BUSH CONTINUA A DIRE UN GIORNO UNA COSA E IL GIORNO DOPO L'ALTRA - INTANTO CON LE SUE TRUPPE LASCIA L'INTERROGATIVO DELLA GUERRA - IN QUESTO MODO IL PETROLIO SI ALZA DI PREZZO E LA SUA MULTINAZIONALE PETROLIFICA VENDE BENE.

DA - LA REPUBBLICA

Domani pomeriggio il vertice alle Azzorre con Blair e Aznar
Per il presidente Usa "alle parole devono seguire i fatti"
Bush: "Saddam non disarmerà
E' il momento di agire"
I capi degli ispettori dell'Onu invitati a Bagdad

WASHINGTON - Alla vigilia del vertice delle Azzorre, il presidente Bush ripete che molto difficilmente si riuscirà a uscire dalla crisi irachena senza fare ricorso alle armi. Mentre fonti dell'amministrazione Usa continuano ad assicurare che quello di domani con il premier britannico Tony Blair e il primo ministro spagnolo Josè Maria Aznar non è un summit di guerra ma un estremo tentativo diplomatico, il presidente americano avverte che "giorni cruciali attendono le nazioni libere del mondo". Un monito a quei paesi, a cominciare da Francia, Germania e Russia, che si oppongono alla risoluzione che aprirebbe la strada all'attacco all'Iraq. Se Bush non crede alla possibilità di successo della diplomazia, continuano a crederci Parigi, Mosca e Berlino, che sollecitano una nuova riunione del Consiglio di sicurezza per stabilire il calendario del disarmo iracheno.

Sull'altro fronte, Saddam Hussein rilancia e invita i capi degli ispettori dell'Onu, Hans Blix e Mohamed El Baradei, ad andare "al più presto" a Bagdad per discutere "le questioni ancora in sospeso" e ha fornito una lista di altri 183 scienziati che hanno lavorato ai programmi di armamento: mosse che sembrano mirate a guadagnare tempo proprio nel momento in cui Washington vorrebbe accelerare verso l'uso delle armi. E su queste iniziative di Saddam lunedì Blix ed El Baradei consulteranno il Consiglio di sicurezza.

Nel suo settimanale discorso radiofonico, Bush dice chiaramente che "c'è poco da sperare che Saddam Hussein disarmi". E usa parole forti: "I governi stanno dimostrando adesso se gli impegni dichiarati per la libertà e la sicurezza sono mere parole, o se sono convinzioni sotto la cui spinta sono pronti a agire". "Dovremo misurarci con un pericolo crescente per proteggere noi stessi, per rimuovere uno sponsor e un protettore del terrore e mantenere la pace nel mondo", dice Bush. Il popolo americano, prosegue il capo della Casa Bianca, deve sapere che se "ci sarà bisogno della forza per disarmare" Saddam, gli Stati Uniti hanno a loro disposizione "ogni mezzo e ogni risorsa per ottenere la vittoria".

A sostegno della sua tesi, Bush ricorda che il 15 marzo di 15 anni fa il regime di Saddam attaccò con aggressivi chimici la popolazione curda di Halabja. Quel fatto, osserva il presidente Usa, mostrò al mondo di che cosa sia capace il leader iracheno e che "tipo di minaccia che egli rappresenti adesso per il mondo intero". "E' fra i dittatori più crudeli della storia, e si sta armando con le armi più terribili al mondo", continua Bush concludendo con una citazione del Nobel per la letteratura Elie Wiesel, scampato ai lager nazisti: "Abbiamo l'obbligo morale di intervenire dove domina il male". E quel luogo, specifica, oggi "è l'Iraq".

Il tono delle parole di Bush è lo stesso usato anche oggi dal ministro degli Esteri britannico Jack Straw, secondo il quale la guerra appare ora "molto più probabile" e potrebbe scoppiare nel giro di qualche giorno.

Da settimane Bush, Blair e Aznar cercano di costruire una maggioranza di nove voti in Consiglio di sicurezza intorno alla risoluzione che spianerebbe la strada all'azione bellica contro Saddam. Ma finora soltanto un altro membro dell'esecutivo dell'Onu, la Bulgaria, ha apertamente appoggiato questa posizione, mentre Francia e Russia hanno minacciato di porre il veto.

I tre leader sono tutti in qualche modo soggetti a critiche sul fronte interno e a forti pressioni internazionali: anche oggi in numerose città in tutto il mondo si sono svolte manifestazioni contro la guerra. E domani alle Azzorre Bush, Blair e Aznar cercheranno una via d'uscita, ma gli sviluppi della vigilia non lasciano molte speranze. Non a caso a Washington si continua a ripetere che la seconda risoluzione sarebbe auspicabile ma non è necessaria per far scattare l'attacco. In giornata Bush ha anche telefonato a Berlusconi, che non parteciperà al vertice di domani in quanto l'Italia non fa parte del Consiglio di sicurezza, per informarlo sugli ultimi sviluppi.

Ma il fronte contrario all'uso delle armi rimane compatto. Il governo di Parigi ribadisce che "nulla giustifica il ricorso alla forza" e insieme a quelli di Mosca e Berlino chiede che il Consiglio di sicurezza si riunisca a livello di ministri degli Esteri subito dopo la presentazione del rapporto degli ispettori, prevista per martedì, per definire le prossime tappe del lavoro degli esperti Onu in Iraq.

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IL RITORNO DEI SAVOIARDI IN UNA NAPOLI TUTTA DI SINISTRA - CAPARBIA - CAPACE - INTELLIGENTE COME NON MAI NEGLI ULTIMI ANNI - HA SPINTO LA CONTESTAZIONE DI MOLTI RAGAZZI CHE GIUSTAMENTE RICORDANO AL MONDO INTERO CHE L'ITALIA E' E VUOLE RIMANERE UNA REPUBBLICA.

DA - LA REPUBBLICA

Tafferugli davanti al Duomo tra supporter e contestatori
Per motivi di sicurezza la famiglia rinuncia alla messa
I Savoia giunti a Napoli
"Grazie a tutti gli italiani"
Una piccola folla di curiosi all'aeroporto
Monarchici contro Enrico Lucci delle "Iene"

NAPOLI - Dopo 57 anni di esilio, i Savoia sono tornati in Italia tra accoglienze festose e vivaci proteste, che li hanno costretti a cambiare diverse volte il programma della visita. Il Falcon 900 proveniente da Ginevra con a bordo Vittorio Emanuele di Savoia, la moglie Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto è atterrato alle 14.45 all'aeroporto di Capodichino. "Sono molto emozionato" ha detto Vittorio Emanuele appena sceso dall'aereo, accolto da applausi e da grida di gioia e di benvenuto.

Il rientro dei Savoia ha però portato con sé momenti di tensione, soprattutto davanti al Duomo, dove si sono radunati militanti della Fiamma Tricolore, neoborbonici e disoccupati. Per motivi di sicurezza, in seguito all'assedio dei manifestanti ai due ingressi della cattedrale, i Savoia hanno rinunciato a recarsi nella Cappella di San Gennaro dove avrebbero dovuto partecipare alla messa. Poco prima in piazza ci sono stati incidenti: con l'arrivo di un gruppo di monarchici c'è stato lo scontro tra le diverse fazioni, sono volati schiaffi, calci e pugni. Quando sono giunti gli invitati al seguito della famiglia reale, alcuni manifestanti hanno cercato di impedirne l'accesso in chiesa, e solo l'intervento della polizia ha riportato la situazione alla normalità.

