ECCOCI PER LA NUOVA DOMENICA DEL 23 FEBBRAIO 2003....

bush cerca di accellerare i tempi - ed io mi chiedo, se riesce a manovrare cosi' bene L'ONU, come hanno fatto i radicali a chiedere che sia proprio l'esercito di questo a sostituire SADDAM ?

DA - LA REPUBBLICA

Bush all'Onu: "Subito
una nuova risoluzione"
La presentazione la prossima settimana: "Sarà un documento
chiaro e semplice sul mancato disarmo di Saddam"

WASHINGTON - Il presidente americano George Bush lancia, di fatto, un ultimatum al Consiglio di sicurezza dell'Onu, sulla quesione irachena. E lo fa - nel corso di una conferenza stampa congiunta, in Texas, col premier spagnolo José Maria Aznar - annunciando che non ha alcuna intenzione di aspettare "altri due mesi" le decisioni del Palazzo di Vetro. Ecco perché, la prossima settimana, gli Stati Uniti presenteranno in Consiglio una nuova risoluzione, "espressa in termini chiari e semplici". In pratica, dice l'inquilino della Casa Bianca, l'Onu dovrà affrontare "una chiara scelta: davanti agli occhi del mondo, il Consiglio di sicurezza dovrà mostrare se intende dare un significato a ciò che ha già affermato".

Il presidente motiva così la sua accelerazione: la precedente risoluzione su Bagdad, la numero 1441, "non chiedeva - ha sottolineato - concessioni minori ma un disarmo totale e immediato" di Badgad. Da qui la necessità di una nuova risoluzione, "che affermerà che l'Iraq non sta rispettando gli obblighi della 1441".

Un ragionamento che tradisce l'impazienza dell'amministrazione americana, decisa a passare alle vie di fatto contro Saddam e forse innervosita dai continui sforzi diplomatici per scongiurare la guerra. Impazienza che Bush ammette esplicitamente: "Non sono disposto ad aspettare altri due mesi" per il via libera del Palazzo di Vetro, spiega. Concludendo, ancora una volta, che "il tempo sta per scadere".

E, a cementare l'unità di vedute con alcuni degli alleati più fedeli sulla questione irachena, il presidente Usa non solo annuncia questa nuova risoluzione alla presenza di Aznar; ma si collega anche, in teleconferenza, con Silvio Berlusconi e Tony Blair. Un modo per serrare i ranghi in vista del conflitto, ma che probabilmente non piacerà ad altri paesi europei. Francia e Germania in testa.

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il papa continua a giocare le sue carte per bloccare questa guerra, in realta' sarebbe meglio andare a baghdad per fare l'impresa, ma sembra che i servizi segreti americani lo hanno impedito .... quindi stiamo vedendo le mosse dei servizi segreti vaticani.... che sperano in blair e nel suo cattolicesimo.... ma saltano la storia di anni e anni di inciuci e passioni tra l'inghilterra e l'america.

DA - LA REPUBBLICA

Il Papa a Tony Blair
"Scongiurare la guerra"
Un ennesimo, accorato appello per la pace: "Bisogna sfruttare
le risorse del diritto internazionale per evitare una tragedia"

CITTA' DEL VATICANO - Di fronte alla crisi irachena, "si faccia ogni sforzo per evitare al mondo nuove divisioni": è quanto ha chiesto oggi il Papa al premier britannico Tony Blair, ricevuto in udienza alla Santa Sede. Un ennesimo accorato appello per la pace lanciato dal Pontefice, e rivolto a uno dei leader mondiali più convinti dell'inevitabilità del conflitto. Eppure, malgrado i tanti segnali negativi, Giovanni Paolo II non demorde: "Bisogna adoperare - ha detto oggi al suo interlocutore - le risorse offerte dal diritto internazionale per scongiurare la tragedia di una guerra".

Non si sa quanto il primo ministro inglese abbia concordato con lui. In ogni caso, il colloquio tra il Papa e Blair - ha riferito il portavoce vaticano, Joaquin Navarro Valls - si è svolto in "un clima cordiale" ed è durato mezz'ora. Nel corso dell'incontro "si è parlato della complessa congiuntura internazionale, con particolare riguardo al Medio Oriente".

Subito dopo l'udienza con il Pontefice, il premier britannico si è incontrato con il segretario di Stato vaticano, il cardinale Angelo Sodano, e con il "ministro degli Esteri" della Santa Sede, monsignor Jean Louis Tauran. I due diplomatici hanno ribadito a Blair, secondo il resoconto fatto da Navarro," la necessità che tutte le parti interessate nella nota crisi irachena possano collaborare con l'Onu e sappiano adoperare le risorse offerte dal diritto internazionale, per scongiurare la tragedia di una guerra che da più parti si reputa ancora evitabile". "Speciale considerazione - ha aggiunto il portavoce - è stata data alla situazione umanitaria del popolo iracheno, già tanto duramente provato da lunghi anni di embargo".

Si è conclusa così un'altra giornata intensa, sul fronte degli sforzi per scongiurare la guerra. Giornata cominciata con l'arrivo di Blair in Vaticano, intorno alle 10,40, in leggero anticipo rispetto all'udienza papale fissata per le 11. Nel cortile di San Damaso, un picchetto della Guardia Svizzera gli ha reso gli onori del cerimoniale. Blair era accompagnato dalla moglie Cherie, che è cattolica, e dai figli.

Il Papa ha accolto il premier nella sua biblioteca privata e i due uomini si sono seduti uno accanto all'altro, su due poltrone, per un colloquio privato durato una trentina di minuti. Al termine dell'udienza, Blair ha presentato al pontefice la sua famiglia e gli ha fatto omaggio di due doni: un vaso in porcellana con un dipinto del portone di Downing Street 10, la residenza del primo ministro britannico, e una statuetta in bronzo di Santa Margherita di Scozia. Giovanni Paolo II ha ricambiato con le tradizionali medaglie del suo pontificato.

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ci sono migliaia e migliaia di soldati americani ai confini di baghdad.... certo non stanno facendo una parata in onore di saddam.... questa richiesta sa dell'assurdo.

DA - LA REPUBBLICA

Ultimatum degli ispettori:
"Distruggete i missili"
El Baradei (Aiea): "Saddam non coopera pienamente"

NEW YORK - Gli ispettori Onu insistono. E fanno arrivare un secco ultimatum all'Iraq. Il capo della missione Unmovic, Hans Blix ha spedito una lettera al regime di Saddam Hussein in cui si sollecita la distruzione, entro sabato prossimo, dei missili Al-Samoud-2, armi che violano le risoluzioni sul disarmo perché hanno una gittata superiore ai 150 chilometri.

Ma da Bagdad la risposta è interlocutoria: "Discutiamone, ma la questione deve far parte del negoziato con l'Onu - dice il ministro degli esteri di Bagdad, Naji Sabri - Tutte le questioni pendenti possano essere risolte dalle due parti senza che potenze esterne esercitino alcuna pressione su loro".

Ma gli ispettori insistono. Hanno ormai la conferma dei loro sospetti. Per questo, nei giorni scorsi, avevano messo i sigilli ai missili Al Samoud 2 scoperti in diversi siti intorno a Bagdad. Sempre per questo Blix chiede anche la distruzione dei 380 motori di missili importati in Iraq illegalmente, in violazione all'embargo. L'opera di dismissione, scrive Blix, deve iniziare entro il primo marzo e deve essere condotta "sotto la guida e supervisione degli ispettori".

La questione è delicata. La distruzione dei missili, dice Blix, deve avvenire a partire dal primo marzo. Se ciò non avverrà, il rifiuto iracheno potrebbe essere usato per giustificare una guerra contro Saddam. Quanto alla presentazione del nuovo rapporto degli ispettori al consiglio di sicurezza, che avrebbe dovuto avvenire il primo marzo, potrebbe slittare al 7 marzo: un rinvio forse dovuto proprio alla richiesta di Blix.

