testa» tanto che «non c’è più nessuno di là capace di ragionare a cui ci si possa rivolgere», ai pacifisti che «purtroppo la testa poche volte l’hanno avuta, e nulla capiscono della situazione», Silvio Berlusconi dice che il suo obiettivo è uno solo: «Noi vogliamo la pace, l’abbiamo in testa, la desideriamo, e abbiamo fatto e facciamo di tutto per evitare la guerra». Per questo, rivela il premier in una lunga conferenza stampa indetta dopo l’incontro con il segretario alla Difesa americano Rumsfeld, lui si sta spendendo e si spenderà per ogni possibile mediazione, anche se il tempo stringe visto che dopo la relazione degli ispettori dell’Onu il 14 febbraio «si aprirà una procedura che entro due settimane dovrebbe portare a una decisione». Infatti, sta pensando Berlusconi che su questo si è consultato con Rumsfeld e si consulterà con gli alleati, forse sarebbe il caso di incontrare la settimana prossima Tarek Aziz, il numero due di Bagdad, che verrà ricevuto in Vaticano dal Papa (e da parecchi esponenti dell’opposizione): «Sto riflettendo se si possa avere un incontro con lui per cercare con una persona che si dice abile, talentuosa e ragionevole di discutere chiaramente la realtà».
Ma c’è di più: «Ho cercato - rivela il premier - tutte le strade per arrivare al convincimento del dittatore. Per esempio, mi sono messo in mezzo, su richiesta di Gheddafi, affinché fosse lui stesso a mediare, e a lui ho indicato con un mio scritto gli argomenti che avrebbero dovuto essere il perno della sua conversazione con Saddam». Al raìs, dice Berlusconi, è stato consegnato «un documento con le indicazioni della proposta che potrebbe essere accettata, e stiamo aspettando un suo intervento, una sua risposta».
Insomma, Berlusconi vuole essere chiaro: bisogna fare di tutto per evitare la guerra, lo si sta facendo, ma l’unico che può fermarla è lo stesso Saddam, scegliendo l’esilio perché al disarmo «non ci credo più, non lo farà mai». Ma se Saddam non scendesse a patti, allora «come ha detto Bush» non c’è «altra ipotesi di un’azione militare», che l’Italia vuole «assolutamente» che venga preceduta da una «seconda risoluzione dell’Onu» che le dia «legittimità». Un lavorìo, quello del premier, naturalmente gradito all’America: il Dipartimento di Stato Usa fa sapere che «tutte le iniziative che possono convincere l’Iraq a disarmarsi sono positive».
E però, è l’avvertimento del Cavaliere agli alleati europei riottosi e all’opposizione, bisogna essere chiari: se il Consiglio di sicurezza non votasse la seconda risoluzione che autorizza la guerra, se insomma la contrarietà di Francia, Germania, Russia e Cina fosse espressa con un veto e non, come Berlusconi ha rivelato ai suoi che si sta cercando di ottenere, con un’astensione, l’azione militare «da parte dell’America e dei suoi alleati, fra cui certamente Gran Bretagna e Australia» ci sarà comunque. Perché Bush - ha spiegato ai suoi alleati Berlusconi - ha una determinazione «quasi religiosa», che rende «molto difficili» le mediazioni. E però, se si arrivasse all’intervento unilaterale, ci sarebbero «tre danni, tre disastri»: le Nazioni Unite «perderebbero credibilità» e «di fatto sparirebbero»; si creerebbe «un tracollo nell’Alleanza atlantica, tra Europa e Stati Uniti» e «si avrebbe una divisione all’interno dell’Europa».
Per questo il Cavaliere, che oggi parlerà con Bush e che ieri ha sentito il premier greco Simitis presidente di turno dell’Ue, ritiene che oggi «sia utile» un vertice dei leader dell’Unione che aiuti l’Europa a trovare una posizione comune. Una posizione che comunque dovrà essere di appoggio agli Stati Uniti, su questo non si transige: «Non dobbiamo essere più realisti del re» e chiederci cosa farà l’Italia in caso di attacco unilaterale, è la premessa. Ma sia chiaro, «noi manteniamo la nostra alleanza con gli Usa», come manteniamo l’impegno a concedere «le basi e il sorvolo» agli americani e, solo «a guerra finita», a inviare in Iraq militari con compiti «logistici e umanitari» per missioni simili «a quella in Afghanistan». Altro genere di interventi militari in Iraq, giura Berlusconi, gli Usa non ci hanno chiesto, anche se potrebbero «chiederci in futuro di aumentare la nostra presenza nei Balcani» per permettere alle truppe a stelle e strisce di lasciare l’area.
Insomma, non vanno equivocate le parole del ministro Martino che, scherza il premier, «è nostalgico di quando il ministro della Difesa si chiamava ministro della Guerra...»: lui, come tutto il governo, è «per la pace». E comunque ogni decisione sul nostro atteggiamento e sul nostro apporto all’eventuale guerra, multilaterale o unilaterale che sia, sarà presa «dal Parlamento».

