Il popolo di Seattle.

Cristiana Formetta

 

Si abusa costantemente del termine "popolo". In radio, in televisione, e sui giornali. Nelle campagne pubblicitarie come negli spot elettorali. I magazine economici ci hanno etichettato come un popolo di baby pensionati, la stampa internazionale, di tanto in tanto, ci ricorda che siamo un popolo di evasori fiscali.

Addirittura il Papa, nella sua buffa mescolanza di italiano e polacco, in riferimento al sempre maggior numero di immigrati che arrivano ogni anno nel nostro paese, ci indica come un "popolo multirazziale". E qualche mese fa, il giornalista Onofrio Pirrotta, nella Rassegna Stampa su Rai Tre, ha definito gli italiani come "il popolo di internet".

Un tempo, noi italiani eravamo un popolo di poeti, di santi e di navigatori. Oggi, per i mass media, questo non è più sufficiente.

L'ultimo paradosso è arrivato da Bologna, in occasione della manifestazione del 14 giugno contro il vertice Ocse. Un ottimo pretesto per affibbiarci anche l'appellativo di "popolo di Seattle". Tutti in piazza, tutti in prima fila a protestare contro la globalizzazione che divora il mondo. Era gia successo a Genova, nel dibattito sui cibi transgenici che ha coinvolto ambientalisti, scienziati e istituzioni. Tutti a litigare sulle biotecnologie, su questa grande novità che affascina e spaventa, e che rappresenta un terreno fertile per i movimenti più radicali. Intendiamoci, la polemica che è esplosa nel nostro paese muove da una giusta causa, ed ha il merito di aver riportato alla luce una coscienza ecologista a lungo sepolta. Ma c'è un lato oscuro in questa faccenda, un particolare che mi insospettisce. Troppe volte l'Italia ha abbracciato nuove crociate, e troppe volte queste crociate sono cessate improvvisamente, piombando nel silenzio, senza lasciare tracce. Contro la pena di morte, contro l'aggravarsi del debito estero, contro l'uso del PVC nei giocattoli per bambini, e adesso contro la globalizzazione e i cibi transgenici. Tutte campagne che hanno avuto testimonial eccellenti e una forte risonanza a livello mondiale. Proprio per questo vorrei riportare l'attenzione su un fatto di cronaca piccolo piccolo.

Nel delfinario di Gardaland quest'anno sono gia morti tre delfini, per un infarto o con la schiena spezzata. Conseguenza dell'allenamento intensivo al quale sono sottoposti, per sostenere al meglio quei cinque o sei spettacoli al giorno.

Nessuno ha protestato, nessuno ha gridato allo scandalo, e fuori, la gente, ignara, continua a fare la fila per il biglietto.

Dove sono allora questi italiani, questo popolo di Seattle?

Confessiamo, gente. Siamo un popolo dalle mille contraddizioni.

Cristiana Formetta è nata a Salerno nel 1972, ed è cresciuta leggendo Kafka e ascoltando i Sex Pistols. Nel 1999 ha vinto il concorso "Raccontarsi. Una generazione che parla di sé" organizzato dalla Sinistra Giovanile in collaborazione con la casa editrice Transeuropa. Per le edizioni Addictions ha partecipato all'antologia "Scroll Stories. Racconti dalle chat" (maggio 2000). Attualmente collabora al sito web JAMCAFE' MAGAZINE, contenitore di arte e letteratura. E-mail:

 

Risposta Redazione Namir

Noi crediamo che quanto accade ai delfini sia degno di attenzione, magari anche di azione, inviando al delfinario in email o posta tutto il nostro dissenzo. Pero' non si puo' confondere appellandole, neanche nell'avvelimento per una distratta societa', - INUTILI - tutte le contestazioni fatte nei confronti di situazioni - sistematiche sociali - alle quali, in qualche modo bisogna rispondere. Cosi' sara' anche vero che il popolo di Seattle non si interessa dei Delfini ( non ci giurerei affato ) o che gli altri popoli ( gruppi ) si interessino di altro....ma cio' non vuol dire che tutti insieme non cerchiamo di migliorare la quotidianita', chi in un punto chi un altro, anche se, come lei scrive, bisogna essere piu' attenti e piu' veri.

 

 

 

 

 

 

 

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