L'ultimatum degli ispettori si scontra con una realtà che oggi il direttore generale dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica (Aiea), Mohamed El Baradei, ha lamentato, e cioè che Bagdad, almeno fino a oggi, "non coopera pienamente". El Baradei, che si trova in Iran per ispezionare dei siti, ha sottolineato in particolare l'esigenza di una "più piena cooperazione di Bagdad in materia di armamenti biologici e chimici". Ribadendo che comunque "la guerra non è inevitabile", il direttore dell'Aiea ha chiesto all'Iraq di "collaborare più attivamente per consentire le interviste di scienziati all'esterno e all'interno" del Paese.

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valentino e non e' la prima volta che lo scrivo... va sempre letto.

DA - IL MANIFESTO

Sciopero


VALENTINO PARLATO


La situazione (l'incubo della guerra attesa) non dà spazio alla retorica, ma proprio per questo la giornata di oggi, nel nostro paese, è di straordinaria importanza per quel che sarà e per quel che dirà. Non a caso la grande stampa e le Tv hanno messo il silenziatore. Oggi la Cgil, da sola, ha dato l'indicazione di uno sciopero di quattro ore dei sei milioni e mezzo di lavoratori dell'industria. La Fiom, anche lei da sola, ha raddoppiato: otto ore di sciopero per tutti i metalmeccanici, che sono il nucleo forte dei lavoratori dell'industria.

Questa giornata di sciopero - lo ha ripetuto Guglielmo Epifani sul nostro giornale di ieri - è contro il declino economico e per i diritti dei cittadini lavoratori. I due obiettivi si tengono, come ai tempi del piano del lavoro di Di Vittorio e degli scioperi alla rovescia, dei quali si è persa la memoria: le crisi, o più eufemisticamente i declini, sono, storicamente, un passaggio critico che può vedere la crescita o la demolizione dei diritti.

Siamo a un confronto drammatico, forte, che si pone in una fase di grande trasformazione dell'industria e del lavoro. Una trasformazione che, come in vario modo altre volte nel passato, ha indotto il colto e l'inclita a decretare la fine del lavoro: per la stampa e le Tv di ieri, salvo poche e meritevoli eccezioni, questo sciopero non è esistito, le previsioni del tempo hanno avuto più spazio. Questo è il dato della cultura dominante: il lavoro non c'è più e può essere anche inquinante. Lo sciopero di oggi della sola Cgil e della sola Fiom è anche un importante momento di una battaglia culturale, di illuminazione del reale, non dico contro il pensiero unico, ma piuttosto contro il pensiero accondiscendente ai poteri forti, a chi comanda e non più dirige: l'accanita e pervicace ricerca della guerra è sintomo di questa crisi di egemonia. Il «declino» è anche il sintomo evidente dell'incapacità di promettere premi e promozioni ai subalterni.

Questo di oggi - e per questo è importante e anche rischioso - è - si può dire - uno sciopero di civiltà contro la demolizione dei diritti dei cittadini lavoratori che le varie deleghe al governo Berlusconi stanno attuando. E' anche uno sciopero contro la guerra, in profonda continuità con le grandi manifestazioni del 15 febbraio: la guerra oggi sarebbe causa di accentuato declino economico (non sono più tempi di keynesismo bellico) e di limitazione dei diritti.

La giornata di oggi è difficile: scioperare quando il declino mette a rischio il posto di lavoro e consente alla Confindustria (basta vedere il proclama presuntuosissimo di Antonio D'Amato sul
Sole 24 Ore di ieri) di rivendicare la massima flessibilità delle schiene dei lavoratori, è un atto di coraggio civile, che va molto oltre la corporativa difesa dei propri interessi. Ma questa giornata può essere, è, un inizio: è la scesa in campo dei lavoratori dell'industria, quelli che fanno, producono le cose senza delle quali non avremmo di che vivere. Questo secolo, nonostante i lampi di guerra, forse sta cominciando bene.

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interessante comprendere il partito dei DS in questo momento... se fossi in loro farei silenzio assoluto, visto che sulla rai FINI si e' messo di traverso al BOSSI....ragazzi miei voi dovete diventare politici.

DA - IL MANIFESTO - L'INTERVISTA

OLIVIERO DILIBERTO


«Dovrebbero solo ringraziarci»


«Abbiamo messo l'Ulivo in sintonia con il paese. Sulla guerra non accetto vincoli»
COSIMO ROSSI


«Il vincolo di coalizione sulla guerra lo abbiamo già violato». Il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, resta sì persuaso che rompere il centrosinistra serva solo ad avvantaggiare Berlusconi, ma sul no alla guerra è determinato a tenere duro. A costo di mettersi contro il resto dell'Ulivo com'è avvenuto ieri: con gli insulti piovuti da Napolitano e Rutelli e con il voto contro la missione degli alpini in Afghanistan.

Napolitano, Rutelli, Fassino. E' bastato che un votare la mozione del Prc per far dimenticare la faticosa unità dell'Ulivo e scatenare un nuovo scontro. Pare che nel centrosinistra si applichi già il codice di guerra....

Avverto reazioni scomposte. In realtà dovrebbero ringraziarci, perché noi consentiamo all'Ulivo - facendone saldamente parte - di interloquire con pezzi di società larghi che altrimenti sulla pace cercherebbero rappresentanza politica fuori dall'Ulivo. Credo che una coalizione di forze politiche diverse non si possa fondare sulla disciplina, ma solo sulla capacità di una leadership di fare sintesi politica tra posizioni diverse. In fondo è quello che siamo riusciti a fare con la mozione unitaria. E mi sembra sciocco disperdere dopo 24 ore questo risultato.

Ma tant'è...

Attenzione, perché il voto di sull'Iraq ha visto l'Ulivo unito su una posizione francamente avanzata, considerando la composizione della coalizione. C'era un no netto alla guerra preventiva e un no inequivoco alla concessione di basi e supporto logistico agli Stati uniti. Perciò io lo considero un successo. Dopodiché abbiamo anche votato il testo di Rifondazione, che era coincidente con il testo che avevo presentato io. Mi pare un fatto di elementare coerenza per dire no alla guerra.

E di nuovo sugli alpini ieri...

Il voto sugli alpini era la naturale prosecuzione della nostra contrarietà alla missione in Afghanistan, che infatti si è rivelata una missione di guerra.

Ma non si può nascondere che, con queste premesse, in caso di intervento armato l'Ulivo si sfascerà.

Dipende da come sarà l'intervento. Io ne voglio parlare senza ipocrisie: se l'intervento sarà unilaterale degli Stati uniti, l'Ulivo sarà sicuramente unito; se invece ci sarà l'avvallo dell'Onu, ci saranno con molta probabilità delle divaricazioni. Questo rientra nelle cose, nella differente storia, nelle differenti culture politiche, nel diverso approccio alle questioni internazionali di coloro che fanno parte del centrosinitra.

Ma non è un fatto passeggero dividersi sulla pace e sulla guerra...

La politica estera ha avuto storicamente un'influenza sulla politica interna. Vorrei ricordare che il primo strappo nella dinamica che portò poi allo scioglimento del Pci avvenne proprio sulla prima guerra del Golfo, con il voto contrario di un numero consistente di senatori del Pci rispetto a un atteggiamento non ostile alla guerra. Ed è evidente che le divisioni interne ai Ds in questa fase pesano su tutti gli equilibri della coalizione.

D'accordo, ma com'è possibile governare insieme i comuni e dividersi nientemeno che sui bombardamenti?

Questa è la grande contraddizione: perché in realtà noi amministriamo insieme metà Italia, spesso anche con Rifondazione. E ci candidiamo a tornare al governo. Possibilmente non rifacendo gli errori fatti quando eravamo al governo.

Di quegli errori, quale lascia il senso di colpa più gravoso?

Due, uno di politica interna e uno di politica estera. Il primo è non aver approvato la legge sul conflitto di interessi: una cosa enorme e per la quale c'era anche la maggioranza, mentre sulle questioni del lavoro la maggioranza obiettivamente vacillava. E sul piano della politica estera l'aver avallato la guerra nel Kosovo, che era una guerra della Nato.

Il Pdci, però, rimase nell'esecutivo...