Dopo aver lasciato l'aeroporto, i Savoia hanno fatto una prima tappa fuori programma al Circolo Canottieri Napoli, dove hanno incontrato il presidente della Regione Antonio Bassolino e il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. Quindi hanno anticipato la visita all'Istituto dei Tumori di Napoli Fondazione Pascale e, quando la situazione davanti al Duomo si è normalizzata e i manifestanti si sono allontanati, si sono recati al palazzo Arcivescovile di Napoli, per essere ricevuti dal cardinale Michele Giordano.

La prima dichiarazione Vittorio Emanuele l'ha fatta a Capodichino, appena sceso dall'aereo. "Sbarcando nella città partenopea" ha affermato il principe, "assolvo un obbligo morale verso questa città da me e dalla mia famiglia particolarmente amata. Il calore dei napoletani, così come del resto quello degli italiani tutti, è stato in questi lunghi 56 anni un valido aiuto per sopportare l'esilio. Una sensazione terribile, il non potere entrare in patria, che solo chi ha patito può comprendere". "Ma non voglio rovinare questo momento di gioia straordinaria" ha concluso Vittorio Emanuele, "ricordando il dolore sofferto a causa dell'esilio prolungato da un gravissimo incidente. Grazie a tutti gli italiani per aver reso possibile, tramite il Parlamento, il rientro in patria".

Anche a Capodichino ci sono stati incidenti e tafferugli. Poco dopo l'arrivo dell'aereo, l'inviato delle
Iene Enrico Lucci e altri giornalisti sono stati affrontati da sostenitori monarchici quando hanno tentato di avvicinarsi a Vittorio Emanuele che aveva appena concluso la sua dichiarazione. Si è verificato un battibecco tra Lucci e la scorta della famiglia reale. L'inviato del programma di Italia 1 è stato spintonato e poi, al termine del parapiglia, è stato accompagnato con un'auto della polizia al parcheggio, mentre i Savoia sono stati fatti salire a bordo dell'auto da un'uscita secondaria dello scalo.

Intanto cresce l'attesa davanti al grande albergo Vesuvio, mentre il resto della città non sembra si sia accorta dell'evento. La gente sta vivendo per lo più tra l'indifferenza il rientro dall'esilio dei Savoia. Un gruppo di curiosi, composto soprattutto da donne, sta invece aspettando l'arrivo degli ex reali davanti all'albergo. Le ragazze e le signore che affollano il marciapiede antistante l'ingresso dell'albergo dicono di essere "curiose di vedere i Savoia" e, in particolare, Emanuele Filiberto, considerato "un degno rappresentante della bellezza maschile".

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IDUE ARTICOLI CHE SEGUONO - SERVONO A RIFLETTERE SUL MONDO E COSA STIAMO FACENDO PER QUESTO.

NULLA !

SOPRATTUTTO DOPO LE DECISIONI AMERICANE DI PUNTARE TUTTO SULLA GUERRA PER ACCAPARRARSI IL PETROLIO - E QUESTO SIGNIFICA INQUINAMENTO NON RICERCA PER L'ENERGIA ALTERNATIVA.

DA - LA REPUBBLICA

L'acqua resta un sogno
per un uomo su quattro
Nei prossimi vent'anni diminuirà di un terzo pro capite
Tutti noi dovremmo imparare a risparmiare

ROMA - Un essere umano su quattro non può utilizzare acqua pulita per mangiare, per bere, per lavarsi. E questa privazione costa cara: 2,2 milioni di vite ogni anno. Da oggi al 2020 andrà decisamente peggio: le persone senza accesso all'acqua diventeranno 4 miliardi, più di metà della popolazione mondiale.

Di fronte alla chiarezza disarmante di questi numeri, all'Earth Summit di Johannesburg dello scorso settembre l'Unione europea e molti paesi in via di sviluppo si sono battuti per ottenere l'impegno al dimezzamento degli assetati entro il 2015. Le resistenze del cartello guidato dagli Stati Uniti hanno però trasformato l'impegno in un'indicazione molto generica. Senza un vincolo preciso, senza finanziamenti (gli obblighi economici assunti dai paesi ricchi nel 1992 al Vertice della Terra di Rio de Janeiro non sono mai stati rispettati) il 2003, anno internazionale dell'acqua, rischia così di produrre risultati molto scarsi.
E infatti il rapporto reso noto dalle Nazioni Unite alla vigilia del Terzo Forum sull'acqua che si apre domani a Kyoto è segnato dal pessimismo: nei prossimi vent'anni la disponibilità pro capite di acqua diminuirà di un terzo. Dovremmo imparare a risparmiare, o meglio a non sprecare visto che quasi il 60 per cento dell'acqua diretto ai campi si perde. Ma di un uso accorto delle risorse idriche per ora non si vedono tracce: due milioni di tonnellate di rifiuti vengono gettate ogni giorno nei fiumi e nei laghi riducendo ulteriormente la quantità di acqua pulita disponibile.

A livello globale l'11 per cento della popolazione, quello che controlla l'84 per cento della ricchezza prodotta, consuma l'88 per cento dell'acqua. E, dato che non basta ad irrigare la quantità di terra necessaria a sostenere la crescita dei consumi, in molti paesi si forza il ciclo del ricambio naturale con un prelievo superiore alla capacità di rigenerazione delle sorgenti: 80 paesi con il 40 per cento della popolazione mondiale vivono in uno stato di penuria idrica.

Il paradosso è che chi più ha meno paga. A Delhi l'acqua costa un centesimo a metro cubo alle famiglie che possono permettersi un rubinetto, le altre sono costrette a pagare quasi cinque euro ai proprietari delle cisterne per acquistare lo stesso metro cubo d'acqua.

In Italia gli acquedotti perdono un buon quarto dell'acqua trasportata anche perché la razionalizzazione del sistema è rimasta un sogno ed esistono ancora più acquedotti che Comuni. L'efficienza energetica, vanto del nostro sistema industriale, non ha riscontri in campo idrico: l'indice di consumo di acqua per unità di prodotto è pessimo (complessivamente consumiamo 980 metri cubi l'anno a persona contro i 719 della Germania e i 647 della Francia).

Tra i pochi segnali in contro tendenza ci sono la legge del 1989 sulla difesa del suolo, che colma un ritardo storico istituendo le autorità di bacino, e la legge Galli del '94, che considera tutte le acque superficiali e sotterranee una risorsa da salvaguardare e da utilizzare con criteri solidali. Ma la legge delega voluta dal governo Berlusconi, attualmente in discussione alle Camere, sposta l'attenzione dalla manutenzione e dalla capacità di gestione del sistema acqua alla creazione di nuove grandi infrastrutture.

"La situazione è critica anche in Spagna dove il governo sostiene un megaprogetto per dirottare da un capo all'altro del paese le acque dell'Ebro", aggiunge Andrea Agapito, responsabile della campagna acqua del Wwf. "Sono previste 117 dighe che danneggeranno 82 siti d'importanza comunitaria e avranno un impatto negativo su 126 aree di nidificazione".
(a.cian.)

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DA - LA REPUBBLICA - L'INTERVISTA

"La guerra dell'oro blu
cambierà gli equilibri del mondo"
dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO

VERONA - "Gli scenari disegnati dai climatologi ci rimandano l'immagine di un mondo con i fiumi rinsecchiti dalla carenza di piogge, le falde snervate dai prelievi eccessivi, i laghi contaminati dai rifiuti. Ed è un'angoscia pensare all'aumento delle malattie legate alla mancanza di acqua pulita. Ma c'è una prospettiva più minacciosa e più vicina: la fame. Meno acqua vuol dire meno cibo. E quest'equazione, che ancora non è diventata senso comune, cambierà la mappa geopolitica del mondo". Lester Brown, il padre del Wordlwatch Institute diventato presidente dell'Earth Policy Institute, è arrivato a Verona per la fiera agricola che quest'anno si è svolta sotto il segno dell'anno internazionale dell'acqua.