 

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DA - IL MESSAGGERO

FORZA ITALIA STA METTENDO IN CAMPO LE ULTIME risorse per poter bloccare il processo previti - ogni persona alza la sua proposta.

E sulla giustizia Fini gela i falchi di Forza Italia


Il vicepremier: «Separazione delle carriere? Non vedo differenza con una rigida distinzione delle funzioni»

ROMA — «Ho visto che Berlusconi ha stroncato subito l’invito del presidente del Senato a riprendere sulla giustizia il lavoro fatto dalla Bicamerale. Ha detto che a lui queste riforme non servono. Ne servono altre più spiccie, tipo la Cirami». Sparge sarcasmo, Massimo D’Alema, sul rifiuto del premier a riprendere il lavoro della Commissione per le riforme della scorsa legislatura. Ma la legge sul legittimo sospetto non c’entra. Il Cavaliere ha detto no perché irritato dall’uscita di Pera: ha spiegato ai suoi collaboratori di giudicare fuori luogo il riferimento alla Bicamerale visto che tutti sanno che fu proprio lui a farla naufragare e proprio sulla giustizia. Una sortita giudicata quasi alla stregua di una provocazione, insomma, e dunque da bocciare senza appello.
Ma questo non significa che il premier non sia deciso ad andare fino in fondo. Anzi. Ha concordato con Gianfranco Fini sulla necessità di mettere fine alle proposte estemporanee di quello o quel parlamentare: meglio un approccio più organico, approccio che deve avere una guida politica, non "tecnica". Anche per evitare il ripetersi di divaricazioni clamorose come è accaduto sull’indultino, con Forza Italia e Udc che hanno votato in un modo e An e Lega in un modo opposto.
Ecco perché sulla riforma della giustizia è al lavoro un quartetto formato dal ministro Castelli per la Lega, dal sottosegretario Vietti per l’Udc, dal capogruppo di An alla Camera Ignazio La Russa per la destra e da Giuseppe Gargani, responsabile giustizia azzurro per Forza Italia. Un approccio metodologico che è costato comunque non poca fatica e il cui approdo dovrebbe essere un testo complessivo di riforma, da attuare con legge ordinaria e senza toccare la Costituzione (ci vogliono i due terzi dei voti per evitare il referendum confermativo e allo stato si tratta di un obiettivo politico irraggiungibile). L’orizzonte temporale? La legislatura. «Non non abbiamo fretta», spiega Fini, pur se "pezzi" di riforma possono anche viaggiare separatamente.
E anche sul punto più controverso, quello della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, l’atteggiamento del vicepremier è assai pragmatico: «Per quanto mi sforzi non vedo questa enorme differenza tra una separazione rigida delle funzioni e una blanda separazione delle carriere». Per questa ragione è stato stoppato il progetto del senatore Luigi Bobbio (An) di concorsi separati per giudici e pm. L’ala dura di Forza Italia, infatti, non la giudica sufficiente e siccome bisogna procedere in maniera organica... Resta il fatto che molti settori del centro-sinistra sparano a palle incatenate, giudicando la separazione delle carriere una "ritorsione" della maggioranza verso i magistrati dopo la sentenza della Cassazione che la sciato il processo Imi-Sir a Milano.
Il quartetto tornerà a riunirsi martedì e di carne al fuoco ce ne è parecchia. A cominciare dagli effetti di una possibile sentenza di condanna di Umberto Bossi. Il ministro delle Riforme non vuole una proposta ad hoc dunque il progetto di Antonio Maccanico di sospendere i processi per i vertici istituzionali non trova adesioni. A questo proposito qualcuno pensa al ripristino dell’autorizzazione a procedere per l’azione penale. Una misura che non richiederebbe modifiche costituzionali: nel ’93 questo tipo di autorizzazione fu cancellata dalla Carta con la soppressione dell’immunità.