Ma abbiamo anche lavorato affinché l'Italia avesse un comportamento diverso da quello degli altri paesi Nato. Siamo stati gli unici a non chiudere l'ambasciata, a mantenere un rapporto con il governo jugoslavo. Ed è stato il governo che ha operato sul piano diplomatico in modo più concreto per far finire i bombardamenti. Detto questo, continuo a vivere quella guerra come un momento molto lacerante per tutti noi.

Adesso che si profila un'altra guerra, la pace e il pacifismo assumono un nuovo valore identitario, costituente per milioni di persone. Possibile che l'Ulivo non sia in grado di recepirlo, non foss'altro che per opportunismo politico?

Me lo chiedo anch'io. Ma non è questione di opportunismo. Il tema della pace sta diventando fondativo di una nuova fase politica. E lo sarà sempre di più, perché la guerra diventerà purtroppo la caratteristica permanente di un nuovo scenario internazionale. Perché dopo l'Iraq è già stato preannunciato che ci saranno la Siria, la Libia, la Corea del nord, l'Iran. Perciò, in un mondo completamente impazzito, la pace diventerà discrimine concreto. E occorrerà fare una battaglia politica senza posa anche dentro il centrosinitra per far scoppiare le contraddizioni su questo punto. Non per rompere l'Ulivo, ma per spostarlo su posizioni giuste. Il mondo cattolico moderato, del resto, è già su queste posizioni: Rutelli dovrebbe capirlo in fretta.

E se non lo capisce? Voi vi sentireste ancora legati da un vincolo di coalizione con lui?

Il vincolo di coalizione su questo punto lo abbiamo giù violato. Non mi sento vincolato perché ci sono questioni che attengono al rispetto della Costituzione italiana e che vengono prima della coalizione. Per quanto mi riguarda è chi vota a favore della guerra che viola quei valori, che sono anche quelli costituenti del centrosinistra.

Quindi, addio centrosinistra?

Continuo a pensare che se si rompe il centrosinistra Berlusconi governa per cinquant'anni.

Anche se si rompe con il sentimento dell'elettorato, però...

Bisogna cambiare questo centrosinistra proprio per far prevalere politicamente una logica che sia in sintonia con il popolo italiano. Ma non dispero che su questo punto, alla fine, si possa prevalere dentro il centrosinistra.

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la russia era da tempo che stava organizzando accordi per il petrolio con SADDAM - che pensate.... dopo tutto quello che ha fatto viene ritenuto un socialista da bin laden... e forse anche da putin... capito perche' la russia non vuole la guerra ?

DA IL MANIFESTO

MISSIONE PETROLIFERA RUSSA


Il ministro russo dell'energia Igor Yusufov sta preparando una discreta missione a Baghdad nei prossimi giorni per chiedere al governo iracheno di dare all'ente petrolifero russo Lukoil un contratto per sviluppare il sito di West Qurna, uno dei maggiori giacimenti della regione. Lo riferisce l'agenzia Reuter (che definisce «segreta» la prossima visita). Il ministro russo spera di concludere anche altri contratti più piccoli, dopo quelli conclusi in gennaio: è la strategia dell'ultimo minuto. In caso di guerra e cambio di regime a Baghdad, la Russia invocherà la legge internazionale per difendere le sue concessioni.

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QUESTO ci fa comprendere che il governo non ne azzecca ( come dice di pietro ) una.

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Violenze al Delle Alpi, sospesa Torino-Milan

I tafferugli al Delle Alpi (Liverani) La Juve, ancora in piena emergenza influenza, supera senza problemi le difficoltà di formazione e batte 3-1 il Como sul neutro di Piacenza nel primo degli anticipi della 22esima giornata. Ma il fatto del giorno è, purtroppo, extrasportivo: quando il Milan stava vincendo facilmente 3-0 a Torino, è esplosa la rabbia dei tifosi granata. Cariche della polizia, lacrimogeni e partita sospesa, proprio il giorno dopo il varo del decreto anti-violenza

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ci sono delle banalita' enormi come una casa.... ma comunque va letto questo articolo sui difetti americani e la guerra .... solo si poteva evitare di chiamarli amici.... o nemici.... in questo particolare momento in cui si tenta la strada della LA PACE.

DA IL CORRIERE DELLA SERA

Lettera di un europeo a un amico americano

di BEPPE SEVERGNINI

Caro Amico Americano, è da parecchio che non ci sentiamo e sono successe tante cose. Prevedibili, forse: ma né voi né noi le avevamo previste. Molti, qui in Europa, pensano che siate irragionevoli e aggressivi; tanti, lì in America, credono che siamo irritanti e codardi. Tu e io abbiamo viaggiato abbastanza da sapere che le cose non stanno così. Ma è bene parlarne. Perché, se Saddam riesce a dividerci, vince anche se perde.

Mica vorremo permetterglielo? Prima di chiederti un esame di coscienza - accadrà, preparati - lascia che lo faccia io. Come molti italiani, francesi, tedeschi, inglesi e spagnoli mi imbarazza constatare che l’Europa, al passaggio decisivo, si presenta divisa; mi addolora vedere le bandiere comuniste, che hanno sventolato su alcuni dei più grandi massacri della storia, insieme a quelle della pace; mi irrita vedere che il losco Tarek Aziz viene accolto come uno statista e un uomo di pace, quand'è solo l'aiuto-macellaio. Ma pensare queste cose non vuol dire sposare questa guerra. Ed è quello che voi, in America, sembrate non capire.

Il motivo l’ho visto adombrato in un pezzo del «New York Times», firmato da Paul Krugman: non siete abbastanza informati. Certo, i quotidiani americani fanno il loro mestiere (anche se il Wall Street Journal sembra troppo emotivo: un po’ italiano, direi). Ma quanta gente legge i quotidiani, negli Stati Uniti? Quel che conta è la televisione. E la tv americana ha deciso di preparare il pubblico alla guerra, non di discuterla. In Europa tutti ci chiediamo: perché proprio Saddam, tra tanti manigoldi? In America ve lo chiedete in pochi. Forse perché la maggioranza ritiene che gli attentatori dell’11 settembre fossero iracheni (quand’erano sauditi).

Non lo dico io: lo dicono i sondaggi, e lo riporta il «New York Times». Per citare ancora Krugman: « We have different views partly because we have different news», abbiamo idee diverse anche perché abbiamo informazioni diverse. In inglese, lo ammetto, suona meglio. In queste condizioni, caro Amico Americano, è difficile ragionare. Eppure dobbiamo farlo. Siamo i vostri amici, i vostri alleati e i vostri antenati: non i vostri sudditi. Abbiamo il dovere, non solo il diritto, di criticarvi. Ci credi se ti dico che in questi giorni ho capito come doveva sentirsi un indiano al tempo dell'Impero britannico?

Ti assicuro: non è una sensazione piacevole. Bada bene: sono tra quelli convinti che l’emersione di una «superpotenza democratica», dopo la Guerra Fredda, sia una buona notizia. Meglio di una superpotenza non democratica (l’Unione Sovietica, se avesse vinto); o di una democrazia superimpotente (l’Europa, per adesso). Il mondo non è il giardino incantato che descrivono i puffi del pacifismo. E’ un cortile affollato dove occorre un guardiano che mantenga un po’ di disciplina: anche con le maniere forti, se necessario. Ma il guardiano dev’essere cauto, saggio e morale. E deve sembrarlo.

Altrimenti sono guai. M’arrabbio quando sento che qualcuno, in Europa, paragona Bush a Hitler. Ma sono convinto che il vostro presidente stia mettendo in gioco la reputazione dell’America: e non credo se ne renda conto. Mi ha detto giorni fa uno che lo conosce bene: «George W. Bush è diverso da suo padre, uomo del New England. E’ un texano, abituato a dividere bene e male, amante delle decisioni nette. Dell’Europa sa poco». Bene: gliela spieghiamo volentieri. Spiegheremo a George W. Bush che prudenza non equivale a vigliaccheria, e dubbio non vuol dire tradimento. Qualche volta dubbio e prudenza sono segni di saggezza (viviamo a un passo dal mondo arabo, certi soggetti li conosciamo bene).