Da sempre attento alla continua rincorsa tra aumento della popolazione e disponibilità di alimenti, Lester Brown è convinto che nel giro di un anno assisteremo a una svolta radicale in campo alimentare.

Cosa cambierà?


"Si invertiranno i rapporti di forza tra chi compra e chi vende cereali. Mentre oggi chi compra può scegliere, tra un anno verrà scelto. La Cina diventerà il maggior importatore di cereali del mondo e gli Stati Uniti decideranno se riempire o meno i suoi granai. Chi terrà in mano le redini dell'agricoltura avrà forza politica".

Pechino sta adottando scelte energetiche, per altro molto discusse, che comporteranno interventi radicali sul ciclo idrico.


"La costruzione di un sistema di grandi dighe rappresenta senz'altro un ulteriore elemento di preoccupazione ambientale. Ma la situazione è drammatica già oggi: la metà settentrionale del paese si sta prosciugando. Da tre anni la Cina consuma le sue riserve di cereali: le esaurirà tra la fine di quest'anno e il 2004. A quel punto un miliardo e 300 milioni di cinesi si affacceranno sul mercato entrando in concorrenza con i consumatori americani. E Pechino ha i soldi per comprare: la sua bilancia di import-export con gli Stati Uniti segna 80 miliardi di dollari a suo vantaggio: è quanto basta per comprare due volte l'intero raccolto annuale degli Stati Uniti".

Di fronte a una prospettiva del genere la Cina e gli altri paesi che rischiano di restare schiacciati dalla mancanza di autosufficienza alimentare adotteranno contro misure.


"Ma ci vuole tempo per raddrizzare la bilancia idrica di un paese. Secondo uno studio della Banca Mondiale, nella pianura settentrionale della Cina c'è un deficit annuale di 37 miliardi di tonnellate di acqua. E visto che per ottenere una tonnellata di cereali ci vogliono mille tonnellate d'acqua, questo disavanzo idrico equivale a 37 milioni di tonnellate di cereali: quanto basta per sfamare 111 milioni di cinesi. Il che significa che oggi 111 milioni di cinesi mangiano utilizzando riserve idriche non rinnovabili, cioè sottraendo l'acqua ai loro figli. Il deficit idrico, che è già gravissimo, diventerà drammatico prima di quanto si pensi".

Quando?


"Nel settembre scorso il Canada ha detto che non esporterà più cereali: li considera una riserva strategica. Lo stesso annuncio è stato fatto poco dopo dall'Australia. Questa penuria, nell'immediato, è stata compensata da un prodotto di qualità inferiore, il grano del Mar Nero. Ma è solo una boccata d'ossigeno. Di acqua ce n'è sempre meno e, visto che è molto complicato importarla, si acquista sotto forma di prodotto finito: comprare grano vuol dire innanzitutto comprare acqua. I futures del grano diventeranno i futures dell'acqua. Anche perché il 70 per cento dell'acqua utilizzata nel mondo finisce nei campi: il problema idrico è soprattutto un problema agricolo".

Quali sono le aree più a rischio?


"Nel mondo sono stati scavati milioni di pozzi che hanno prodotto un prelievo di acqua superiore alla naturale ricarica di molte falde. Per questo un crescente numero di Paesi ha il bilancio idrico in rosso. Un caso clamoroso è lo Yemen: le falde si abbassano all'impressionante velocità di due metri l'anno. Nel bacino dov'è situata la capitale, Sana'a, si arriva a sei metri l'anno: a questo ritmo entro il decennio la zona rimarrà all'asciutto e si dovrà scegliere: o importare l'acqua da dissalatori piazzati lungo la costa o trasferire la capitale. Il governo dello Yemen, nello sforzo di trovare altra acqua, ha spinto le trivellazioni per i pozzi fino a una profondità di due chilometri, una quota a cui in genere si arriva cercando petrolio, ma non è servito a molto".

Quali sono gli altri paesi ad alto rischio?


"In Iran le falde acquifere si abbassano a una velocità che va dai 2,8 metri l'anno della pianura di Cheanaran agli 8 metri della città di Mashad: interi villaggi nella parte orientale del paese vengono abbandonati perché i pozzi sono rimasti a secco. La situazione è molto critica anche in Messico, in Medio Oriente, in quasi tutti i paesi dell'Asia centrale, nell'Africa del Nord. E infatti il Marocco importa la metà dei cereali che consuma, l'Algeria e l'Arabia saudita il 70 per cento, Israele il 90 per cento".

Come si può uscire da questa trappola?


"Il primo settore che dovrà procedere a una drastica riforma è l'agricoltura. In Cina investendo una tonnellata di acqua in cereali si ottiene un prodotto che vale 200 dollari, investendo la stessa acqua in attività industriali si ricavano 14 mila dollari: non c'è gara".

L'agricoltura renderà di meno ma è difficile pensare di farne a meno.


"E infatti bisogna cambiarla. Nei paesi con il bilancio idrico in rosso si deve puntare, a costo di cambiare la dieta, su colture che richiedono meno acqua. E poi c'è da lavorare sul miglioramento dei sistemi di irrigazione".

I miglioramenti rischiano di venire annullati dal mutamento climatico prodotto dalla deforestazione e dall'uso dei combustibili fossili.


"Purtroppo è vero. Fino a poco tempo fa guardavamo con preoccupazione a un dato impressionante: i 15 anni più caldi nella storia della meteorologia sono concentrati nel ristretto periodo che va dal 1980 ad oggi. Ma ora possiamo aggiungere un altro elemento. I tre anni più caldi sono raggruppati nell'ultimo quinquennio: l'evoluzione del processo è estremamente allarmante ed è destinata ad avere un pesante impatto negativo sull'agricoltura. E' la prima volta da quando la specie umana si è fermata per coltivare la terra che il clima assume un'instabilità così accentuata. Sono 6 mila anni che utilizziamo l'irrigazione, e non sempre è stato un processo indolore come la storia della Mesopotamia insegna, ma nell'ultimo mezzo secolo l'uso delle pompe azionate da motori diesel ha sconvolto le falde idriche che diminuiscono nettamente in Cina, in India e negli stati Uniti, i tre maggiori produttori di cereali del mondo. E' arrivato il momento di ripensare radicalmente il nostro rapporto con l'acqua".

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OTTIMA AZIONE - ANCHE PERCHE' BERLUSCONI HA DATO IL SUO CONSENSO A BUSH E AGLI AMERICANI SENZA PRESENTARSI IN PARLAMENTO E SENTIRE IL PARERE DI TUTTI.