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DA - IL MESSAGGERO

BISOGNAVA STUDIARCI - ma ci siamo arrivati.

Studio dei Ds
La flessibilità
spaventa
sette lavoratori
su dieci

ROMA — La flessibilità è più un ostacolo alla propria vita che una chance in più, e fa paura ad oltre il 70% dei lavoratori. L'incertezza sul proprio futuro lavorativo si riverbera anche sul «dopo», la pensione: quasi l'80% pensa che non sarà adeguata o addirittura mostra incertezza sul futuro pensionistico, e solo il 5% di una fascia di lavoratori giovani pensa che sarà adeguata.
Sono due tra i risultanti più rilevanti di un'inchiesta sul mondo del lavoro che cambia svolta dai Ds, lanciata a settembre scorso alla festa nazionale dell'Unità: quasi 16.000 risposte, su quasi 23.000 questionari distribuiti in tutti i luoghi del lavoro, dalla grande impresa al più piccolo dei McDonald's, delle mense, delle officine meccaniche. Un questionario che, dichiaratamente di sinistra, è stato compilato ache da un sorprendente 7% di lavoratori di area centrodestra o destra.
Il lavoro piace «molto» al 29,1% degli intervistati, «abbastanza» al 49,5%, «poco» al 14,3% e «per niente» al 6,4%. Oltre allo stress, i problemi maggiori vengono (tra il 20 e il 25%) da burocrazia interna, ripetitività, gerarchia e ritmi di lavoro. Quando si passa alla sicurezza e il futuro del lavoro, la schizofrenia sopra citata si materializza: circa un quarto (24,4%) lo ritiene «sicuro», poco più della metà (50,2%) «abbastanza sicuro» e il restante quarto lo ritiene «poco o per niente sicuro» (rispettivamente, 18 e 6,4%).

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DA - L'UNITA' -

ecco le prime magnifiche manifestazioni ... attendiamo con trEpidazione quella di ROMA - per il 15 febbraio 2003.

Trentamila sotto la neve a Monaco per farsi sentire da Rumsfeld
di Paola Colombo

MONACO. Assente il cancelliere Schröder dall'annuale conferenza sulle politiche di sicurezza che si è svolta nella capitale bavarese nel forziere del prestigioso hotel Bayerischer Hof, è toccato al ministro degli esteri Joschka Fischer rispondere al segretario di Stato alla difesa Rumsfeld per ribadire la posizione tedesca sulla crisi irachena e passare al contrattacco con la domanda : «Perché c'è ora la priorità di Saddam Hussein», quando ancora esiste la minaccia del terrorismo e di Al Qaeda. Per Fischer non sussistono ancora gli estremi che giustifichino un attacco militare per disarmare Saddam, bisogna dare invece più tempo agli ispettori.
Non si tratta, ha detto Fischer, di illusione pacifista, ben chiara è la minaccia che rappresenta un dittatore come Saddam, ma Fischer ha ricordato che ben tre volte si è trovato dinnanzi alla difficile decisione di far intervenire l'esercito tedesco, in Kossovo, in Macedonia e l'anno scorso in Afghanistan. Decisioni sofferte ma che sono state supportate e giustificate da una visione, una prospettiva, nei Balcani la possibilità di intraprendere un cammino di pace e di integrazione in Europa, in Afghanistan, base del terrorismo, per ricostruire un paese democratico e pacifico. Per raggiungere questo obiettivo occorerranno anni e in Afghanistan si è solo all'inizio.
Fischer ha ancora una domanda per Rumsfeld, con la quale gli contrappone il semplicismo della soluzione militare: quanto tempo dovranno rimanere gli americani in Iraq per garantire il dopo Saddam e la nascita di un processo democratico. Di fronte all'esempio dell'Afghanistan ciò potrebbe durare anni, oppure «gli americani pensano di lasciare il lavoro a metà e di andarsene senza costruire la pace?». Un attacco militare contro l'Iraq avrebbe conseguenze inoltre incontrollabili di destabilizzazione della regione. Se per Rumsfeld, bisogna aprire gli occhi ed entrare nel XXI secolo agendo preventivamente, per Fischer occorre decifrare «la grammatica del terrorismo» per combatterlo, usare tutti i mezzi per ridurre i rischi, ma soprattutto discuterne all'interno dell'Alleanza atlantica. Se Rumsfeld ridicolizza le Nazioni Unite, per Fischer la politica e la diplomazia hanno ancor il primato perché non si può «vincere la pace senza l'Onu».
Anche la ministra francese alla difesa, Alliot-Marie, ha ribadito il primato della Nato sulle coalizioni, «queste non possono sostituirsi all'Allenaza». Quasi rispondendo agli attacchi verbali di Rumsfeld dei giorni scorsi la Alliot-Marie ha detto che la Francia, quale membro dell'alleanza atlantica si aspetta il dialogo e il rispetto reciproco e che vanno evitate le interpretazioni faziose, infondate e menzognere. Il riferimento è anche alla polemica seguita al rifiuto di Germania, Francia e Belgio di discutere un piano di difesa Nato per la Turchia, nel caso questa fosse attaccata dall'Iraq.