Gli spiegheremo che un po’ d’autocritica rende più convincenti: ammetta che Saddam (l’arabo laico!) l’abbiamo sostenuto anche noi occidentali; spieghi - proprio perché amico dei petrolieri - che il petrolio c’entra poco con quello che sta accadendo (molti, in Europa, gli crederebbero, e capirebbero che il movente è quello dichiarato: l’amministrazione teme un 11 settembre chimico, batteriologico o nucleare). Spiegheremo a George W. Bush che non basta far colpo sui nostri governanti portandoli a Camp David. Deve conquistare i nostri cuori, come fece John F. Kennedy a Berlino. La stima e la fiducia, infatti, non si ordinano. Si meritano. Lo capiscono i padri, le madri, gli amici, gli amanti, i colleghi. Perché non deve capirlo l’uomo più consigliato, informato e potente della Terra?

Beppe Severgnini

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la lotta nella rai si e' aperta .... per via che il secondo canale sta per essere trasportato a milano... fini si infuria - e intanto MICHELE SANTORO continua a vincere le sue battaglie.

DA IL MESSAGGERO

Santoro vince ancora in tribunale:
ora il Cda deve farlo tornare in video

ROMA - Un’altra debacle, stavolta in tribunale, per i vertici Ra. La Sezione Lavoro del tribunale di Roma ha respinto il reclamo presentato dalla Rai contro il provvedimento con il quale il giudice Massimo Pagliarini aveva disposto la reintegrazione di Michele Santoro. Il collegio ha motivato il rigetto ritenendo che il giornalista sia stato illegittimamente privato delle sue mansioni e che la Rai è tenuta ad impiegarlo - spiegano gli avvocati di Santoro - nella realizzazione e nella conduzione di programmi televisivi di approfondimento dell'informazione di attualità. «La Rai - aggiungono - ha sinora ritardato, con vari pretesti, l'esecuzione dell'ordine del giudice. La decisione di oggi prelude alla Rai ogni appiglio per ulteriori dilazioni».
Come anticipato dal "Messaggero", il direttore di Raitre Paolo Ruffini ha proposto a Santoro di realizzare una ventina di reportage in seconda serata a partire dall’11 maggio. Resta "scoperto" l’impiego in prima serata (per cui Raitre non ha fondi) che il conduttore aveva settimanalmente su Raidue.
«Adesso non ci sono più alibi per nessuno, dobbiamo tornare a fare il nostro lavoro». commenta Santoro. E sottolinea: «È evidente che l'Azienda ha assunto nei confronti miei e del nostro gruppo di lavoro un atteggiamento illegale». Quanto alla decisione del Cda di spostare a Milano la direzione di Raidue, Santoro ci vede un parallelo con la vicenda che lo ha coinvolto: in entrambi i casi, spiega, emerge una «decisione politica e non industriale».

Al.Gu.

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ancora sulla rai....

DA - IL MESSAGGERO - L'INTERVISTA

Follini: «Faremo dimettere gli agit prop»


«Reintegro? Sulla Smart non c’è posto. Nel nuovo consiglio basta etichette politiche»

ROMA - Consiglio di amministrazione Rai ormai in dirittura d’arrivo. Marco Follini, segretario dell’Udc, incalza: «Per usare la metafora che va di moda direi che la Smart deve essere riconsegnata al più presto al carrozziere. «Una gestione della Rai arrogante è riuscita a mettersi contro tutti. Non può e non deve durare».


Voi fin dall’inizio avete chiesto l’azzeramento. Oggi ottenete soddisfazione...


«Non citerò il maestro Manzi e la sua celeberrima "non è mai troppo tardi"...».


Segretario, voglio dire che ora voi, politicamente, siete più forti in vista di un nuovo Cda Rai.


«Mi sembra che il vantaggio maggiore lo ricavi il buonsenso. Questa situazione non era immaginabile pensare che durasse. Tenerla in piedi con gli spilloni secondo me va a detrimento delle sorti dell’azienda e anche del buon nome del centro-destra, che una parte della sua reputazione se la gioca anche sul destino di viale Mazzini. Stiamo parlando, non dimentichiamolo, della principale azienda culturale del Paese. Un’azienda di tale complessità che puntare sugli agit-prop e per di più agit-prop pasticcioni è la cosa più sbagliata che una dirigenza politica avveduta possa fare».


Insomma si ritorna allo schema che varò il primo Cda: Udc e An da un lato; Bossi e Berlusconi dall’altro. Come si esce ora dallo scontro?


«Io le dimissioni le auspicavo molto tempo fa, non ho cambiato idea. Più vado avanti più vedo che questa idea guadagna proseliti».


Al punto da arrivare al voto di sfiducia in Vigilanza, con voi e An che votate assieme all’Ulivo e FI e Lega contro?


«Spero proprio che arrivino prima le dimissioni».


Già, ma come? Forza Italia insiste per il reintegro...


«Il reintegro sulla Smart? Mi pare che i posti siano due, è acrobatico salirci in cinque ed è difficile che ci salgano persone di peso. E comunque se devo dire preferisco la Smart del mio amico Baccini a quella di Baldassarre».


Quali devono essere i criteri di nomina del nuovo Cda?


«Spero che soffi in tutti il vento dello spirito liberale. Cioè che si scelgano persone il cui tasso di ubbidienza politica sia limitato e la cui libertà di pensiero sia la più ampia».


Suvvia Follini, non c’è un tanto di ipocrisia? Lo sanno tutti che la Rai è di chi vince le elezioni...


«Anche per essere stato in passato consigliere di amministrazione Rai sono l’ultimo che può fare sfoggio di ipocrisia. So bene che esiste un cordone ombelicale che ancora oggi lega l’azienda alla politica, a tutta la politica. Credo che prima o poi quel cordone debba essere spezzato e ho le mie idee su come arrivarci. Ora l’appuntamento che abbiamo ora è quello di un nuovo Cda: più sentimento proprietario perderà la politica e più guadagnerà sul versante della credibilità».


Deve essere riproposto lo schema tre consiglieri per la maggioranza e due per l’opposizione?


«Ripeto, più ci si allontana dal gioco delle etichette politiche e meglio è. Il Consiglio della Rai non può essere un parlamentino. Naturalmente occorre la consapevolezza che è una azienda che parla al tutto il paese, il suo governo ha da essere pluralistico. E in questo sarebbe ora che anche il centro-sinistra si battesse il petto. L’escalation delle politiche di occupazione ha avuto sotto la fulgida presidenza di Zaccaria uno sviluppo esponenziale. Il centro-sinistra non ha alcun diritto di salire in cattedra e dare lezioni. Noi, insisto, abbiamo il dovere di non imitarli».

C.Fu.

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Da Saxa Rubra a via Teulada, fino ai centri televisivi fioccano le critiche degli addetti ai lavori, oltre che del sindacato


«Il trasferimento? Un favore alla Lega»


I dipendenti Rai: «Si rischia di danneggiare Roma. A Milano c’è già Mediaset»