DA - IL MANIFESTO - L'INTERVISTA

«In parlamento fino al voto sulla guerra»


Week-end a Montecitorio per alcuni deputati pacifisti. Giuseppe Fioroni della Margherita: il governo si esprima


ANGELO MASTRANDREA
ROMA


Per qualcuno, come il verde Paolo Cento, sarà «un'occupazione per valorizzare il parlamento che è stato espropriato dal governo, che contrariamente agli altri paese europei non vuole discutere di guerra prima del voto all'Onu». Per qualcun altro, come il rifondarolo Giovanni Russo Spena, si tratterà di un week-end di «discussione permanente» a Montecitorio per sollecitare una convocazione urgente del parlamento. Per Giuseppe Fioroni della Margherita sarà invece una «testimonianza di presenza democratica, perché il governo deve dirci cosa pensa sulla guerra in Iraq». Scout per 30 anni, da quando ne aveva 14, democristiano da quando ne aveva 16 («sono cresciuto alla scuola di politica estera di Andreotti, e questo spiega le mie attuali posizioni»), scudo umano a Baghdad nel `91 («quando ero ancora un giovane democristiano») con l'attuale presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, ha votato no anche agli interventi in Kosovo e Afghanistan. Oggi l'opposizione al conflitto in Iraq lo porterà ad essere in piazza al fianco dei pacifisti, che hanno organizzato una presenza permanente davanti a Montecitorio per sollecitare un pronunciamento del parlamento.

Fioroni, lei ha firmato la proposta di legge per l'istituzione di una commissione d'inchiesta sull'uso delle basi e oggi torna in piazza al fianco della sinistra del centrosinistra. Senza il resto del suo partito.

Anche nella Margherita esiste una forte componente pacifista, che va da Luca Marcora a Giovanni Bianchi a Rosi Bindi e altri ancora. Quello che ci differenzia dagli altri è il grado di esposizione mediatica. Credo che sia un errore politico quello di provare a dividere il centrosinistra, che sulla guerra ha assunto una posizione politica di opposizione chiara e lineare.

Se l'intervento militare non sarà autorizzato dall'Onu...

Noi dobbiamo fare i conti con il presente. E lo scenario che ci troviamo di fronte è quello di una guerra unilaterale, senza alcuna autorizzazione del Consiglio di sicurezza della Nazioni unite. Abbiamo proposto una commissione d'inchiesta anche perché il ministro Martino non ci ha spiegato come ha concesso l'uso di infrastrutture e basi agli americani. In questo caso non possono valere i patti bilaterali e l'articolo 5 del Patto Atlantico, perché i primi, secretati e dunque non noti nemmeno ai parlamentari, fanno riferimento a un periodo di pace o a quando c'era la guerra fredda, e il secondo, che prevede la solidarietà a un paese amico se aggredito, non può applicarsi perché ci troviamo di fronte a una guerra di aggressione. Dunque assistiamo a uno stravolgimento di quell'articolo. Le autorizzazioni non potevano essere concesse senza il voto del parlamento, perché si tratta di atti di guerra.

Per questo intendete mantenere aperto simbolicamente Montecitorio nel fine settimana.

Vogliamo richiamare l'attenzione affinché nelle ore in cui il parlamento è chiuso non venga in mente a nessuno di autorizzare alcunché senza voto.

Il presidente della Camera Casini ha detto di voler aspettare la decisione dell'Onu.

Anche se il Consiglio di sicurezza non decide, il governo dovrebbe riferire con la massima urgenza al parlamento e dire cosa vuole fare. Berlusconi sta dando l'idea di un'Italietta che va come capita, e questo ci fa perdere di credibilità e dignità. Ha eletto l'opportunismo e l'ambiguità a regola, dividendo l'Europa. E poi è preoccupante che, proprio nel momento in cui servono grandi organismi internazionali democratici che governino la globalizzazione, l'Onu sia ridotta a un mercato. Forse è meglio che i mercanti vadano fuori dal tempio.

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GIUNGE AL TRAGUARDO LA BATTAGLIA REFERENDARIA PER L'ARTICOLO 18 - MI RACCOMANDO RAGAZZI NON MOLLIAMO PROPRIO ADESSO E CONCENTRAZIONE.

DA - IL MESSAGGERO

Nel giro di un mese milioni di italiani saranno chiamati per ben tre volte ad andare a votare. L’opposizione divisa protesta, per opposti motivi
A giugno doppio voto: ballottaggi e referendum
Amministrative il 25 maggio, secondo turno l’8. E il 15 giugno alle urne per l’articolo 18

ROMA - Le amministrative che coinvolgeranno oltre 12 milioni e mezzo di elettori si svolgeranno il prossimo 25 maggio e gli eventuali ballottaggi l’8 giugno. Lo ha deciso, su proposta del titolare del Viminale, Pisanu, il Consiglio dei ministri, lasciando insoddisfatti nell’opposizione sia quanti - come la maggioranza dei Ds e la Margherita - avrebbero voluto una maggiore distanza del secondo turno elettorale dalla data del referendum sull’articolo 18, sia quelli che al contrario - come Rifondazione, Verdi e il Comitato per il sì - avrebbero voluto recarsi alle urne per amministrative e referendum nella stessa domenica allo scopo di guadagnare una maggiore partecipazione al voto sull’articolo 18.
Dando per scontato che nessuna decisione avrebbe accontentato tutti, il governo ha confermato le date che già circolavano per lo svolgimento di una tornata elettorale di tutto rispetto, alla quale - soprattutto i vincitori - non esiteranno ad attribuire un rilevante significato "politico". D’altra parte alcune delle sfide in programma sono sul proscenio della politica italiana da tempo, come quella che si gioca in Friuli Venezia Giulia, e che però finora è stata più un duello per la scelta del candidato della Casa delle libertà. Altro duello di grande effetto quello in cui i 3.289.000 elettori della provincia di Roma dovranno scegliere tra l’uscente presidente del Polo Silvano Moffa e lo sfidante Enrico Gasbarra del centrosinistra. Si voterà anche in un’altra Regione a statuto speciale, la Valle d’Aosta e in altre 11 province: Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Agrigento, Trapani, Enna, Caltanissetta, Foggia, Benevento e Massa Carrara. Dieci sono poi i capoluoghi di provincia in cui si rinnovano anche le amministrazioni comunali: Brescia, Sondrio, Treviso, Vicenza, Udine, Massa, Pisa, Pescara, Messina e Ragusa, assieme a quelle di altri 498 comuni minori. Insomma, diversi milioni di italiani chiamati più volte alle urne nell’arco di meno di un mese. Circostanza che ha pesato nella scelta delle date, come sottolinea un comunicato del Consiglio dei ministri che ha dovuto tener conto «dell’esigenza di ridurre al minimo l’impatto delle giornate elettorali sulla conclusione dell’anno scolastico, l’8 giugno, e su importanti eventi pubblici come la festa della Repubblica, il 2 giugno, e il raduno nazionale degli Alpini ad Aosta, l’11 maggio».
Una spiegazione, questa che lascia insoddisfatti Margherita e Ds, il cui coordinatore della segreteria Vannino Chiti afferma che «sarebbe stata preferibile un’altra soluzione, con un periodo di tempo più ampio tra le amministrative e il referendum. D’altra parte - aggiunge l’esponente ds - non saranno queste furbizie a fuorviare la scelta degli elettori che baderanno ai programmi e ai contenuti». Di contro, il Comitato del sì al referendum afferma che l’accorpamento delle date di amministrative e referendum avrebbe evitato «un notevole risparmio di fondi pubblici e avrebbe favorito il voto nelle migliori condizioni di partecipazione possibile dei cittadini».

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FINALMENTE IL SINDACO ALBERTINI SI E' ESPOSTO COME SEMPRE E' STATO - QUESTA SI CHIAMA TRUFFA .... DIVERSA DA TANGENTOPOLI MA CON LE STESSE BASI.