La coppia franco-tedesca lavora a un'iniziativa alternativa alla guerra per costringere l'Iraq al disarmo. Alla conferenza sulla sicurezza il ministro federale della Difesa Struck non ha voluto fornire dettagli a riguardo, e ha annunciato che il cancelliere Schröder presenterà giovedì prossimo l'iniziativa franco-tedesca nella dichiarazione governativa davanti al Bundestag. Per quanto concerne un piano di difesa per la Turchia, il ministro Struck ha affermato che entro lunedì si arriverà ad una soluzione.
Dalle fila dell'opposizione, la presidente della CDU Angela Merkel, ha fatto appello affinché il governo federale modifichi la sua posizione sull'Iraq, per tanti anni, gli «Usa hanno esportato sicurezza e la Germania ha beneficiato di questo sistema», ed è sbagliato che alcuni paesi si occupino del «lavoro militare», mentre altri solo di quello civile, pulito. Ma la maggiornaza dei tedeschi non sembra dell'opinione che il governo debba cambiare posizione per uscire dall'isolazionismo, almeno è quello che pensano tre tedeschi su quattro secondo un sondaggio telefonico sul canale televisivo privato Sat 1. E questo lo ha dimostrato anche la grande partecipazione dei cittadini alle manifestazioni contro la guerra che si sono tenute a Monaco. In una città con almeno 3500 agenti in tenuta antisommossa sono state 30.000 le persone che hanno partecipato alle due manifestazioni, nonostante il freddo e la neve. Nella centrale Marienplatz, la manifestazione organizzata da Attac e da organizzazioni anti Nato (Bündnis gegen die Sicherheitskonferenz) che hanno gridato il loro no alla guerra e alla conferenza dei «signori della guerra». A poche centinaia di metri c'era una seconda manifestazione organizzata dai sindacati del DGB, della SPD e della Chiesa cattolica ed evangelica contro la guerra. Non ci sono stati disordini, ma nella notte di ieri sono stati fermati una ventina di giovani dell'area dell'autonomia sono stati portati in centrale per accertamenti.

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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA

08.02.2003
"Più flessibile, molto precario. Ecco come cambia il lavoro"

MILANO A preoccupare di più è la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma a pesare sono anche l’incertezza sul fronte previdenziale e le difficoltà di ritrovare un’occupazione una volta persa l’attuale. È quanto emerge dall’inchiesta - cui oggi l’Unità dedica un inserto - promossa dai Ds sul «Lavoro che cambia» i cui risultati verranno illustrati oggi a Bologna nel corso di un convegno cui prenderanno parte, con gli altri, il segretario della Quercia, Piero Fassino, e i leader di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Pezzotta e Angeletti. Un’inchiesta, come ha sottolineato Fassino, che marca il ritorno del partito ad una tradizione iniziata negli anni settanta. Dei dati più significativi parliamo col sociologo del lavoro Aris Accornero.