di LUCA BRUGNARA

ROMA - Critiche e voglia di conoscere l´operazione nei minimi dettagli. Il trasferimento della direzione di Raidue a Milano riscuote una valanga di no tra i dipendenti dell´azienda della Capitale. «E´ una scelta immotivata - commenta Stefano Conti, impiegato, davanti alla sede di via Teulada - che non credo possa portare benefici all´azienda. Non dimentichiamo, poi, che da tempo esiste già un canale decentrato, come Raitre, che trasmette telegiornali e programmi realizzati nelle sedi Rai di Torino, Napoli e Milano, oltre ad ospitare molteplici produzioni regionali». Sono in pochi a voler commentare questa decisione e chi sceglie di esprimere un parere, talvolta, chiede l´anonimato. «Anche tralasciando le considerazioni sull´opportunità di questa scelta - spiega F.R., a Saxa Rubra - credo che una decisione così importante non possa essere presa da un consiglio di amministrazione con soli due elementi». E la prossima settimana sono in programma le prime forme di protesta. «E´ una decisione priva di qualunque motivazione editoriale - sottolinea Roberto Natale, segretario dell´Usigrai. - Non si tratta di pigrizia dei dipendenti della Rai: il trasferimento è nato per fare un favore alla Lega in vista delle prossime elezioni provinciali, senza valutare il rapporto tra costi e benefici. Mercoledì prossimo, tutte le organizzazioni sindacali presenti in Rai si riuniranno in assemblea a viale Mazzini, per testimoniare come siano contrarie, in modo compatto, a tale decisione».
Le critiche sottolineano, inoltre, le possibili ripercussioni economiche negative, nella Capitale, per il trasferimento. «In questo modo - sostiene Marco Marras, impiegato - si rischia di danneggiare una città come Roma, con un´economia basata su servizi e comunicazione.
Milano, poi, ospita già le strutture di Mediaset, il principale concorrente privato della Rai. Speriamo che ci siano ancora margini per un ripensamento». Accanto ai problemi economici, poi, si affiancano quelli logistici. «E´ ovvio che davanti alla prospettiva di trasferimento - sottolinea Maddalena Maggioli, moglie di un operatore televisivo dell´azienda - i dipendenti più anziani, ma anche chi ha i figli piccoli, si troveranno in grande difficoltà. Non credo sia giusto allontanare da Roma, sede del potere politico, la direzione della seconda rete nazionale: è una decisione che rischia di trasformarsi in un boomerang per la stessa Raidue».
Ma tra molti pareri contrari, emergono anche valutazioni meno pessimistiche. «Questa decisione non è poi apocalittica - commenta A.L.
- Aspettiamo di conoscere i dettagli e valuteremo». Tra i giornalisti, si sottolineano anche i possibili vantaggi per l´azienda, «Mi rendo conto che questa decisione potrebbe provocare disagi organizzativi per chi deve trasferirsi - spiega Amedeo Goria, uno dei volti più popolari di Raisport, all´uscita degli uffici di viale Mazzini - ma non è una decisione sbagliata. E´ positivo, infatti rafforzare altre sedi, senza, per questo, depotenziare Roma. Credo che un decentramento parziale, che consenta di avere unità produttive forti in città come Milano sia importante per l´azienda». E non manca chi, impegnata su fronti ancora più importanti, era all´oscuro della notizia. «Sono appena tornata da Bagdad - commenta Giovanna Botteri, inviata del Tg3 nella capitale irachena - davvero non so nulla di questa decisione».

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questa non si puo' che definire una pacifica dimostrazione contro le ifrastrutture concesse dal nostro governo attuale alla politica guerrafondaia americana.

DA - L'UNITA'

Disobbedienti all'assalto dei treni della guerra
di Virginia Lori

Hanno preso in casa le bandiere usate il 15 febbraio, quelle con l’arcobaleno della pace, contro la guerra. Sono entrati nelle stazioni, hanno cercato di bloccare i treni armati, quelli che trasportano jeep, carri armati e cannoni nella base americana di Camp Darby. A Pisa sono scesi in piazza, quando hanno capito che la stazione era off limits ed hanno protestato contro il passaggio delle armi. Erano centinaia.

Cariche a Verona e Fornovo, in provincia di Parma, dove i manifestanti sono stati sollevati di peso dai binari da carabinieri e polizia, tra loro anche il sindaco di S.Secondo Parmense, Roberto Bernardini (Pdci), e il consigliere regionale Renato Delchiappo(Prc).

Non si arresta la disobbedienza, malgrado le forze dell’ordine schierate a difesa dei convogli, a presidiare le stazioni.

Anche i sindaci di Pisa e Livorno e i presidenti delle amministrazioni provinciali delle due città, hanno chiesto alle autorità americane di Camp Darby di far loro conoscere «che tipo di materiali» vengono trasportati dai convogli ferroviari diretti in queste ore alla base Usa (che sorge fra Pisa e Livorno) e se ci siano «materiali tali da rappresentare un rischio per il nostro territorio e la nostra popolazione». «Vorremmo inoltre sapere - affermano i sindaci Paolo Fontanelli e Gianfranco Lamberti - se questi materiali sono destinati ad essere inviati nel Golfo Persico e ad essere utilizzati in azioni di guerra. Se così fosse, noi esprimiamo, in coerenza con i nostri Consigli comunali, una forte posizione di contrarietà».

Dopo il presidio di Monselice, i «disobbedienti» del Nord-est si sono organizzati, il coordinamento ha viaggiato via internet, dal Nord al Sud. Sul sito «www. globalradio.it» la diretta non si è mai arrestata: minuto per minuto in connessione con Radio Sherwood sono stati messi in rete collegamenti, filmati audio e video e, soprattutto, l’invito a non cedere, a bloccare la corsa dei treni. Proprio dal sito di Globalradio Luca Casarini ha fatto sapere che polizia o non polizia loro i treni «carichi di merce per ammazzare la gente» li bloccheranno.

VENETO Due treni merci carichi di mezzi e materiale militare Usa provenienti dalla caserma Ederle di Vicenza, ieri mattina sono stati bloccati alla stazione di Grisignano di Zocco. Tra gli occupanti dei binari c’erano anche alcuni sindacalisti della Filt Cgil. Il secondo treno è riuscito a lasciarsi alle spalle la stazione solo dopo mezzogiorno, scortato da militari della base Setaf di Vicenza. Alcuni manifestanti hanno cercato di incatenarsi ai binari ma è arrivata la Questura e li ha identificati. Alla stazione di San Martino di Buonalbergo, a Verona, il treno faticosamente ripartito da Grisignano, è stato nuovamente bloccato. Secondo i manifestanti qui la polizia ha caricato, per fortuna senza conseguenze gravi.

LOMBARDIA A Brescia il treno, atteso da una ventina di manifestanti, non è arrivato. Lo hanno dirottato verso Mantova, ma il primo e il secondo binario ieri pomeriggio sono stati comunque bloccati «per esprimere il nostro biasimo - ha detto Maurizio Muro, del centro sociale Magazzino 47 - nei confronti di Trenitalia che dà uomini, mezzi, binari e stazioni all’Amercia». A Mantova c’era anche la parlamentare verde Anna Donati, quando poco dopo le 16.52 è passato il convoglio. A quel punto, esponenti di Rifondazione comunista, si sono limitati a scandire slogan e a esibire un carro armato di carta pesta.

PISASabato a Pisa è stata una giornata di mobilitazione: esponenti del movimento antagonista, di Rifondazione e dei Cobas hanno manifestato all’alba alla stazione di San Rossore ritardando il transito del treno e nel pomeriggio alla stazione centrale, ma anche a Livorno, da dove ha preso le mosse la protesta che si è consumata alla stazione di Tombolo, dove il treno entra nella base americana. Dopo il blitz di San Rossore di primo mattino, l’attenzione si era spostata sul treno del pomeriggio. Difficile capire dove fosse stato deviato: lungo l’asse pontremolese, con passaggio previsto a San Rossore, oppure sulla Firenze-Pisa, con passaggio alla stazione centrale? Il mistero è stato svelato dallo schieramento di forze dell’ordine. A metà pomeriggio, polizia e carabinieri in assetto antisommossa hanno bloccato l’accesso ai binari. L’ingresso alla stazione era consentito solo ai viaggiatori muniti di biglietto (ma le biglietterie sono all’interno della stazione…). Chi non l’aveva, veniva pregato di acquistarlo nelle agenzie di viaggio. Qualche eccezione è stata fatta per le signore «insospettabili» di far parte del gruppo di manifestanti, più di trecento, che nel frattempo si era radunato nella piazza davanti alla stazione.

Nessun tentativo di forzare il blocco, nessun contatto fra forze dell’ordine e pacifisti: solo qualche slogan contro polizia e carabinieri e un paio di petardi lanciati nell’atrio della stazione. Di lì a poco, però, il corteo è partito attraversando le vie del centro pisano. Nel giro di poche decine di minuti, il blocco agli ingressi della stazione è stato tolto, segno evidente che il convoglio su cui i manifestanti appuntavano la loro attenzione era passato. Lo hanno accolto a Tombolo, la stazione collegata con raccordo ferroviario a Camp Darby, con bandiere al vento (bandiere della pace, ma anche di Pdci, Rifondazione comunista e Cgil), e tanti fischi. Neppure loro sono riusciti ad avvicinarsi ai binari, presidiati anch’essi da polizia e carabinieri. In mezzo ai manifestanti, anche la deputata Maura Cossutta e il senatore Gianfranco Pagliarulo, entrambi del Pdci. «Se passano questi treni - hanno detto - significa che l’Italia è sostanzialmente già in guerra. E il governo non sente neanche il dovere di riferire al Parlamento. Ma la maggioranza della popolazione italiana questa guerra non la vuole». I treni, intanto, continuano ad arrivare.