«Emendamenti fantasma», Milano rischia la crisi
Contro l’ostruzionismo della minoranza, il Polo nasconde in cassaforte modifiche "in bianco". Interviene la Digos

di FABRIZIO RIZZI

MILANO - Che sia un «atto di goliardia», come ha detto il capogruppo di An, Marco Ricci, è tutto da vedere visto che la Procura di Milano ha aperto un fascicolo che verrà esaminato oggi dal Procuratore aggiunto, Corrado Carnevali. Le ipotesi di reato, da valutare, potrebbero essere di falso o di abuso d’ufficio, oppure di attentato ai diritti politici dei cittadini. E se ci sarà l’inchiesta, cosa tutt’altro che remota, sul Comune di Milano, fiore all’occhiello delle Casa delle libertà, aleggia l’ombra del commissariamento. Nel frattempo volano le accuse, con il Centro-sinistra che chiede le dimissioni della giunta di Gabriele Albertini e la maggioranza di Centro-destra che risponde picche. «Si va avanti a oltranza».
Un fulmine a ciel sereno si è abbattuto la notte scorsa su Palazzo Marino, sede del Comune, quando la maggioranza del Polo, a poco meno di quindici giorni dal termine utile per l’approvazione del bilancio, tenta di sottrarre all’esame delle opposizioni una novantina di emendamenti. Per superare un prevedibile quanto forte ostruzionismo (c’è una montagna di ben 2700 emendamenti) e colmare il ritardo, qualcuno, nel Polo, si inventa un escamotage. E prepara dei fogli in bianco, già firmati dai capigruppi del Polo, poi li richiude in cassaforte. E’ un modo, si dice, per velocizzare le procedure: dovranno servire a scrivere, in tutta fretta, provvedimenti-quadro che superino i 2700 emendamenti della minoranza. Il Centro-sinistra si insospettisce e chiede di poter vedere gli emendamenti del Polo, che invece sono blindati nel forziere. Scoppia la bagarre. I consiglieri di centrosinistra bloccano l’aula e fanno scudo con i propri corpi. Non si tocca nulla fino a quando non arriva polizia. Gli agenti della Digos sequestrano il contenuto della cassaforte. Viene avvertito il Pm di turno, Francesca Chiuri, la quale ordina anche ai vigili urbani di acquisire copia dei documenti e di raccogliere le denunce. Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori, piomba in piena notte e firma un esposto nel quale ipotizza il reato di abuso d’ufficio. «Hanno cercato di fare il gioco delle tre carte - accusa l’ex Pm di Mani pulite - ma non gli è riuscito. Sono stati presi con le mani nella marmellata. La marmellata non l’hanno presa, ma le mani ce le avevano dentro. Non è questo un reato?». Ma Paolo Romani, coordinatore di Forza Italia, non la pensa nello stesso modo. «Non vedo dove sia il reato. Alla provocazione di oltre duemila emendamenti, si è risposto con un’altra provocazione. Non è vero che si è trattato di emendamenti in bianco, ma di moduli prestampati su cui non era indicata alcuna cifra». Insomma, per Romani è stata «una tempesta in un bicchier d’acqua». Il capogruppo della Lega Nord, Matteo Salvini, ribadisce che «non c’è stata alcuna irregolarità, c’è qualcuno che non vuole che il bilancio sia approvato».
Ieri pomeriggio c’è stato un vertice con sindaco, vice-sindaco, alcuni parlamentari, capigruppo ed il presidente del Consiglio, Giovanni Marra, diventato l’obiettivo delle accuse (i Ds ne hanno chiesto le dimissioni «avendo impedito fisicamente per 10 ore ai vice-presidenti del Consiglio di visionare gli atti amministrativi»). Muro compatto: andare avanti. In un comunicato è spiegato che «l’iniziativa della maggioranza è stata un atto simbolico per denunciare le carenze del regolamento dell’aula che possono bloccare il funzionamento dell’assemblea». Poi una promessa: «Siamo compatti e pronti a discutere, giorno e notte, gli oltre 2mila emendamenti presentati dalle opposizioni». Quando è stato chiesto ai leader del Polo si avevano intenzione di piegarsi alle richieste di dimissioni lanciate, in particolare, da Ds, socialisti, il leghista Salvini ha tagliato corto, «Dimettermi? Non ci penso neanche» mentre Vincenzo Giudice, capogruppo Forza Italia, è stato perentoprio: «Non gli rispondo nemmeno». Ma le opposizioni annunciano battaglia, pur con distinguo. Dalla Chiesa chiede lo scioglimento del consiglio, i Ds no, solo quelle di Marra. Lunedì una delegazione Ds vedrà il prefetto, nel pomeriggio manifestazione di protesta.

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IN PROPOSITO C'E' ANCHE UN BELL'ARTICOLO DI MAX MAX SU NAMIR CHE VI INVITO A LEGGERE :

DA - LA STAMPA

Aldo Moro fu rapito 25 anni fa,
il 16 marzo 1978 alle ore 9.02

15 marzo 2003

ROMA. Grande assente alla manifestazione in ricordo di Aldo Moro, il figlio Giovanni che ai promotori ha inviato una lettera nella quale esprime il suo disagio.

''Provo disagio per la mancanza di una seria riflessione del mondo politico su quei fatti'' ha scritto a Francesco Rutelli il figlio dello statista ucciso dalle Br.

''La classe politica italiana - continua Moro - ha un conto aperto con Moro e fatica ad ammetterlo.

Alla commemorazione in corso a Roma c'e' invece la figlia di Moro, Maria Fida.

In occasione del 25/o anniversari del rapimento di Aldo Moro, il capogruppo della Margherita, Castagnetti, propone di riaprire la commissione stragi.

E sempre sul caso Moro, Francesco Cossiga ha oggi confermato quanto rivelato qualche giorno fa da Giulio Andreotti sul tentativo del Vaticano di pagare, in extremis, un ingentissimo riscatto il 9 maggio del 1978 , la mattina in cui in via Caetani venne ritrovato il cadavere dello statista ucciso dalle Br.

'Oggi lo scenario all' interno del quale si muovono le nuove Br e' completamente diverso da quello nel quale operavano le Br che rapirono e poi uccisero Moro, ha detto il sottosegretario Mantovano secondo cui allora le Br erano una avanguardia armata e sentivano se stesse come tale. Alle spalle avevano una rete di collusioni, complicita' in ambiti piu' vari.

Oggi lo scenario e' diverso. Quanto al legame tra terrorismo nostrano e gruppi islamici 'la questione non e' nuova per l' Italia' e merita attenzione.

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PER LA PACE QUESTO ED ALTRO - E AGGIUNGO L'ALTRO - TUTTA LA RAI E I TG NON NE HANNO DATO INFORMAZIONE - NEANCHE UNA BREVE NOTIZIA - QUESTO FA CAPIRE NON SOLO QUANTO IL GOVERNO BERLUSCONI SIA NEGATIVO SULLA COMUNICAZIONE - MA SOPRATTUTTO QUANTO L'ITALIA SIA SOGGETTA ALL'AMERICA.