Accornero, c’è una tendenza che emerge con più nettezza da questa inchiesta? Si parla molto di mobilità, di flessibilità: cosa emerge dal campione?


«Guardiamo a quanti hanno cambiato lavoro, nella loro vita professionale. Il 30% lo ha fatto una volta, il 25% da tre a cinque volte, il 10 per cento più di cinque volte. Solo il 2% non lo ha mai cambiato. È un segno evidente del lavoro che cambia. Vent’anni fa la percentuale di quanti non hanno mai cambiato sarebbe stata molto più alta».


Ci sono differenze di trattamento tra chi ha cambiato molto e chi non si è mai mosso?


«Anzitutto chi ha cambiato più spesso guadagna di meno e viceversa. Dal punto di vista sociale è ingiusto. È ingiusto che chi si muove di più, in questa era che fa della mobilità un valore, venga penalizzato».


Il 16% del campione analizzato dichiara di avere rapporti di lavoro flessibili, cioè di non avere un posto fisso. Come viene vissuta questa condizione?


«In generale si può dire che chi imbocca questa strada si ritrova poi con maggior frequenza a fare altri lavori temporanei: il doppio della media».


Quindi non si tratta semplicemente di una tappa verso il posto fisso.

«È difficile dirlo. Il 50-55% di quanti si avviano lungo questa strada ci rimangono a lungo, anche se non per tutta la vita lavorativa. Soprattutto in alcune fasce di età questa condizione è molto penalizzante, anche perché tra un lavoro e l’altro non esistono tutele, nemmeno con la legge appena approvata».


Ma preoccupa la flessibilità o è vissuta come un’opportunità?


«Sette su dieci si dicono preoccupati. Più del 50 %, però (più al nord che al sud, per la verità), in caso di perdita del posto pensa di riuscire a trovare un nuovo lavoro nell’arco qualche mese, e il 18% in poche settimane. Questo dimostra che il mercato del lavoro non va male e che la disponibilità a muoversi non manca».


Tornando al discorso generale, il lavoro piace o no?


«Rispetto al passato, conseguenza dell’organizzazione post-fordista, il lavoro soddisfa di più. Le differenze, comunque, restano. Sia in base alla professione che in base che al settore in cui si presta la propria opera. Quadri, professionisti, dirigenti, lavoratori autonomi sono più soddisfatti rispetto agli operai. Chi lavora nell’industria lo è un po’ meno. In generale, però, le soglie sono più elevate che in passato».


Un tempo il lavoro era quasi sinonimo di fatica. Lo è ancora?


«Al primo posto nella classifica del disagio, indicato dal 45% degli intervistati, oggi viene lo stress. È una percentuale altissima. Quindici-vent’anni fa al primo posto c’era la fatica. Anche la ripetitività, una lagnanza classica, oggi viene dopo un altro fattore di disagio: la burocrazia interna alle imprese. Quelle stesse imprese che esaltano la flessibilità, cioè, si impongo con la loro rigidità. Poi, al quarto posto, parente stretta della burocrazia, viene la struttura gerarchica, che le imprese continuano a mantenere. Significa che, a dispetto degli sbandierati "organigrammi piatti", i livelli del potere aziendale restano molti».


E per quel che riguarda prospettive e sicurezza?


«Il 55%, soprattutto uomini, ritiene di avere buone prospettive professionali, anche se non sono viste tanto legate alla carriera. Riguardo la sicurezza, invece, solo la metà, e soprattutto coloro che hanno qualifiche elevate, ritiene il proprio posto abbastanza sicuro. E ciò nonostante l’84% degli interpellati sia titolare di contratto a tempo indeterminato. Anche questo è un segno dei mutamenti in atto. Un quarto, poi, si ritiene poco sicuro, mentre l’altro quarto si sente insicuro. Vent’anni fa le cose erano diverse».


In base a cosa varia questo sentimento di insicurezza?