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finalmente ci si occupa anche del popolo irakeno :

DA - L'UNITA'

L'acqua non è una merce. E tantomeno può esserla per gli irakeni


di Francesco Sangermano

FIRENZE. Acqua come bene comune e non come merce. Acqua come diritto umano imprescittibile da garantire a tutti gli esseri umani. Acqua come servizio cui destinare da parte della collettività la copertura finanziaria dei costi necessari per garantirne a tutti l’effettivo accesso. E acqua come simbolo di democrazia, attraverso una gestione della proprietà e dei servizi in maniera sostenibile. Quattro punti. Chiari e semplici. Sono queste le fodamenta su cui si baserà il forum mondiale alternativo sull’acqua, previsto a Firenze il prossimo 21 e 22 marzo, in concomitanza con l’appuntamento di Kioto cui parteciperà l’oligarchia mondiale dell’acqua e riaffermerà il primato del mercato e del capitale.

«Anche a Kyoto si affermeranno quattro principi - spiega Riccardo Petrella, presidente del comitato italiano per il contratto mondiale sull’acqua - ma opposti rispetto ai nostri. Si dirà che l’acqua è rara, che è un bene prezioso e che quindi deve soottostare alle ragioni del mercato; si ridurrà il tutto a un problema sociale per cui, non essendo assicurabile a tutti, l’acqua confluirà laddove circola più denaro; si spingerà per una gestione lineare del servizio affidandola al privato che ha più soldi rispetto al pubblico; infine, per combattere il divario tra domanda e offerta, si proverà a regolare quest’ultima proprio attraverso una manovra dei prezzi».

All’appuntamento, cui prenderanno parte associazioni, movimenti e gruppi provenienti da tutto il mondo, è previsto l’arrivo di mille delegati provenienti da 50 paesi tra cui personaggi di spicco come Mario Soares, Vandana Shiva, Wolfgang Sachs, Alex Zanotelli, Ignazio Ramonet, Danielle Mitterand e proprio Petrella. L’obiettivo è quello di promuovere una serie di azioni sul piano legislativo, politico economico e culturale e di realizzare una carta attraverso cui ribadire il "no" alla privatizzazione e il "sì" all’acqua come diritto per tutti. A maggior ragione visto il comportamento del governo italiano. «Siamo l’unico paese al mondo che ha definito per legge la privatizzazione delle risorse idriche, attraverso l’articolo 35 della Finanziaria 2002. Guardiamo a realtà come la Svezia, la Danimarca o la Germania. E perfino gli Stati Uniti, che il nostro governo pare ammirare così tanto, ha il 92% delle risorse idriche gestite pubblicmente».

Una scadenza importante, insomma, per fare il punto su un fenomeno dai contorni drammatici. Basti qualche numero: ogni giorno nel mondo 30mila persone muoiono per la mancanza di acqua potabile, per motivi sanitari ed alimentari, 800 milioni non hanno neanche il rubinetto in casa. E, inoltre, se un nordamericano arriva a consumare 1.700 metri cubi di acqua all’anno, in Africa la media è di appena 250 metri cubi. La penuria di acqua impedisce poi a 2,4 miliardi di persone di beneficiare di alcun servizio sanitario e 200 milioni di bambini muoiono ogni anno a causa di malattie dovute al consumo di acqua «insalubre». In media, globalmente, ogni abitante del pianeta oggi consuma il doppio di acqua rispetto all’inizio del ‘900, ma in Africa, negli ultimi 50 anni, la disponibilità è diminuita di tre quarti e meno del 60% della popolazione dispone di acqua potabile e di servizi igienici. Oggi 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile ma, è stato stimato, saranno 3,4 miliardi tra il 2025 e il 2035.

Intanto, però, un segno tangibile è già stato lasciato: acqua potabile come segno di pace per oltre 20mila cittadini dell’Iraq che ancora pagano, con la sete, il prezzo dei bombardamenti subiti durante la Guerra del Golfo. Una delegazione del Comitato italiano per un Contratto mondiale dell'acqua, partirà nei prossimi giorni alla volta di Bassora per costruire un impianto di potabilizzazione di acqua di fiume

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DA - L'UNITA' L'INTERVISTA

La guerra è illegale con o senza il sì dellOnu

In ballo c’è molto e Denis Halliday proprio non se la sente di usare toni pacati. Irlandese di origine, ma profondo conoscitore della realtà irachena, l’ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite Halliday ama parlare chiaro. Con le parole e con i fatti. Come quando non esitò a dimettersi dal ruolo di coordinatore umanitario delle Nazioni Unite a Baghdad, dopo 34 anni di carriera, per protestare contro la politica delle sanzioni economiche. Come ha fatto ieri a Firenze giunto su invito del gruppo provinciale dei Verdi.


Signor Halliday, qual è la situazione attuale in Iraq?


«Drammatica. Perché l’impatto delle sanzioni all’Iraq continua a essere genocida. Nel rapporto Unicef di sei mesi è scritto che ogni mese migliaia di bambini vengono uccisi. Uso la parola uccidere deliberatamente perché il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sa perfettamente di stare uccidendo i bambini iracheni. E tutti noi siamo responsabili».


Qual è la situazione rispetto al 1991?

«Il popolo iracheno oggi è molto più debole di quanto non fosse allora. Ogni famiglia è stata danneggiata a causa delle sanzioni, per un genitore deceduto prima del tempo, per un bambino morto subito dopo la nascita. Non solo. Tra la popolazione adulta l’anemia è al 70% e in alcune parti del paese prevalgono condizioni di carestia».


E dopo 12 anni di sanzioni arriva la minaccia della guerra.


«Che è totalmente illegale. Perché l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite proibisce la minaccia della guerra e dunque l’attacco preventivo americano è semplicemente incompatibile con il diritto internazionale. E in Europa non possiamo permettere che venga messo da parte perché gli Stati Uniti non hanno soltanto nel mirino l’Iraq e il Medio Oriente, ma il dominio dell'economia europea. E poi lo dico chiaramente, il popolo iracheno non avrà la capacità di resistere alla nuova fase di crimini di guerra che stanno per essere commessi dagli Stati Uniti».


Perché parla di crimini di guerra?


«Lo faccio intenzionalmente perché di questo si tratta quando si colpisce e si distruggono la rete di energia elettrica e i sistemi di trattamento delle acque. Il ministro della Sanità iracheno è molto preoccupato per l'approvigionamento idrico dopo gli eventuali bombardamenti americani. Quando saranno di nuovo usati missili e bombe all’uranio impoverito, o peggio ancora armi nucleari tattiche. E ancora una volta assisteremo alla distruzione del sistema sanitario e dei diritti essenziali del popolo iracheno».


Cosa si aspettano i politici iracheni?


«I politici in Iraq non vedono speranze, nessun sostegno da parte dei capi di stato arabi e poco coraggio in Europa. Credono che l'unica speranza stia nell’opinione pubblica, la stessa del 15 febbraio, anche se quelle manifestazioni non sono un segno di appoggio a Saddam, piuttosto al popolo iracheno».


Cosa può fare l’Europa?


«Isolare l’America nella sua politica. Sarebbe un bel passo avanti perché la maggioranza del popolo americano non appoggia un intervento unilaterale contro l’Iraq».


Non pensa che l'Iraq possa rappresentare un pericolo?


«Sappiamo che non esiste nessuna minaccia seria da parte dell'Iraq verso Londra, Washington e Roma. Quest’ipotesi è pura propaganda».


Di che si tratta allora?


«Questa guerra di Bush, di Blair e di Berlusconi riguarda esclusivamente il petrolio, il potere militare in Medio Oriente e il dominio del mondo, compresa l’Europa, attraverso il controllo del petrolio. E che questa guerra sia fatta in modo unilaterale o abbia il mandato delle Nazioni Unite sarà comunque illegale. Perché nessuna risoluzione delle Nazioni Unite che venga approvata con la coercizione è legale e questo è il modo in cui lavorano gli Stati Uniti all’interno delle Nazioni Unite».