DA - L'UNITA'

Milano, altre 700 mila bandiere di pace: «Sciopero quando cadrà la prima bomba»
di Oreste Pivetta

MILANO. Una bella giornata di marzo alla vigilia di un incubo. La guerra non sarà qui, ma in città e in un deserto lontani. Milano ha vissuto così le sue ore di pace, forse le ultime, temendo la guerra che arriva in Iraq, aspettando notizie che ispirassero fiducia, sentendosi davvero una volta città del mondo, assieme a Waghington, Tokio, San Francisco, Los Angeles, Amman, Baghdad, Barcellona, Madrid... Quando Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, dal palco davanti alla Stazione Centrale, ha annunciato che alle prime bombe il paese si fermerà, l’applauso è stato lungo e soprattutto c’era del cuore in quell’applauso, il cuore di gente che vorrà fino in fondo dimostrare la voglia opposta, non di bombe, ma di pace, e il proprio lutto per i morti e le distruzioni che saranno.
Settecentomila persone e forse di più, la questura diceva almeno quattrocentomila e davvero la guerra delle cifre sarebbe adesso soltanto comica. C’è riuscita la Cgil da sola, senza la Uil, senza la Cisl, senza i partiti, senza i movimenti, perchè la manifestazione era nata sindacale e basta, in difesa dei diritti e dell’articolo diciotto. Le ultime minacce le hanno regalato quest’altro compito: dare voce ancora alle speranze di pace. Così il corteo è diventato un mare di colori, di bandiere arcobaleno, in una città grigia che svegliandosi giorno dopo giorno si ritrovava anch’essa più colorata. Le bandiere alle finestre a Milano sono tantissime e fa un bell’effetto dalla strada guardare in su, ritrovandosi meno solitari, vicini ad altri con la stessa convinzione.
Per essere settecentomila e più sono arrivati da tutta Italia, faticando assai. Non è stata una gita e Milano non si presta alle gite di gruppo. Non ci sono neppure panchine per riposare. Ci vuole coraggio per partire dalla Sicilia, dalle Puglie, dalla Calabria, dalla Sardegna o dall’alto Adige, da tutte le regioni. Giovani e anziani e bambini. La signora stanca se ne stava seduta, con il suo cappottino grigio ripiegato sul primo gradino libero: troppi chilometri per lei, a piedi, dopo un viaggio di centinaia di chilometri, appoggiata al suo bastone, e si capiva dal viso segnato. Ma c’era con tutti gli altri e lo potrà ricordare.
Una manifestazione mai vista così grande a Milano, intonava lo speaker, una donna, Ardemia Oriani, segretario dello Spi, mai vista nella storia cittadina. Tre cortei si erano avviati alle due del pomeriggio dal Duomo, da piazzale Cadorna di fronte alla Stazione Nord, da piazzale Loreto. Per strade diverse si sono avvicinati lungo le vie che, come i raggi di un semicerchio, si chiudono sul piazzale della Stazione Centrale.
Le manifestazioni, direbbe un "vecchio" manifestante, non sono più quelle di una volta. Il corteo va bene, ma ci si disperde anche. Diventa, malgrado tutto, malgrado il nero all’orizzonte, una festa. L’effetto è d’invasione. Prima d’arrivare, fin nei quartieri periferici, sembrava una città vuota, immobile, silenziosa. Persino le macchine a casa. Appena arrivati, sbucando, come mi è capitato, da un mezzanino della metropolitana, un’onda di colori e di persone. Mi accolgono i ragazzi in tuta bianca, i disobbedienti. Mi guardo attorno e vedo maschere bianche: l’idea era stata dei lavoratori del sommerso, l’etichetta sulla maschera è della Filcams, il sindacato del commercio, la maschera bianca rappresenta i diritti negati... Però la maschera bianca sembra avere così anche l’espressione della morte. Epifani lo dirà: la guerra e i diritti negati non sono questioni così lontane...
Da un camion scendono canzoni forti. Ma la canzone più gridata dagli altoparlanti o sussurrata da appena qualche fila del corteo è sempre "Bella ciao", eterna, cambiano solo il ritmo e l’intonazione. La sentiremo anche alla fine, dall’impianto del palco. "Bandiera rossa" e "Avanti popolo" sono state lasciate al Vietnam. "Bella ciao" resiste, perchè è bella, facile, orecchiabile. Forse soprattutto perchè c’è nelle sue parole e nella sua aria il ricordo della nostra storia migliore: l’antifascismo, la resistenza comune, la liberazione.
La bandiera più grande è retta ai lati da trenta o quaranta ragazzi: una bandiera della pace naturalmente, sulla quale di traverso è stato aggiunto un telo bianco con la scritta: articolo diciotto.
Le bandiere della pace sono migliaia. Poi ci sono quelle del sindacato, della Cgil, qualcuna anche di altri sindacati. Ci sono bandiere di partiti della sinistra... Gli scriscioni sono tanti: delle organizzazioni, ma anche semplicemente per dire «pace, pace». Ragazzi con la faccia nerissima e i capelli crespi ne alzano uno, che reclama: «sanatoria, sanatoria». Sidibe, il marabutto senegalese, che a Milano a tempo perso fa l’attore, spiega che sono contro il bollino rosso che li caccia perchè ormai italiano, persino iscritto al sindacato e che la sua sua è la storia di tutti. La manifestazione è, come capita sempre di più, multirazziale. Le bandiere della Cgil, in un angolo tricolori, sventolano sulle spalle di maghrebini, nigeriani, senegalesi, filippini.
Si sono viste due bandiere degli Stati Uniti e un cretino che dal balcone del quarto piano mostrava l’indice al corteo, invitando il corteo a salire. Un cretino e basta di fronte a chilometri e chilometri di strada e di persone. L’Italia si schiera per la pace e pensa che «ogni minuto guadagnato...», così leggo, mentro ascolto «Curre curre, guagliò...».
L’uso del drappo colorato: dopo la bandiera, il cappelluccio, la bandana, il fiochetto, il fazzoletto, la striscia ad annodare i cappelli. Aveva incominciato Emergency: portate un pezzetto di stoffa bianca per dimostrare da che parte state. Se lo portarono, legato al sellino della bicicletta, anche i corridori al Giro d’Italia.
Ci sono quelli che stanno fuori da sempre. Però se il corteo ha i suoi rami e ramoscelli laterali, quelli che stanno fuori finiscono per ritrovarsi in mezzo. E nessuno rifiuta. Mai come questa volta una manifestazione è stata ovunque. Antonio Panzeri, che è il segretario della Camera del lavoro di Milano, ha ragione di esprimere la sua gioia: «Una grande prova. Quella di oggi è stata la più grande manifestazione che si ricordi a Milano. Larghissima è stata l’adesione e la partecipazione dei cittadini milanesi e della città sia alla manifestazione che con le bandiere esposte...». Quelle che il nostro governo illuminandosi di ridicolo aveva persino tentato di vietare, come ricorderà Epifani.
Alle cinque si chiude. Alle cinque e cinque il palco è già pronto per essere smontato. La gente se ne va lentamente e ripercorre, come un altro fiume, vie a ritroso, ripensando alle cose dette: la pace e la guerra, intanto, i diritti, il lavoro che non c’è, la crisi economica. Capisce che dovrà mettere in conto un po’ tutto, se non capiterà un miracolo. Però si dà il senso dell’unità. E si chiede perchè non ci sia più unità anche nella politica.

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MILANO. Oltre settecentomila persone in favore della pace e della tutela dei diritti. Questa è stata la manifestazione che si è svolta oggi a Milano, la più grande della storia per il capoluogo lombardo. La protesta ha così unito temi fondamentali dell'attuale dibattito politico.

I cortei sono stati tre e sono partiti rispettivamente da piazzale Cadorna, piazza Duomo e piazzale Loreto, per poi congiungersi in prossimità della Stazione centrale, dove si è tenuto il comizio del segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Il leader sindacale ha parlato dei venti di guerra che spirano in questo momento sull'Iraq e della concreta possibilità per questo movimento pacifista di influire sulle scelte dei leader mondiali e di poter evitare la guerra.