«I più insicuri, come ovvio, sono gli apprendisti e coloro che hanno le qualifiche più basse. Ma questo sentimento varia anche in relazione alla dimensione aziendale. Più l’azienda è grossa più ci si sente sicuri (e si guadagna di più), anche se diminuisce la soddisfazione».


Oltre il 56% di quanti hanno risposto al questionario è iscritto al sindacato, il 28,8% ha la tessera dei Ds. Qual è la richiesta più frequente che viene loro avanzata?


«Più unità nel sindacato, anzitutto. Lo chiede oltre la metà del campione, il 68% degli iscritti ai Ds e il 63% di quelli della Cgil, mentre scende appena sotto la media tra gli iscritti a Cisl e Uil. È un dato significativo».

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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA

08.02.2003
"Alleati di Washington non vuol dire essere vassalli"

«Essere alleati degli Usa non significa divenirne vassalli. Soprattutto quando si è di fronte a scelte così impegnative e drammatiche come assecondare o addirittura essere partecipi di una guerra». Ad affermarlo è l’uomo che ha guidato la politica estera italiana nei governi dell’Ulivo: l’ex ministro degli Esteri, e attuale vice presidente del Senato, Lamberto Dini.


Il ministro della Difesa Usa, Donald Rumsfeld, nei suoi incontri italiani ha sentenziato: «Gli sforzi della diplomazia sono falliti. I giochi sono chiusi». È così?

«Già il fatto che il segretario alla Difesa statunitense venga in Italia in questo momento è di cattivo auspicio. Perché significa che gli Stati Uniti intendono portare avanti le azioni militari. In particolare, ha molto sorpreso anche me che a distanza di ventiquattr’ore dalle dichiarazioni del segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza, il presidente Bush abbia voluto rimarcare di persona che i giochi sono chiusi o si chiuderanno inderogabilmente il 14 febbraio, quando gli ispettori torneranno alle Nazioni Unite».


Cosa significano queste prese di posizioni ultimative?


«Due cose, ugualmente preoccupanti: in primo luogo che, anche indipendentemente da quello che diranno gli ispettori, gli Usa cercheranno di forzare il passaggio di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi l’uso dei mezzi militari per il disarmo di Saddam. Ma vuol dire anche, qualora non ci fosse una maggioranza nel Consiglio di Sicurezza a favore di una tale risoluzione, che gli Stati Uniti vogliano agire unilateralmente, con un’azione preventiva al di fuori dell’ambito del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite. Ed è questo il pericolo maggiore che viviamo oggi».


In questo frangente, l’Italia ha ribadito sia con il presidente del Consiglio Berlusconi che con il ministro della Difesa Martino, la piena intesa con gli Usa. Alleati o vassalli?


«È questa una questione cruciale. Vede, al di là dell’amicizia profonda che lega l’Italia come gli altri Paesi europei agli Stati Uniti, ciò non significa che su singole questioni i Paesi europei, compresa l’Italia, debbano essere sempre d’accordo con gli Usa. Ha sorpreso il fatto che il presidente del Consiglio, durante la sua visita a Washington, abbia dichiarato che l’Italia sarà a fianco degli Stati Uniti in un conflitto militare. Questa era la dichiarazione del presidente del Consiglio, e quando Silvio Berlusconi è stato questionato da Vladimir Putin a Mosca su questa frase, il presidente del Consiglio italiano ha sostenuto che la "mia dichiarazione è stata male interpretata". Non è la prima volta che questo succede. Quello che io temo è che nel suo intervento ai due rami del Parlamento, il presidente del Consiglio abbia lasciato aperta la possibilità di schierare l’Italia con gli Stati Uniti anche nel caso di un’azione preventiva unilaterale. Non ha chiuso, come avrebbe dovuto fare, quella porta. Mentre ha detto che sarebbe fortemente auspicabile che l’Onu si assuma la responsabilità di ottenere il disarmo, ma anche che l’Onu autorizzi un uso misurato della forza, se è necessario. Ma qualora ciò non avvenisse, quale sarebbe la posizione dell’Italia di fronte ad un’azione unilaterale americana appoggiata da "quattro gatti", vale a dire da quattro Paesi di non primissimo piano? Del resto, il presidente Berlusconi l’altro ieri ha parlato esplicitamente di guerra preventiva. So che questo è un concetto difficile, che va discusso senza partito preso. Ora, nel pensiero giuridico internazionale, un’azione militare preventiva si può sostenere contro una minaccia imminente, perché in quel caso ci troveremmo di fronte ad un’autodifesa accettata internazionalmente. Il fatto è che oggi non esiste un preciso e condiviso convincimento che vi sia una minaccia imminente da parte dell’Iraq tale da giustificare la guerra».