Esiste una soluzione alternativa?


«Credo di sì. Intanto bisogna affrontare il problema delle armi di distruzione di massa che noi stessi produciamo e vendiamo. E poi dobbiamo attuare il paragrafo 14 della risoluzione 686 che chiede la rimozione dalle armi di distruzione di massa da tutto il Medio Oriente».


In pratica, cosa significa?


«Che devono essere rimosse le armi nucleari, chimiche e batteriologiche in possesso di Israele. E che devono proseguire le ispezioni in Iraq, nel Medio Oriente e negli Stati Uniti. E anche in Gran Bretagna».


E Saddam Hussein?


«Credo che una volta che il popolo iracheno avrà recuperato i propri diritti sarà esso stesso a occuparsi di Saddam Hussein. Come è successo in Romania, nelle Filippine e in Indonesia dove il popolo ha rovesciato i regimi esistenti. Ma questo non è possibile sotto un regime di sanzioni economiche dove la preoccupazione attuale è la sopravvivenza dei propri figli».

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un bellissimo articolo di tabucchi :

La vecchia Europa e il futurista Bush
di Antonio Tabucchi

La prima volta che l’Europa viene chiamata con disprezzo «Vecchia» (quel disprezzo volgare che certi ragazzotti maleducati manifestano con le persone anziane) è nell’aprile del 1909. Succede a Milano ma viene fatto in francese, in parte per ragioni di diffusione, in parte perché l’autore dell’invettiva è un italiano nato ad Alessandria d’Egitto e cresciuto a Parigi, perciò tendenzialmente francofono: Filippo Tommaso Marinetti. Il luogo dell’invettiva è la rivista letteraria
Poesia, organo del gruppo che Marinetti sta raccogliendo intorno a sé, i Futuristi, e precede il Secondo Manifesto di quel movimento intitolato Uccidiamo il chiardiluna!
Questo secondo proclama, specifica Marinetti, nasce dall’esigenza di rispondere per le rime agli insulti con i quali il «Futurismo trionfante» è stato ricevuto dalla «Vecchia Europa». Per «Futurismo trionfante» Marinetti intende quel Manifesto del Futurismo da lui stesso pubblicato pochi mesi prima sul quotidiano parigino
Le Figaro dove, con un solenne plurale di maestà, egli dichiarava: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbricitante, il passo ginnico, il salto pericoloso, gli schiaffi e i pugni». E qui Marinetti, in opposizione alla «Vecchia Europa» e alla sua cultura stantia, esprimeva il proprio concetto di modernità: «Noi dichiariamo che lo splendore del mondo si è arricchito di una nuova bellezza: la bellezza della velocità. Un’automobile ruggente che sembra correre sulle ali della mitraglia è più bella della Vittoria di Samotracia. (...)Noi vogliamo demolire le biblioteche, combattere il moralismo, il femminismo e tutti i vigliacchi. (...)Noi vogliamo glorificare la guerra, unica igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo». Di lì a non molto, a mettere in pratica questi principî ci avrebbe pensato Mussolini (fra le cui braccia Marinetti si rifugiò) aggredendo la Libia e l’Abissinia, e poi il medesimo in coppia con Hitler, aggredendo la «Vecchia Europa» e scatenando la seconda guerra mondiale.
La «Vecchia Europa» segnata da una «pensosa immobilità» contro cui il futuro Cavalier Marinetti (un altro dei Cavalieri di cui può fregiarsi l’Italia) si scagliava, era l'Europa di scrittori e intellettuali che si chiamavano André Gide (che nel 1908 aveva fondato la
Nouvelle Revue Française), Julien Benda, il futuro premio Nobel Romain Rolland (che allo scoppio della prima guerra mondiale avrebbe fatto scalpore con il pamphlet pacifista Al di sopra della mischia, e poi con la Dichiarazione di indipendenza dello spirito cui aderirono fra gli altri Einstein, Bertrand Russel e Benedetto Croce), Henri Barbusse, Heinrich Mann (che per la sua opposizione ai nazisti finì prima in Francia e poi negli Stati Uniti), Robert Musil (che con I turbamenti del giovane Törless nel 1906 aveva dimostrato di non prediligere l’educazione militare come Marinetti), Edward H. Foster (la cui Camera con vista del 1908 doveva risultare al gesticolante Marinetti di un’insopportabile raffinatezza «passatista»), Gaetano Salvemini (la cui Rivoluzione Francese del 1905 esaltava dei valori quali Liberté-égalité-fraternité, davvero troppo «vecchi» per Marinetti). Questa «Vecchia Europa» contro la quale Marinetti si scagliava era in sostanza quell’Europa di scrittori, pensatori, filosofi e intellettuali che nel 1935, arricchita da una generazione più giovane (Brecht, Babel’, Pasternak, Malraux eccetera) si sarebbe riunita a Parigi in un incontro che segnò un evento di grande portata simbolica, il Congresso Internazionale degli Scrittori per la difesa della Cultura (su questo argomento si legga il bellissimo saggio di Sandra Teroni edito due anni fa da Carocci, Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935. Ed era contro questa cultura, contro questo «vecchiume» che già tuonava il «moderno» Marinetti strillando in quel suo proclama: «La guerra, nostra sola speranza, nostra ragion di vita e nostra unica volontà! Sì, la guerra! Contro di voi che morite troppo lentamente!». A meno di un secolo di distanza, le parole di Marinetti sembrano ritornare sulle labbra dell’attuale presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Colpa della Storia? Forse. Ma, come diceva Josif Brodskij sui corsi e ricorsi della Storia, anche la Storia, al pari degli uomini, non ha poi tante scelte. E tante scelte non pare averle neanche George W. Bush, incalzato dalle compagnie petrolifere e dalle poderose fabbriche di armi che l’hanno sostenuto in campagna elettorale e che in questi ultimi anni hanno fabbricato tonnellate e tonnellate di ordigni. I magazzini vanno svuotati, altrimenti il ciclo di produzione si inceppa. Le bombe, al pari dello yogurt, hanno una data di scadenza, e la società dei consumi esige che vengano consumate, e come consumatori gli americani hanno scelto il popolo iracheno. Per ora, perché forse consumeremo tutti lo stesso prodotto, dato che anche il dittatore comunista della Corea del Nord ha dei prodotti che desidera far consumare, e perfino il Pakistan, filoamericano a forza, ma in realtà percorso da ventate di fondamentalismo islamico che il generale di turno insediato da Washington cerca di tenere a freno, ha le sue bombe atomiche da spacciare. L’Uranio, si sa, è un elemento impaziente.
Dal suo punto di vista, e statistiche alla mano, il presidente degli Stati Uniti non ha tutti i torti: noi moriamo troppo lentamente, come diceva Marinetti. Grazie alla qualità della vita, viviamo troppo a lungo, e l’Europa diventa sempre più vecchia. I bambini iracheni, poi, nel morire rivelano una lentezza esasperante. Vedendo i rari documentari che mostrano le corsie degli ospedali pediatrici di Bagdad, quei corpicini macilenti impossibili da curare per la mancanza di farmaci causata dal blocco americano, si capisce che impiegano a morire più dello stretto tempo necessario. Forse, in fondo, quella di Bush è un’idea a suo modo filantropica: abbreviare le sofferenze. E anche i bambini palestinesi ammazzati dai carri armati israeliani nei territori occupati da Ariel Sharon (al quale il Belgio ha appena riaperto il processo per genocidio) non muoiono poi in numero così sufficiente come potrebbero. E nemmeno i bambini israeliani che saltano in aria nei supermercati o negli autobus per i kamikaze palestinesi sono poi così numerosi come potrebbero, forse perché i genitori terrorizzati li tengono troppo in casa: un bel missile sul tetto scagliato da un Saddam Hussein aggredito dagli americani alzerebbe le statistiche. L’indice tanatos-mibtel della Borsa di Mortalità Infantile è decisamente in ribasso.