I cortei sono stati coloriti e rumorosi, con tanti militanti e tantissime persone comuni, giunte anche da regioni lontane come il Lazio e la Campania. Cori e striscioni non sono mancati, obbiettivo prefertio Silvio Berlusconi, rappresentato anche da un pupazzo con le sue sembianze vestito da militare. Uno striscione recitava: «San Silvio da Arcore che liberò l'Italia dalla giustizia, dalla libertà e dalla convivenza pacifica».

Tante le voci all'interno del corteo. Enzo, attivista della Cgil chiede «impegno da parte del governo per i diritti e la pace. Sono venuto da Forlì in pulman, siamo partiti alle 8 con altre duecento persone. La manifestazione è bellissima, basta guardare le facce pulite delle persone che sfilano per capire come la ragione sia dalla nostra parte. Speriamo che la nostra mobilitazione possa servire veramente a cambiare le cose».

Dario, ventinove anni, viene dalla Brianza con il suo gruppo musicale: «Siamo una decina, presenti a tutte le manifestazioni, ci chiamiamo Spakka Brianza ed abbiamo tra i ventotto ed i trent'anni. Suoniamo insieme al Gruppo Briganti, meridionali e specializzati nelle canzoni popolari del Sud Italia. La nostra fusione piace molto ai manifestanti e quindi continuiamo. Il prossimo appuntamento è la marcia della pace che andrà dalla Brianza a Lecco. Lì faremo un concerto a fine corteo».

Giorgio ha cinquantacine anni e viene da un piccolo paese in provincia di Pavia, Torre Vecchia Pia: «E venuto anche il sindaco, siamo in tutto trenta persone. Siamo qui per mettere in discussione le certezze che molti sembrano avere sul lavoro sempre più precario e sulla guerra, vista come l'unica soluzione delle crisi».

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UNA BELLISSIMA INTERVISTA PER POTER ELIMINARE LA REPRESSIONE NEI CONFRONTI DEI PALESTINESI :

DA L'UNITA' :

Il dialogo può ripartire, ciascuno rinunci ai veti

«Non un solo missile è stato ancora lanciato contro Baghdad e già la guerra ha provocato dei danni gravissimi, forse irreparabili, in organizzazioni internazionali come l’Onu e la Nato. Il conflitto senza precedenti che oppone gli Usa ai suoi alleati tradizionali è una vera catastrofe che può avere ricadute devastanti, a cominciare dal tormentato Medio Oriente». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative della sinistra israeliana: Yossi Sarid, membro della Commissioni Esteri e Difesa della Knesset, già ministro nei governi a guida laburista ed ex leader del Meretz, la sinistra sionista. «Da amico degli Stati Uniti e da israeliano impegnato nella ricerca della pace e nella lotta al terrorismo, ritengo che una guerra all’Iraq combattuto senza l’avallo delle Nazioni Unite, rischia di fare il gioco di criminali della portata di Bin Laden e di Gheddafi, i quali attendono solo che il "nuovo ordine mondiale" consenta loro di agire liberamente». E sul rilancio del «tracciato di pace» del Quartetto (Usa, Russia, Onu, Ue) operato ieri da George W.Bush, Yossi Sarid osserva: «Tra le condizioni poste da Bush all’attivazione del "tracciato di pace" vi è anche il blocco della politica degli insediamenti da parte dell’attuale governo israeliano. Richiesta assolutamente condivisibile che confligge apertamente, però, con un governo in cui uno dei partiti membri (il Partito nazionale religioso, ndr.) ha condizionato la sua presenza allo sviluppo della colonizzazione dei territori occupati».


Israele si prepara alla guerra all’Iraq.


«Una guerra non ancora iniziata e che ha già fatto le sue prime "vittime" politiche...».


A cosa si riferisce?


«Alla spaccatura interna al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e nella Nato. L’indebolimento degli organismi internazionali non aiuta di certo la definizione di nuovi e più solidi equilibri di pace nelle aree "calde" del mondo, a cominciare dal Medio Oriente».


C’è chi sostiene, a Washington come a Gerusalemme, che la guerra in Iraq e l’eliminazione di un regime spietato quale quello di Saddam Hussein, può aprire nuove prospettive alla pace in Medio Oriente.


«Non sono di questo avviso. Non credo che questa guerra sia negli interessi di Israele. Temo l’esatto contrario. Temo che la guerra in Iraq resusciti o rafforzi i demoni dell’antisemitismo, e accresca le fila di quanti, e non solo nel mondo arabo, sono convinti che questa guerra sia condotta contro l’insieme dell’Islam da parte dell’America sotto l’influenza di Israele e degli Ebrei».


Resta la pericolosità di Saddam Hussein.


«Che si tratti di uno dei più feroci dittatori che la storia contemporanea abbia conosciuto è fuori discussione. Ma il problema per gli Stati Uniti e, di riflesso, per Israele non è vincere la guerra, ma è "vincere" la pace nel dopo-Saddam. Una vittoria, quest’ultima, tutt’altro che scontata. La mia convinzione è che criminali della pericolosità di Osama Bin Laden o di un Gheddafi, si stiano sfregando le mani in attesa del "nuovo ordine mondiale" che permetta loro di agire liberamente, facendo leva sull’accresciuta ostilità del mondo arabo e musulmano contro gli Usa, l’Occidente e Israele».


Da una guerra annunciata ad un conflitto che da anni non ha soluzione di continuità: quello israelo-palestinese. Il presidente Usa ha rilanciato il «tracciato di pace» del Quartetto.


«Quel "tracciato" contiene in sé i presupposti per riavviare il negoziato, a patto che nessuna delle parti in causa ricominci con la logica perversa dei veti e delle pregiudiziali».


Cosa significa questo per il governo Sharon?


«Bloccare la colonizzazione dei Territori. Una richiesta ribadita dallo stesso Bush ma che confligge con la presenza nell’attuale governo di due formazioni politiche, il Partito Nazionale Religioso e l’Unione Nazionale, che sono proiezioni partitiche del movimento dei coloni. Ciò significa che gli Usa e gli altri partner del "Quartetto" devono far seguito agli auspici pressioni concrete su Sharon perché accetti seriamente di muoversi lungo quel "tracciato di pace"».


L’altra sottolineatura di Bush riguarda gli effettivi poteri attribuiti al neo primo ministro palestinese Abu Mazen.


«Conosco molto bene Abu Maze e apprezzo la sua statura politica e intellettuale. È stato uno dei protagonisti di quella diplomazia segreta che portò al disgelo tra Israele e Olp, e agli accordi di Oslo-Washington. Abu Mazen accetterà l’incarico solo se avrà la certezza di poter esercitare la massima influenza nei negoziati con Israele. È giusto insistere sui poteri effettivamente assegnati ad Abu Mazen ma sarebbe del tutto strumentale chiedere ad Abu Mazen di emarginare Arafat. La sua nomina a primo ministro apre di fatto una fase nuova nella vita politica palestinese, non più segnata dall’assolutismo arafattiano».


Cosa dovrebbe fare Israele per consolidare la leadership di Abu Mazen?


«Dimostrare una reale disponibilità al negoziato, allentando la morsa nei Territori e ponendo fine alle punizioni collettive. Ma ho forti dubbi che un governo come quello guidato da Ariel Sharon possa agire in questa direzione».