Alla luce del precipitare degli eventi, come giudica il «Documento degli Otto» a sostegno degli Usa?


«Resto convinto che si sia trattato di una iniziativa fondata su una cattiva idea che poteva essere evitata. Essa, in realtà, è stata portata avanti da Spagna e Gran Bretagna, certamente con l'avallo dell’Amministrazione Bush, e mi dispiace che il presidente Berlusconi vi abbia aderito. Detto questo, resto dell’idea che Francia e Germania, quando si sono espresse negativamente riguardo ad un possibile conflitto, avrebbero dovuto anche cercare di unire l’Europa intorno alla loro posizione. Un’Europa divisa è un’Europa politicamente dimezzata nel suo rapporto con gli Usa».


L’Ulivo e una grande questione come la pace e la guerra. Le chiedo: c’è il rischio di una lacerazione e, a suo avviso, quale può essere il denominatore comune su cui è possibile attestarsi?


«Oggi mi pare che il centro-sinistra sia giustamente schierato contro la guerra, specie se essa fosse preventiva e unilaterale. È una posizione giusta, fondata, in quanto non vi sono elementi sufficienti da convincere che la guerra sia necessaria. Diciamolo chiaramente: l’Europa non si sente minacciata in questo momento dall’Iraq, anche se non esistono dubbi sul fatto che quello di Saddam Hussein sia un regime dispotico, tirannico e che certamente può nascondere anche armi non convenzionali, chimiche, missili... E devo dire che l’elenco fornito da Colin Powell delle innumerevoli violazioni da parte irachena della risoluzione 1441, è un elenco impressionante e molto documentato. L’Iraq potrebbe anche possedere armi nascoste che gli ispettori non hanno trovato, ma manca il motivo, vale a dire la convinzione che Saddam Hussein è alla vigilia dell’utilizzo di queste armi contro Paesi limitrofi o contro l’Occidente. E di questo non c’è evidenza. Il fattore di maggior peso citato dal segretario di Stato americano al Consiglio di Sicurezza, è il supposto legame tra il regime di Baghdad con il network terrorista di Al-Qaeda. Naturalmente, se quel rapporto fosse stato confermato o provato con evidenza, sarebbe stato possibile legare l’Iraq all’11 settembre, e quindi al rischio di altri attentati terroristici, al punto da giustificare un attacco all’Iraq nell’ambito della lotta al terrorismo. Questo è un punto cruciale. Ed è proprio su questo punto che non sono apparsi assolutamente convincenti gli elementi di fatto presentati da Powell. Hanno cercato in tutti i modi prove certe di questo legame ma non le hanno trovate. Per giustificare una guerra manca l’esistenza di una minaccia imminente dell’Iraq».


Veniamo al centro-sinistra.


«In queste circostanze, è giusto che si schieri contro la guerra. Se dovessero emergere elementi nuovi, convincenti, del pericolo imminente di Saddam Hussein contro l’Occidente; elementi di tale rilevanza da portare ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzasse anche l’intervento militare, ecco che allora il centro-sinistra si troverebbe in dovere di formulare un nuovo giudizio e ad esprimere una nuova posizione. So bene che nell’ambito della sinistra ci sono coloro che anche di fronte ad una risoluzione delle Nazioni Unite che darebbe legalità all’intervento militare, vorrebbero esprimersi contro. Tuttavia, a mio avviso dovremmo vedere il dettato della possibile risoluzione, prima di esprimere un giudizio negativo. Altrimenti, l’Italia si porterebbe al di fuori, essa stessa andando contro quelli che sono i principi sanciti dalla legalità internazionale che deriva da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza».

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