Ma, oltre che sulla necessità di una bella igiene del mondo, Bush mostra con Marinetti affinità anche sulla sua concezione della modernità, o meglio di ciò che è «nuovo» e di ciò che è «vecchio». Fino a poche amministrazioni fa l’America, che all’Europa deve il fatto di esistere come l’America che è, ha sempre sentito un senso di filialità verso il continente che l'ha generata. Sapeva di essere un Paese ricco e potente, ma anche giovane, molto giovane: un giovanottone robusto e vitaminizzato, con delle spalle possenti quanto l'Empire State Building e larghe come il ponte di Brooklin.
Ma sapeva che sotto le fondamenta dell’Empire non c’erano le pietre del Partenone né sotto i piloni del ponte di Brooklin le pietre del Colosseo o le fondamenta di Lutezia. C’erano le praterie dove prima scorrazzavano le mandrie selvagge dei bufali e le libere tribù dei nativi sterminati in un genocidio che poi Hollywood ci ha fatto vedere con
Piccolo grande uomo oBalla coi lupi. Questa giovinezza, peraltro con le ammirevoli doti proprie della giovane età (l’energia, la buona volontà, la natura, l’innocenza - quelle virtù celebrate nel più bel poema della letteratura americana, leFoglie d’erba di Whitman) era intesa da buona parte della società medio-colta americana, e dalla migliore classe politica, nel suo lato positivo sì, ma anche con tutti i limiti che la gioventù comporta, il rovescio della medaglia dell’energia e dell'innocenza: l’ingenuità, la mancanza di esperienza, la fragilità culturale (nel senso più profondo di «elaborazione di cultura») di un Paese che per organizzarsi in forma sociale ha avuto bisogno dei modelli della vecchia Europa.
E nei momenti in cui, come negli anni del Maccartismo, l’America ha avuto la minaccia di idee simili a quelle non della «Vecchia Europa», ma della giovane Europa o della giovane Italia (perché il fascismo lo inventa l’Italia nel ‘22: è più giovane di Marinetti), i suoi valori sono stati difesi da persone come Einstein, per esempio, che in America trovò rifugio e senza la quale forse non avrebbe fatto tutte le sue geniali scoperte, ma anche senza il quale l'America non sarebbe la potenza scientifica che è.
L’arrivo dell'amministrazione Bush è coinciso con la pienezza di quella che viene chiamata «rivoluzione tecnologica», anche se essa era già in atto. E anche se, già al tempo della guerra fredda, le due potenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, misuravano la propria superiorità sulla rispettiva superiorità tecnologica, dopo il crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono rimasti assoluti padroni del campo. E da allora in poi la tecnologia ha subito un'evoluzione incredibile in ogni sua applicazione, dalla medicina alla biologia, dalle comunicazioni agli armamenti. Un presidente come Bush, texano che in vita sua ha visto solo vacche e pozzi petroliferi, che non ha mai viaggiato, che ignora totalmente il mondo, che non parla nessuna lingua oltre al suo inglese dal lessico limitato, con un grado di cultura basso e con un quoziente di intelligenza che non pare entusiasmante (le sue risposte alle interviste in diretta in questo sono eloquenti) ha probabilmente equivocato fra «tecnologia» e «civiltà». Per lui la «tecnologia» è l’equivalente di civiltà e di cultura. Il resto (dal diritto romano all’habeas corpus, da Aristotele a Kant a Hegel a Bertrand Russel al diritto internazionale alla Carta dei Diritti Umani all’Onu) non esiste. Anzi, è «roba vecchia». Con un concetto molto vago dell’intelligenza, ripone la sua fiducia nelle bombe «intelligenti» per risolvere sbrigativamente (crede) il problema del terrorismo internazionale e di certi ingombranti personaggi che i servizi segreti del suo Paese hanno costruito con le loro mani. Del resto basta vedere come ha ridotto le garanzie di una democrazia che sembrava solida e che nelle sue mani si è dimostrata di una fragilità allarmante: i tribunali militari, le procedure d’urgenza, i diritti dei prigionieri, la libertà di esprimere il proprio pensiero o di manifestarlo pacificamente con la propria presenza fisica. È la sua idea della «modernità» rispetto alla «Vecchia Europa». E che trova un corrispettivo nell’ideologia senza ideologia dell’Italia del governo Berlusconi, col suo «nuovo che avanza», la modernità intesa come «modernizzazione», la trimurti «culturale» che Berlusconi predica, il vitello d’oro delle tre i: inglese, informatica, impresa.
Una modernità tecnologico-economica che i due «friends» hanno scambiato per «civiltà occidentale», e che dunque possono permettersi di anteporre ad altre civiltà. Una «modernità» sconsiderata, priva di radici, di fondamenta e di saggezza, privata di istituzioni di garanzia, direttamente subordinata alla propaganda televisiva. Una «modernità» altamente pericolosa, percorsa dalla tentazione totalitaria. Una «modernità» che non ha capito i rischi che tale «modernità» reca con sé, quelli contro i quali già alzava la voce Allen Ginsberg nella poesia
America: «America quando finiremo la guerra umana?/ Va’ a farti fottere tu e la tua bomba atomica/… / America perché le tue biblioteche sono piene di lacrime?/… / America dopo tutto siamo tu e io a essere perfetti non il mondo vicino/… / Il tuo macchinario è troppo per me/… / Lascerai che la tua vita emotiva sia guidata dalla rivista Time?/… / America tu in realtà non vuoi fare la guerra./ America sono quei Russi cattivi./ Quei Russi e quei Cinesi. E quei Russi./ La Russia vuole mangiarci vivi. La Russia è pazza di potere. Vuole portarci via le automobili dai garages./ Vuole impadronirsi di Chicago. Ha bisogno di un Reader's Digest Rosso/ Vuole le nostre fabbriche di automobili in Siberia. Che la sua grossa burocrazia diriga le nostre stazioni di rifornimento./…/ America è questa l'impressione che ricevo guardando la televisione./ America è giusto?» (la poesia di Ginsberg è citata nella traduzione di Fernanda Pivano, Mondadori 1965).
È questa l’America che la «Vecchia Europa» ama: la voce di tutti coloro che hanno messo in guardia l’America dalla sua grandezza, e che per questo l’hanno fatta grande altrimenti. È l’America della Long Island che accoglieva gli emigranti provenienti da un’Europa che non riusciva più a sfamarli, e che li accoglieva mettendo in pratica gli ideali di uguaglianza che la «Vecchia Europa» aveva inventato ma che non sapeva mettere in pratica; l’America degli uomini che vennero in Spagna a combattere il franchismo; l’America che scese in guerra contro il nazi-fascismo spuntandola sull’altra poderosa America, quella reazionaria che guardava con simpatia a Hitler e Mussolini.
Il missilistico presidente texano non ha capito che, comunque sia, la «Vecchia Europa» ama l’America di Hemingway, di Salinger, di Joseph Heller, di Noam Chomsky, di Susan Sontag, di Woody Allen, di Oliver Stone, di Sidney Pollack, di Robert Redford, di Sean Penn, del
New York Times, del Watergate, del Premio Pulitzer, di Bob Dylan, di Joan Baez, di Louis Armstrong, di Chet Baker, di Pollock, di Hopper, di Richard Avedon - ma la lista sarebbe infinita: quell’America che George W. Bush detesta, che appartiene all’Europa e al mondo e nella quale ci sentiamo tutti americani.
Questa è l’America della civiltà. La «nuova civiltà» a cui pensano George W. Bush, la petroliera Condoleezza Rice, il disco rotto Colin Powel, il mitragliere Rumsfeld, gli oscuri personaggi che lavorano nei sotterranei della Cia, questo «nuovo» non è altro che un vecchio arnese degno di «revenants», di zombie ritornati in circolazione. Hanno qualcosa di riciclato, per noi europei sono terribilmente stantii, vecchi decrepiti. Le poesie che gli si addicono sono
Zung Tumb Tumb, la descrizione fonosimbolica della guerra del Cavalier Marinetti oppure gli scoppi del Bombardamento di Tripoliche tanto eccitavano i suoi versi.
Ma perché Mister Bush non segue il consiglio di Allen Ginsberg, lui e la sua bomba atomica?

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alla prossima settimana - un bacio - luana.