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E UN'ALTRA INTERESSANTE SU L'ONU :

DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA :

"L'Onu rischia la paralisi come negli anni 50"

«L’Onu rischia una paralisi simile a quella degli anni della Guerra Fredda». E’l’opinione di Giandomenico Picco, già vicesegretario delle Nazioni Unite ed esperto di strategie.


I caschi blu del Bangladesh si stanno ritirando dalla fascia smilitarizzata tra Iraq e Kuwait. L’Onu ammaina la bandiera?


«I caschi blu pattugliano quella zona da dodici anni. Il quartier generale dell’Onu ha dato disposizioni affinché sia tutelata l’incolumità dei militari schierati. Anche in Iraq è stata ritirata una parte del personale. Se vi sarà lo scontro frontale questi rappresentanti delle Nazioni Unite si troverebbero in mezzo alla battaglia. Anche il personale delle ambasciate, giorno dopo giorno, viene ridotto a Baghdad. Per l’Onu è un momento difficile».


Un intervento unilaterale americano potrebbe rappresentare il "de profundis" per le Nazioni Unite?


«La Francia e gli Stati Uniti stanno facendo di tutto per ottenere voti, stanno operando all’Onu, per entrambi il voto al consiglio di sicurezza è decisivo e ciò conferma che le Nazioni Unite svolgono un ruolo importante, altrimenti il ministro francese de Villepin non sarebbe in viaggio per le capitali africane per ottenere l’appoggio di quei paesi e la diplomazia Usa non sarebbe "all’attacco". Il problema è cosa avviene dopo, uno dei due schieramenti deve vincere. L’Onu cambierà, le Nazioni Unite non saranno più quelle di oggi».


Dalle sue parole emerge una forte preoccupazione sul futuro dell’Onu.


«Certamente. Si possono ipotizzare diversi scenari. Il più grave vede la sparizione dell’Onu, ciò può accadere se una delle grandi potenze si ritira dal Palazzo di vetro, sarebbe davvero la fine delle Nazioni Unite. Ma non siamo a questo punto. La situazione si potrebbe evolvere diversamente. Durante la Guerra Fredda il Consiglio di sicurezza venne paralizzato per molto tempo, ma non per questo le Nazioni Unite erano finite. Si può dunque immaginare forse non una paralisi, ma una certa difficoltà ad affrontare alcune crisi, il caso Nord Corea ad esempio. Questa è la domanda da porsi: il consiglio di sicurezza sarà paralizzato come durante la Guerra Fredda?»


Nessun altro scenario è immaginabile?


«Le cinque potenze con diritto di veto dovrebbero prendere un "momento di respiro" per poi riunirsi nuovamente e decidere che cosa fare dell’Onu».


Il veto rappresenterebbe una novità assoluta...


«Il veto francese rappresenterebbe un’importante novità. Quel che mi chiedo è se non stiamo assistendo ad una manifestazione della "vecchia Europa" come dice Rumsfeld, oppure, al contrario, alla nascita di una nuova Europa dall’Atlantico agli Urali».


Che potrebbe però esordire con una sconfitta al consiglio di sicurezza...


«Non si tratterebbe di una sconfitta, al contrario potrebbe emergere un’Europa che ha deciso di prendere una posizione che rappresenta i sentimenti dei suoi cittadini. Una sconfitta "procedurale" metterebbe tuttavia in luce un forte orgoglio. L’Europa dovrebbe cercare un altro ruolo, non competitivo con quello degli Stati Uniti, ma semplicemente diverso. Stati Uniti ed Europa sono oggi in competizione e ciò, a mio avviso, è impossibile».


Sul piano militare, come rivelano i preparativi per la guerra, il gap tra Europa e Stati Uniti è enorme...


Il divario è progressivamente aumentato negli ultimi dieci anni. In Europa se un esponente politico parla di Dio e delle spese militari non ottiene consensi, in America succede il contrario, l’elettorato reagisce diversamente. La cultura sociale e politica dell’Europa è stata fondata negli ultimi sessanta anni sulla socialdemocrazia e la cristiano-democrazia. Negli Stati Uniti nè l’una nè l’altra cultura hanno mai piantato radici».


Tornando alla battaglia che si annuncia al Consiglio di sicurezza è possibile, secondo lei, avanzare un pronostico sul voto della prossima settimana?


«La battaglia per conquistare il voto degli incerti è ancora in atto, si voterà al più presto martedì, e dunque c’è ancora tempo per fare "campagna elettorale". E’possibile che fattori non diplomatici giochino un ruolo la prossima settimana, gli anglo-americani hanno indicato una data precisa, quella del 17 marzo. Potrebbe scattare qualcosa all’interno dell’Iraq, qualcuno tra i dirigenti di Baghdad potrebbe interrogarsi sul quel che sta per accadere, vi potrebbero essere reazioni "sul terreno" che noi, allo stato attuale, non possiamo certo prevedere».


La Lega Araba ha inviato una delegazione a Baghdad, da tempo si parla di piani segreti per indurre Saddam Hussein a farsi da parte ed evitare l’attacco...


«Nessuno al mondo conosce veramente bene Saddam. L’ho incontrato molte volte in passato, negli anni ottanta quando negoziavamo la fine della guerra con l’Iran, ma non credo che sia la stessa persona, credo che sia cambiato. Negli ultimi anni poche persone hanno avuto accesso al palazzo del raìs».


La crisi dell’Onu potrebbe proiettare i suoi effetti anche sulle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite con effetti devastanti nei paesi in via di sviluppo?


Non credo, negli ultimi anni il budget dell’Onu è aumentato, gli Stati Uniti hanno pagato gran parte dei loro debiti. Le agenzie, come è accaduto in passato ad esempio all’Unesco, possono sopravvivere anche alla mancanza di partecipazione delle grandi potenze. L’attività tecnico-umanitaria può proseguire. Il vero problema è se la crisi dell’Onu coinciderà con la crisi del sistema internazionale che conosciamo dal 1945. Questo è il vero pericolo».

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DA - MILANO FINANZA :

Telecom pareggia i conti in Borsa dopo mega riassetto 19:40
Ma l'operazione, soprattutto per ciò che riguarda la fusione Olivetti-Telecom, pur avendo una sua logica industriale, ha destato più di una perplessità: innanzittutto i tempi, l'incremento dell'indebitamento, il rapporto di concambio, il trasferimento di valore da Telecom Italia ad Olivetti. La fusione preoccupa anche Assogestioni
continua

18:40
Cda all'acqua di rose per piazzetta Cuccia. Smentite quindi le attese che preannunciavano uno scontro con i rappresentanti di Unicredit e Capitalia. Nessuna dimissione ai vertici, dunque. Tutto rimandato a fine aprile, giorno dell'assemblea di Generali, oggi ancora alla ribalta in Borsa. Ma prima di questa data, secondo quanto risulta a MF interattivo, è previsto un Cda di Mediobanca per discutere l'affaire Generali
continua

17:40
Il Lingotto paga l'indecisione di GM e il no di Axa all'acquisto di Toro, per cui comunque si sono fatte avanti Hopa e Unipol. Finmeccanica lavora su dossier Fiat Avio. Agnelli conferma trattativa con un potenziale compratore. STM alla ribalta. TI torna ai livelli pre-riassetto. Giù Olivetti e Pirelli. Acquisti a raffica sui bancari, risparmio gestito. Alleanza meglio di Generali. Riscatto di Eni ed Enel. Forti Tod's e Bulgari
continua

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E ANCHE PER QUESTA DOMENICA - UN BACIO DA PARTE MIA - SPERIAMO CHE LA PROSSIMA SIA MIGLIORE.

LUANA.